Un’inchiesta di Mark Steyn a confronto con i falsi miti dei media
di seguito:
Gli inganni dei media sul campo di detenzione per terroristi
di Daniele Raineri
Non possono più attribuire il trattamento dei prigionieri di Guantanamo alla responsabilità di poche persone – ha continuato il senatore – prima lo facevano in silenzio, e contro la legge; ma ora cercano di ottenere una legittimità per un trattamento ancora più severo, che il resto del mondo giudicherà offensivo, crudele, degradante ed equiparabile alla tortura”. Hmm. Vorrei dire una parola sul “trattamento dei prigionieri di Guantanamo”. Innanzitutto, sono appena ritornato da una visita a Guantanamo. Nel corso degli anni ho visto numerose prigioni in vari paesi del mondo, ma devo confessare che non ne avevo mai vista una come questa.
Certo, la maggior parte di quello che so deriva da ciò che il maresciallo Harry Harris, direttore di Guantanamo, definisce “cattivi film e programmi televisivi ancora peggiori”; e, visto alla distanza, ben poco sembra esser cambiato: l’aspetto generale – filo spinato e torrette di guardia – sarebbe familiare agli occhi di qualsiasi prigionierio della Seconda guerra mondiale.
Ma, se si guarda da vicino, praticamente tutto il resto è stato buttato nel gabinetto della storia. Anzi, persino il gabinetto è stato buttato nel gabinetto della storia: nel rispetto delle sensibilità culturali, le celle di Guantanamo sono state fornite di “gabinetti all’asiatica”, perché “questo è il desiderio dei detenuti”. Dato che la maggior parte di ciò che dovrebbe scendere giù da questi gabinetti viene invece gettato addosso alle guardie, sembra che questa sensibilità per la scelta del tipo di bagno non sia sempre apprezzata.
Quando ci sono dei visitatori, come il vostro qui presente fedele reporter, le autorità del campo gli servono lo stesso pranzo che ricevono i detenuti. Poiché siamo in periodo di Ramadan, l’ammiraglio Harris era particolarmente orgoglioso dei tradizionali pasticcini freschi che il suo team di cuochi aveva preparato per il mese sacro musulmano. E aveva ragioni: le baklava erano davvero deliziose.
Alcuni linguisti sostengono che il termine “baklava” derivi dalla parola araba per “noccioline” – e, in effetti, tutta questa guerra talvolta sembra proprio una sola gigantesca baklava (In inglese la parola “noccioline”, nuts, significa anche “follia”, ndt). All’inizio di quest’anno è uscito un film intitolato “The Road to Guantanamo”: la locandina mostrava il solito prigioniero emaciato incatenato al muro di una prigione segreta.
Senza dubbio, l’attore che faceva la parte del prigioniero, imitando l’esempio di Robert De Niro, aveva perso almeno trenta chili per apparire in uno stato così cadaverico. Se a Guantanamo avviene qualcosa di simile, devono farlo nascosti dalla coltre di zucchero a velo dietro la dispensa del pasticciere.
Se sperate di sentir parlare della vecchia sedia di legno sotto l’abbagliante luce di una lampada, disilludetevi. Ecco invece la realtà: durante gli interrogatori i detenuti si siedono o su una poltrona La-Z-Boy a schienale reclinabile oppure su un lussuoso divano imbottito. Quanto ai corpi emaciati, è il solo campo di detenzione in tutta la storia dove le sedicenti vittime della tortura, in realtà, sono aumentate di peso.
A differenza di quel malnutrito attorucolo che appare nel film, i detenuti di Guantanamo sono aumentati in media di otto chili. I detenuti afghani sono gli afghani più tracagnotti che abbia mai visto. Se mai torneranno in patria, i loro vecchi compagni – i magri ed esili guerrieri dell’Hindu Kush, si domanderanno come mai un gruppo di pensionati della Florida sia improvvisamente apparso sulle montagne dell’Afghanistan.
E se per caso, improvvisamente, inizi a perdere peso, non c’è da preoccuparsi. Come mi ha spiegato un membro del personale medico del campo, per i jihadisti ultracinquantenni sono previsti esami per il cancro all’intestino.
