Carlo Cardia non ama il gossip su curia e segreteria di stato. Spiega gli imbarazzi e la politica della chiesa verso l’islam. E parla del riavvicinamento (sempre meno improbabile) con gli ortodossi
di Carlo Cardia
L’obiettivo di nuove relazioni tra Roma e l’ortodossia è a suo modo storico, dal punto di vista ecclesiale e geopolitico. Occorre superare molte diffidenze del passato, far sbiadire la memoria di aspri conflitti consumatisi in diverse epoche, e cercare di giungere a una piena comunione ecclesiale. Le resistenze si trovano sia nei cattolici sia negli ortodossi.
Tra i primi c’è chi considera i secondi come fratelli minori cui guardare con qualche condiscendenza; e chi è ancora convinto che gli ortodossi siano da convertire, senza rendersi conto che si è di fronte a cristiani “pleno iure”, non di rado più rigorosi di molti cattolici.
Tra gli ortodossi c’è la paura della tendenza imperialistica romana, collegata alla teoria e alla pratica del primato pontificio, e persiste una concezione territoriale (per capirci, un po’ chiusa e gelosa) della chiesa e dei suoi confini. Insomma, ci sono tendenze da contrastare e angoli da smussare ma, in fin dei conti, ciò che divide Roma da Mosca, e dalle altre capitali ortodosse, sono soprattutto questioni giurisdizionali e non di fede, anche perché già nell’incontro del 1965 tra Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli Atenagora I le vecchie scomuniche del 1054 erano state revocate.
Ma si tratta anche di riavvicinare Roma a Costantinopoli e a Mosca, ad Atene e a Sofia, a Bucarest, in vista di una strategia comune nei confronti di una Europa che tende ad allontanarsi dalle sue tradizioni cristiane, e nei confronti dell’islam che sta accentuando la pressione sia con il fondamentalismo di alcuni paesi arabi, sia all’interno del continente europeo con una immigrazione sempre più impermeabile e potenzialmente aggressiva.
Per anni la Santa Sede ha cercato di percorrere tutte le strade per realizzare un viaggio del Papa a Mosca che, oltre a riconoscere solennemente la testimonianza di fede e di martirio della chiesa russa sotto il comunismo, ponesse le basi per una collaborazione tra chiese cristiane per tanto tempo divise e separate.
La strada per Mosca è lunga, perché gli ortodossi vogliono sentirsi garantiti da baldanzosi programmi di proselitismo (di qualche gruppo cattolico troppo zelante) nei confronti di una terra che è cristiana da oltre un millennio, e perché vogliono vedersi riconosciuta quella pari dignità ecclesiale e giuridica che Giovanni Paolo II fece intravedere quando parlò dei “due polmoni” della chiesa, quello d’oriente e quello d’occidente.
Il viaggio a Costantinopoli
Oggi l’obiettivo è più vicino. Papa Wojtyla ha gettato le basi di nuovi rapporti con l’ortodossia, nei diversi incontri avuti a Bucarest nel 1999 con il patriarca Teoctist, e ad Atene con Sua Beatitudine Christòdoulos, nel 2001. Nel viaggio ad Atene, non privo di difficoltà perché i greco-ortodossi sono tra i più diffidenti verso Roma, avviene un fatto importante perché Giovanni Paolo II e Christòdoulos sottoscrivono una dichiarazione congiunta nella quale si afferma tra l’altro che “sarà nostro compito fare il possibile perché siano conservate inviolate le radici e l’anima cristiana d’Europa”.
Ma il viaggio che forse riserva le maggiori soddisfazioni è quello in Bulgaria (la chiesa bulgara è la più vicina a quella russa) dove incontra il 23 maggio 2002 Sua Santità il patriarca Maxim, a Sofia. Il viaggio ha un tale successo che il nunzio apostolico a Sofia, monsignor Antonio Mennini, viene poco tempo dopo trasferito alla sede di Mosca proprio per migliorare le relazioni con gli ortodossi e porre i presupposti per lo storico incontro tra il Papa e il patriarca russo.
