Avvenire, 14 settembre 2006
Perché un medico come Umberto Veronesi si impegna a diffondere il darwinismo attraverso un grande convegno? Perché se gli esseri umani non sono altro che scimmie più evolute tutto diventa accettabile: ricerca sugli embrioni, eutanasia, aborto…
di Francesco Agnoli
Da alcuni anni infatti cova nella mente di Veronesi il grande convegno sul naturalista inglese, che avrà luogo a Venezia, con sponsor non risibili, dal 20 al 23 settembre, e che ha lo scopo di diffondere l’idea che la coscienza, il pensiero, il linguaggio, la creatività umana sarebbero semplici prodotti della casuale evoluzione animale. Perché tanto amore per Darwin, in uno scienziato che non si occupa specificamente di studi biologici? Non è difficile da capire.
Il darwinismo, infatti, pur non potendo assolutamente negare un Dio Creatore, né empiricamente né filosoficamente, contribuisce in buona parte a “screditarlo”.E scredita, nello stesso tempo, l’uomo: non più a immagine di Dio, ma delle grandi scimmie. In questo senso il darwinismo è a fondamento di tanti errori e orrori della modernità: del concetto di lotta per la vita (che diviene nazionalismo e superomismo), dell’eugenetica, del liberismo selvaggio, dell’animalismo.
Tutta la questione dei diritti umani, a ben vedere, decade, di fronte all’equiparazione tra uomini e animali. Infatti, se veramente fossimo solo scimmie evolute, non solo la sperimentazione sugli uomini (embrioni) diverrebbe lecita, allo stesso modo di quella sugli animali, ma, ad essere coerenti, si dovrebbe finire per giustificare anche il cannibalismo (un altro modo, semplicemente, di mangiare carne..).In realtà però, ripassando la storia, ci si accorge che il verbo “darwiniano”, che troverà ampia eco in laguna nei prossimi giorni, è assai antico: ben prima di Darwin stesso, qualcun altro aveva parlato di discendenza degli uomini dalle scimmie. Chi, precisamente?
In particolare, a sostenere questa aberrante teoria, erano stati alcuni libertini, vicini a posizioni scettiche, materialiste-atee o deiste. Costoro avevano ereditato la teoria pagana ed antiscientifica della generazione spontanea, per affermare che in realtà la vita si genera da sé, senza bisogno di nessun Creatore. Giulio Cesare Vanini, per fare un esempio, riteneva che il mondo fosse eterno, cioè che fosse dio; d’altro canto negava la creazione e l’immortalità dell’anima umana, sostenendo altresì l’eternità della materia.
Perché allora concedere una particolare dignità all’uomo, rispetto alle altre bestie e cose, una volta esclusa la sua somiglianza con Dio? Vanini aveva sostenuto prima la generazione spontanea degli uomini dalla terra, e poi, tramite Cardano, un mago del Cinquecento, la nascita dell’uomo da «animali affini all’uomo come le bertucce, i macachi, e le scimmie in genere».
Siamo alla fine del Cinquecento, centinaia d’anni prima di Darwin. Lo stesso Voltaire, nel suo «Trattato sulla metafisica», avrebbe dimostrato di dar fede all’idea che intere razze, come quella dei neri, sono nate da esseri bestiali.
Ma tutti questi filosofi dove volevano arrivare? A negare valore all’uomo stesso, all’idea secolare (e cristiana) di persona. Infatti, come lo stesso Voltaire, finirono per giustificare la differenza “naturale” tra gli uomini, la loro disuguaglianza, e quindi, se coerenti, il colonialismo e lo schiavismo (avversato, invece, dalla visione biblica, secondo cui gli uomini, creati direttamente da Dio, sono tutti fratelli).
Ma allora, cos’è, oggi, l’idea di poter uccidere embrioni umani, o di clonare delle creature, se non una forma nuova di schiavismo? Sono gli orrori che nascono nel momento in cui si nega a Dio il suo ruolo di Creatore, o, quantomeno, all’uomo la sua dignità di creatura spirituale e razionale.
È appena il caso di ricordare, ancora una volta, per ricollegarci all’inizio del discorso, da quale antropologia provenga la legittimazione, ad esempio dell’eutanasia, da parte di Umberto Veronesi: «Considero la morte nient’altro che un evento biologico. È la rigenerazione, il lasciar spazio agli altri, come fanno quegli animali che da vecchi si staccano dal branco per andare a morire soli» (Umberto Veronesi, «L’ombra e la luce», La biblioteca di Repubblica).
E ancora, parlando sempre di eutanasia, e confondendo le acque: «È un dovere affrontare la morte serenamente, come gli elefanti, che si ritirano per morire, o gli alberi che cadono perché hanno concluso il loro ciclo vitale. Se non ci fosse la morte, già noi non saremmo vivi, lo siamo perché altri prima di noi se ne sono andati, come le piante, come gli animali».
Queste ultime, “intelligentissime”, affermazioni, in cui l’uomo è equiparato ad animali e piante, sono tratte da uno dei tanti libri-interviste di questi anni, «Scienza e futuro dell’uomo» (Passigli), scritti da Umberto Veronesi al principale scopo di sostenere, come sempre, aborto, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, clonazione… Ma prima, come presupposto, come fondamento del discorso? Come sempre, Veronesi esordisce con un “leggero” attacco alla Chiesa, che sarebbe, a rigor di logica, immotivato, fuori luogo: «La Chiesa fonda se stessa sulla negazione dell’uso della ragione. Per definizione, “fede” significa credere ciecamente senza esercitare potere critico…».
E il suo intervistatore, di rimando. «Se per la Chiesa la conoscenza è un peccato talmente grave da meritare il castigo più severo, Lei, professor Veronesi, vive nel peccato…».
Anche nel suo ultimo intervento, sull’Espresso del 14 settembre, Veronesi travalica dalla scienza alla filosofia, con la leggerezza di un elefante: «La vita nasce dal caso e dalla necessità. Mi rendo conto che questo non lascia molto spazio a interpretazioni metafisiche dell’esistenza umana..».Cosa è il caso, e cosa è la necessità? Antiche divinità greche di ritorno? E perché il darwinismo negherebbe, di per sé, la metafisica?
Ma soprattutto: come si fa a divinizzare il caso, trasformandolo in forza intelligente, creatrice e ordinatrice, e a scrivere, qualche riga più avanti, che «una forma di intelligenza esiste anche in una singola cellula», al punto che «se la isoliamo e tentiamo di toglierle la vita, la vediamo reagire, difendersi, attivare l’istinto di conservazione del suo Dna, un codice della vita che ha due compiti…».
L'”intelligenza”, il “Dna”, e cioè un programma completo e meraviglioso, ordinato e finalizzato, i “compiti” da svolgere, con uno scopo… cosa c’entra tutto questo col caso, cioè col disordine, l’assenza di significato, di intelligenza, di compito?