Se nel 2009 la presidente Hillary Clinton dovesse decidere di fare ulteriori tagli all’assistenza sanitaria, si potranno immaginare slogan persino peggiori di questo: “Ogni americano dovrebbe avere diritto alla stessa assistenza sanitaria garantita a un terrorista sudanese che ha cercato di accoltellare una guardia”. Forse è questo ciò che il senatore Leahy intende quando parla di un trattamento che “il resto del mondo giudicherà offensivo, crudele, degradante ed equiparabile alla tortura”.
Se siete abituati al sistema sanitario afghano, è senza dubbio profondamente umiliante sentirsi offrire un esame del colon tutte le volte che vi piegate per usare il tappeto da preghiera. Ciononostante, ci vuole davvero un genio perverso per avere fatto del primo campo di detenzione per terroristi che offre pasticcini fatti in casa per il Ramadan un simbolo dell’orrore e della brutalità.
Se dovessi riassumere la mia impressione di Guantanamo in una sola immagine, sarebbe quella delle nuovissime copie del Corano presenti in tutte le celle non occupate. Per rassicurare i loro futuri ospiti che gli sporchi infedeli non hanno toccato il libro sacro con le loro mani impure, le copie sono appese al muro e perfettamente cellofanate.
Si può comprendere che i musulmani considerino impuri gli infedeli, ma è ben difficile capire perché sia nell’interesse del governo statunitense conformarsi e quindi convalidare il loro bigottismo. Quando gli ho espresso quest’osservazione, l’ammiraglio Harris mi ha risposto: “E’ una questione interessante”, aggiungendo che la decisione era stata già presa molto prima del suo arrivo.
Mi ha spiegato che aveva trovato un sistema efficiente per mezzo del quale, quando era necessario toccare un Corano (perché vi era stata nascosta un’arma o una comunicazione illecita), si faceva entrare in cella un traduttore musulmano. Ma io non mi riferivo agli aspetti operativi quanto a quelli psicologici: che cosa gli fa pensare di noi questa totale resa di fronte ai loro pregiudizi? Tornato a casa, ho continuato a rimuginarci sopra: mi sembra che questa guerra potrà finire veramente soltanto quando i musulmani saranno abbastanza cresciuti per non andare fuori di senno tutte le volte che un infedele tocca il loro Corano.
Naturalmente, per gente come il senatore Leahy, questa guerra non soltanto non è prossima a finire, ma non è neppure cominciata. Su questo terreno, tutti i dibattiti non vertono “sulla” guerra ma sullo stesso fatto se ci sia davvero una guerra. Come ha riferito il Washington Post, “il Senato si è unito alla Camera nel condividere la tesi del presidente George W. Bush, secondo il quale la battaglia contro il terrorismo giustifica l’imposizione di limiti eccezionali sui diritti degli imputati nelle aule di giustizia”.
Ebbene, sono “eccezionali” soltanto se si considerano queste persone come degli “imputati” di tipo tradizionale. Se li si considera invece come tipici prigionieri di guerra (anziché come degli OJ con il turbante), la sola cosa “eccezionale” sono guanti di velluto con i quali loro stessi e i loro Corani sono trattati.
Questa è la sola guerra nella storia americana in cui alcuni prigionieri nemici sono stati liberati prima della fine delle ostilità. Tra costoro, si sa che almeno 22 sono tornati sui campi di battaglia in Afghanistan, Pakistan e altrove. I prigionieri ancora detenuti sono uomini pericolosi, malgrado tutta la “sensibilità” che si possa mostrare nei loro confronti.
Hanno smontato i loro gabinetti in stile asiatico per farne una sorta di particolari randelli con quali attaccare le guardie. Dopo aver ascoltato il contributo del senatore Leahy a questo dibattito, mi domando se l’illustre gruppo di esperti psichiatrici del centro medico di Guantanamo non potrebbe essere più utilmente impiegato nel Senato degli Stati Uniti.
* * *
Gli inganni dei media sul campo di detenzione per terroristi
Daniele Raineri
Roma. Dice il ministro Massimo D’Alema che con Guantanamo sulla coscienza l’occidente non ha più la chiarezza morale per dare lezioni a Vladimir Putin. Intanto, nel gulag dei nostri tempi – secondo la definizione di Irene Khan, segretario generale di Amnesty International – i medici sono preoccupati per le condizioni dei prigionieri.
