Editoriale
Onore e gratitudine ai nostri soldati impegnati nella difficile, difficilissima missione in Libano. I politici che li hanno mandati laggiù (destra e sinistra farmalmente unanimi) li hanno equipaggiali di parole, li hanno avvolti in bandiere di discorsi.
Parole e bandiere eufemistiche e ingannevoli, zucchero filato intorno al bastoncino dell’eufemismo più mendace, lo slogan della «missione di pace». Parliamo con la chiarezza che la gravità dell’ora impone: questa è una missione di guerra dalla quale si spera che, come al termine di ogni guerra, venga la pace.
E’ missione di guerra perchè a condurla sono i soldati, con la loro professionalità di armi e mezzi di guerra e con il loro coraggio, altrimenti in Libano ci sarebbero dovuti andare i pacifisti dei Centri sociali (quelli che assalgono i poliziotti), vezzeggiati da talune componenti della maggioranza governativa, o le suore di Madre Teresa (che non hanno bisogno di andarci perché sono già lì, e non da oggi).
Dunque, mentre i politici chiacchierano e noi guardiamo i telegiornali, i nostri soldati rischiano seriamente la pelle come forza di interdizione, cioè tra due fuochi. A loro va tutta la nostra solidarietà, accompagnala da ardenti preghiere.Le chiacchiere eufemistiche dei politici arrivano al punto di proclamare «Libano si. Iraq no».
A un lettore che chiedeva a Sergio Romano di spiegargli il paradosso («A Nassiriya proteggevamo civili iracheni e noi ce ne andiamo proprio quando più ne hanno bisogno, abbandonando la popolazione inerme alle angherie di sanguinari gruppi terroristici.
Non è proprio questo l’obiettivo che ora il governo Prodi si prefigge di raggiungere in Libano?»), l’ambasciatore editorialista del Corriere ha risposto: «Nel caso dell’Iraq la risoluzione dell’Onu venne adottata dopo il fatto compiuto degli americani e fu il tentativo di contribuire alla soluzione di un problema creato dall’iniziativa unilaterale degli Stati Uniti. Quel tentativo sembra ormai fallito. L ‘intervento in Libano ha invece sin dall’inizio un carattere internazionale e il crisma dell’Onu».
Domanda: che cosa ha aggiunto il crisma dell’Onu all’intervento americano in Iraq, se non il riconoscimento che quell’intervento era doveroso dopo che Saddam si era ripetutamente fatto beffe degli ultimatum dell’Onu, esattamente come oggi sta facendo Ahinadinejad in Iran? Vogliamo renderci conto che l’Onu, cosi com’è oggi strutturato, è una burocrazia paralizzata da veti incrociati che ha Io scopo prevalente, se non esclusivo, di alimentare i propri funzionari?
Purtroppo in Iraq la gente continua a morire, ma non è uccisa dagli americani, bensì dai terroristi islamici, nostalgici di Saddam, mentre per l’intervento americano si va delineando un’alternativa democratica, con il favore della popolazione elettorale.
Gli americani non hanno «creato» un problema, bensì l’hanno trovato e non rinunciano a risolverlo. A fallire è il «tentativo» dell’Onu anche in Iraq. Intervistato dalla rivista Time, il nostro ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ha così risposto alla domanda se gli è stato difficile trovare l’intesa con Condoleezza Rice, dopo essere stato duro critico della politica estera americana: «Sono d’accordo con Madeleine Albright [l’ex segretario di Stato americano] nel dire che l’America è “la nazione indispensabile”. Si ha bisogno degli Stati Uniti per risolvere i problemi del mondo. Non si possono neppure rimediare gli errori degli Stati Uniti senza gli Stati Uniti». Varremmo che queste cose il nostro ministro degli Esteri le dicesse anche in italiano. La missione in Libano è difficile perché affidata al velleitarismo franco-italiano, col velleitario crisma dell’Onu, senza – per il momento – gli Stati Uniti. E ci vanno di mezzo i nostri soldati.