Intanto, il prossimo appuntamento è quello di novembre, quando Benedetto XVI incontrerà il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I (con qualche malumore dei greci) per parlare del destino dell’Europa, delle sue radici cristiane, di una azione comune di cattolici e ortodossi su temi etici e sociali. Benedetto XVI è ormai consapevole che il rapporto con le chiese ortodosse costituisce un obiettivo strategico per la chiesa, e un suo viaggio a Mosca non appartiene più a un futuro indecifrabile ma alle cose probabili dei prossimi anni.
Si parla anche di una dichiarazione comune sui problemi eticosociali che sarebbe di grande importanza per l’Europa. Ciò che conta, però, è il valore che avrebbe per l’Europa e l’occidente il traguardo di una piena comunione tra tutti i cristiani non protestanti, che sanerebbe divisioni secolari e soprattutto ridarebbe al cristianesimo una leadership spirituale e morale di carattere mondiale, oggi insidiata da altre religioni.
Diversità sull’islam
Più complesso il rapporto con l’islam, dove si può notare una diversa accentuazione nell’atteggiamento di Benedetto XVI rispetto al suo predecessore. Anche in questo caso Karol Wojtyla rompe il ghiaccio con il suo viaggio del 5-8 maggio 2001 in Siria, poi ancora incontrando le comunità islamiche in diverse occasioni tra le quali quella del viaggio in Kazakhstan il 22 settembre 2001.
Però, negli ultimissimi anni le cose sono cambiate: con un fondamentalismo che divora pezzi interi di islam, con le guerre reali e quelle virtuali che si moltiplicano nel medio oriente, con una immigrazione in Europa che suscita interrogativi sul futuro del nostro continente.
Il cardinale Ratzinger ha avuto modo più volte di manifestare preoccupazioni su come può essere costruito il futuro dell’Europa e delle chiese cristiane, e sui rischi che si corrono se si sceglie la strada del silenzio. Ha anche espresso perplessità per l’ingresso della Turchia in Europa perché, se realizzato alla leggera o in un orizzonte soltanto mercantile, può incrinare l’omogeneità degli ordinamenti occidentali nei loro valori di fondo. Ha anche richiamato espressamente lo scontro di civiltà, non per avallarlo, ma per avvertire che può anche prevalere, con danno di tutti.
D’altra parte, le influenze fondamentaliste sulle comunità islamiche dell’immigrazione stanno provocando un contenzioso che non si può più nascondere. La chiesa cattolica si è sempre dimostrata aperta e pronta all’accoglienza nei confronti dell’immigrazione, distinguendosi così da tutti i conservatorismi, ma oggi non ignora il rischio che si formino in Europa delle enclave musulmane nelle quali è possibile entrare ma da cui non si esce più.
Anche la vita e l’esistenza delle comunità cristiane nei paesi musulmani sono sottoposte al ricatto degli estremisti o delle politiche restrittive di alcuni governi. Con la conseguenza che la chiesa si trova come stretta tra due esigenze. Quella di dover difendere le già scarse libertà di queste comunità, quindi di dover agire con forte realismo politico, e l’altra di reclamare a piena voce la libertà dei cristiani, e di tutti gli altri, in paesi stretti nella morsa di dittature sparse in buona parte del mondo islamico.
Si accompagna a tutto ciò la preoccupazione che il relativismo etico e ideologico presente nei paesi europei accentui l’arrendevolezza verso l’islam. E’ possibile che l’abbandono strisciante che si sta realizzando in occidente dei principi di libertà e di eguaglianza dei cittadini faciliti il piano inclinato che porta a formare comunità islamiche separate e autosufficienti, che conquistano spazi e aree di influenza crescenti, senza neanche tentare una vera integrazione.
Paradossalmente, di fronte alle cedevolezze multiculturali verso l’islam, oggi è la chiesa a difendere e rivendicare la laicità dello stato e a reclamare il rispetto dei principi di libertà religiosa e di eguaglianza tra uomini e donne. In tutto ciò si sentono, e si avvertono, differenze di strategia nella chiesa, anche se queste differenze non passano tra le stanze pontificie e quelle dei dicasteri di curia.
