Il Giornale 15 agosto 2006
di Maurizio Belpietro
Può un ex terrorista che voleva abbattere lo Stato, e riuscì «solo» a concorrere ad abbattere un agente di polizia, diventare venticinque anni dopo, mentre la sua vittima giace sotto un metro di terra, parlamentare di quello stesso Stato che s’impegnò a distruggere? Può l’ex terrorista divenuto deputato guadagnare diecimila euro al mese, più duemila come segretario d’aula, avere a disposizione un’auto blu e quattro segretari, mentre la vedova dell’agente assassinato riceve dal medesimo Stato meno di settecento euro al mese?
D’Elia ha pagato il suo conto con la giustizia: condannato a 25 anni ha beneficiato degli sconti di pena,che il nostro ordinamento concede anche ai terroristi, e dopo 11 anni e 10 mesi di detenzione è tornato libero. Il problema dunque non è penale, ma politico. Cosa accadrebbe se domani Adriana Faranda e Valerio Morucci, due ex militanti delle Br che parteciparono al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta, si candidassero?
D’Elia risponde: ma io mi sono dissociato dal terrorismo, ho contribuito allo scioglimento di Prima linea e da 25 anni mi occupo di Nessuno tocchi Caino, organizzazione che difende i diritti dei detenuti. A parte che a sciogliere Prima linea provvidero le forze dell’ordine, arrestandone i militanti grazie alle confessioni di Patrizio Peci, Roberto Sandalo e Michele Viscardi, il killer dagli occhi di ghiaccio; a parte che la «consegna» di Prima linea nelle mani del congresso radicale, compiuta da Sergio D’Elia per segnare simbolicamente la sua uscita dal terrorismo, avvenne con tre anni di ritardo sullo scioglimento del gruppo eversivo, propiziato dalle retate e dai colpi inferti dalle forze dell’antiterrorismo; a parte tutto questo, dicevo, anche Faranda e Morucci hanno preso le distanze dal terrorismo, anzi si sono pentiti.
La verità è che Marco Pannella e Daniele Capezzone – che conosco da molti anni – con la candidatura di D’Elia volevano aprire un dibattito sui terroristi, e sdoganarne le anime dal limbo della condanna politica in cui vagano. Non si deve dolere dunque D’Elia se c’è chi critica questa operazione. Di che cosa si illudeva? Di entrare in Parlamento cancellando la sua storia passata, come ha fatto inserendo nel sito della Camera una biografia in cui non figura neppure una riga sulla militanza in Prima linea?
Furono solo due anni, s’è giustificato D’Elia, a fronte di venticinque dedicati alla militanza nel partito della Rosa nel pugno. Sì, due anni in cui voleva cambiare il mondo e invece cambiò, e per sempre, la vita della famiglia Dionisi. La sua storia e quella dei molti altri che per vent’anni insanguinarono l’Italia non si cancella annunciando qualche querela e nemmeno tentando di tappare la bocca a chi quella storia vuole raccontarla.
A Cortina l’occasione per parlarne è stato il libro di Sabina Rossa, parlamentare dei Ds e figlia dell’operaio ucciso a Genova dalle Brigate rosse nel 1979. Il libro è struggente. Tenerissimo il racconto che la figlia fa del padre, uomo coraggioso che sfidava il conformismo come le vette più alte, essendo un provetto scalatore. Ma dentro quelle pagine non c’è solo lo straziante ricordo di una vittima del terrorismo, c’è anche dell’altro. Innanzitutto Guido Rossa che parla alla moglie il giorno in cui denunciò Francesco Berardi, l’attivista delle Br dentro l’Italsider.
Rossa era un rappresentante del Consiglio di fabbrica e prima di denunciare Berardi ne discusse con gli altri membri del Cdf. Non era l’unico a sapere che quell’impiegato ex Psi, poi Pci e infine militante di Lotta continua, distribuiva dentro la fabbrica i volantini brigatisti. Ma inspiegabilmente i compagni del sindacato interno non vollero denunciare Berardi. Anche i membri della Fiom-Cgil, ossia i compagni del sindacalista Guido Rossa, quando si trattò di testimoniare si tirarono indietro, lasciandolo solo.
Già sapevo che il Consiglio di fabbrica non aveva avuto il coraggio di quella denuncia. Ma leggere le parole di amarezza che Guido Rossa confidò alla moglie fa capire ancora di più quanto quell’operaio sia stato usato per anni dal Pci e dal sindacato per rivendicare una guerra al terrorismo tardiva e in realtà fatta più a parole che nei fatti. Guido Rossa fu lasciato solo da vivo e poi usato da morto.
Quello stesso Consiglio di fabbrica che non volle sottoscrivere la denuncia contro Berardi, lasciando così che Rossa firmasse la propria condanna a morte, tentò poi di costituirsi in giudizio contro i brigatisti per riappropriarsi delle spoglie del collega cui aveva vilmente fatto mancare il sostegno. Lo stesso fecero Pci, Cgil, Cisl e Uil.
Il sindacato sostituì il verbo denunciare con un altro: vigilare. Giacché un compagno non fa la spia, neanche se si tratta di denunciare un criminale. Perché racconto queste vecchie storie? Perché finché il sindacato e gli ex comunisti continueranno a spacciare la favola bella della loro intransigente lotta al terrorismo,nessuno capirà davvero come sia stato possibile che ragazzi poco più che ventenni, un giorno di oltre trent’anni fa, abbiano imbracciato il mitra per fare la rivoluzione, uccidendo in nome di una fede politica.
Finché uomini come D’Elia nasconderanno il loro passato senza affrontarlo fino in fondo, sarà difficile capire. Finché molti sindacalisti continueranno a non ammettere d’aver colpevolmente chiuso gli occhi di fronte alla violenza del movimento armato, non si comprenderà che cosa è realmente accaduto.
Per chi legge oggi questi fatti, è impossibile sapere che dal ’68 fino ai primi anni Ottanta, parte di una generazione si allenò a odiare e, come raccontò Adriano Sofri, c’era chi invidiava chi riusciva a odiare di più. Gli ex terroristi ci hanno riempito di libri sull’epopea della loro lotta al sistema. Ma i tanti dirigenti della sinistra e del sindacato non hanno prodotto un solo testo che spieghi quei formidabili anni in cui la «meglio gioventù» annegò in un mare di sangue.