Sono differenze che attraversano in modo trasversale le organizzazioni ecclesiali, clericali e laicali, le scuole di pensiero, e influenzano le scelte che devono compiersi quotidianamente. Di recente su Studium (2006/1) è stata pubblicata una analisi di Roberto AM Bertacchini e Piersandro Vanzan SJ sulla questione islamica che pone interrogativi inquietanti. Non soltanto prospetta concretamente l’ipotesi di una offensiva multilaterale della nazione islamica, fatta di terrorismo ma anche di lenta, programmata e inarrestabile presenza politico-religiosa in terra europea.
Ma mette il dito sul punto nevralgico della risposta occidentale quando afferma che “non è pensabile che si conceda a una minoranza (islamica) quella tutela civile della propria identità e quel riconoscimento culturale che il laicismo figlio dell’Illuminismo francese nega fin qui alla maggioranza cristiana”.
Eppure è ciò che sta accadendo in modo strisciante in alcuni paesi europei, ma anche in una Italia che credeva di essere immune dai rischi della separatezza multiculturale. Si moltiplicano le proposte di applicare la sharia in Inghilterra, Francia e Germania. Si rimuove il crocifisso per motivi di laicità, ma si accetta il bourka (non il velo, attenzione) per motivi di multiculturalismo.
Si tacitano a volte le commemorazioni delle feste cristiane nelle scuole, ma si enfatizza il ramadan. In un articolo dei giorni scorsi sul Corriere della Sera Magdi Allam ricorda che anche in Italia sta penetrando velocemente l’ideologia del multiculturalismo, con l’accettazione del bourka da parte di pubblici ufficiali, o con l’introduzione di piscine e spiagge separate per uomini e donne, con buona pace per l’eguaglianza tra uomo e donna.
Qualcuno già suggerisce di comprendere che la conversione di un musulmano a un’altra religione è cosa diversa dalla conversione di un europeo: la prima è contraria al multiculturalismo, la seconda è frutto di laicità. Non ci si rende conto che così facendo si sta giocando una partita di proporzioni storiche su due tavoli diversi. Sul tavolo della laicità, le nostre religioni tradizionali sono privatizzate e mortificate, su quello del multiculturalismo la religione islamica è accolta e tutelata, favorita nel suo arroccamento e nella sua espansività.
La chiesa cattolica sa bene, e conosce da vicino, queste cose. Ed è incerta sulla strategia da seguire, divisa tra una politica del dialogo a tutti i costi e una forte difesa dei valori fondamentali della civiltà laico-cristiana. Come è interdetta di fronte a una cultura laica la quale, fiscale e rigorosissima quando si tratta di disciplinare e contenere le chiese cristiane della sua tradizione, si rivela sorprendentemente debole e rinunciataria proprio di fronte all’islam e ai suoi tratti medievaleggianti. Come per nemesi, il relativismo etico e ideologico è arrivato al punto di relativizzare anche la laicità, che risulta valida per alcuni ma non per altri. Si potrebbe compiere un salto indietro di secoli.
Il libro di Sodano e la zizzania
Dunque, c’è da discutere eccome sui problemi della chiesa, e sulle scelte che questa è chiamata a compiere nel prossimo futuro su questioni che sono strategiche per la religione e per la società, per l’Italia e per l’Europa. Ma dovrebbe essere una discussione seria, fondata sui fatti e sugli atti, sui problemi e sulle loro soluzioni, non sulle immagini sfocate di stanze prelatizie che cambiano titolare, o sul chiacchiericcio che vi si svolge attorno.
Angelo Sodano presenterà nei prossimi giorni un libro, “Il lievito del Vangelo”, dove sono raccolti alcuni dei suoi interventi pastorali e diplomatici, e cita nell’introduzione, tra le altre, la parabola della zizzania.
Naturalmente gli uomini di chiesa non possono preoccuparsi eccessivamente della zizzania, se non altro perché devono esercitare la virtù della pazienza. Io ho sempre creduto che sia doveri dei laici (credenti e non) studiare e criticare chiunque, comprese la chiesa e la Santa Sede. Ma la critica è una cosa legittima, giusta e feconda, la zizzania no, la zizzania è cosa brutta per tutti, non aiuta la razionalità del pensiero.