La maggioranza di loro è sovrappeso e alcuni tendono all’obesità. Il portavoce della Marina americana, Robert Durand, ha spiegato che i reclusi sono ingrassati perché il menù che viene loro offerto – preparato secondo i precetti dell’islam, e a cui sono aggiunti pane fresco preparato ogni mattina, verdure, yogurt, dolcetti tradizionali e miele – è pensato per essere il più ricco e vario possibile, ma non per essere consumato per intero.
“Li abbiamo avvertiti, ma alcuni di loro continuano a mangiare tutto: sono 4.200 calorie al giorno, più delle 3.800 delle razioni che diamo ai soldati impegnati in zone di combattimento”. Un afghano, il cui nome non può essere diffuso per le regole sulla privacy carceraria, è passato dai 98 chilogrammi del momento della cattura a 186.
Michael Truman, portavoce dell’ufficio federale delle prigioni, dice che di regola i normali carcerati americani ricevono pasti da 2.900 calorie al giorno “e sono in ottima forma”. Nemmeno il digiuno religioso del Ramadan ha migliorato la situazione. Le associazioni in difesa dei diritti dell’uomo protestano: i detenuti di Guantanamo, dicono, ingrassano per mancanza di esercizio.
Ma i detenuti di buona condotta – dice Durand – possono fare esercizio per 12 ore la settimana, anche con macchinari, cyclette e tapis roulant, e tutti hanno comunque diritto a una ricreazione giornaliera di due ore, il minimo stabilito dalla Commissione internazionale della Croce rossa.
Proprio i detenuti di buona condotta del Campo quattro, quello dove è loro permesso di vivere comunitariamente, e dove le misure di sicurezza sono state allentate, hanno organizzato l’ultimo agguato contro le guardie. Hanno simulato un suicidio, hanno cosparso il pavimento di feci, urina e sapone, e quando le guardie accorse sono scivolate sono saltati loro addosso con rudimentali rasoi ottenuti da pezzi di metallo.
“La verità – dice il comandante del campo, l’ammiraglio Harry Harris – è che non esistono terroristi di media sicurezza”. La notizia dei problemi dietetici a Guantanamo Bay non è che l’ultimo colpo alla versione falsificata sulla base che continua ancora oggi a circolare sui giornali.
I detenuti non stanno in ginocchio, con cuffie e manette ai polsi, dietro barriere di reticolato. Quelle sono fotografie del loro arrivo a Camp X Ray, un campo di sicurezza provvisorio che i militari americani hanno costruito in fretta a partire dal gennaio 2002 – quando erano in arrivo i primi prigionieri della guerra in Afghanistan – e che hanno chiuso il 29 aprile dello stesso anno.
Ora i detenuti rimasti sono a Camp Delta – un complesso moderno, senza nessuna gabbia di reticolato, con aree per l’esercizio fisico e la ricreazione – e a Camp Echo, dove è consentito incontrarsi con i propri avvocati. Eppure non c’è articolo su Guantanamo Bay che non sia ancora oggi corredato da una vecchia foto dell’arrivo a Camp X Ray. Sono immagini di repertorio, di un posto che ora è in rovina e pieno di erbacce. Quei detenuti che aspettavano in ginocchio o sono liberi, o sono in attesa di giudizio, o stanno ingannando il tempo tra una preghiera e l’altra – giocando a basket in pantaloncini bianchi.
Nel campo, intanto, gli altoparlanti di servizio trasmettono le invocazioni rituali, e dappertutto ci sono frecce che indicano in che direzione è la Mecca, per la prostrazione rituale. Un agente dell’Fbi addetto agli interrogatori è arrivato a farsi crescere la barba per trovare un punto di contatto con i suoi interrogati. Il primo grande colpo alla credibilità dei media su Guantanamo era arrivato con le scuse offerte dal settimanale americano Newsweek.
Pubblicarono la falsa notizia della profanazione del Corano gettato dalle guardie nel gabinetto, poi ritrattarono. Ma il passo indietro non fece in tempo a fermare un’ondata internazionale di furore, propagato ad arte durante i sermoni del venerdì, che provocò una ventina di morti.
E ogni mese la versione dei media, quella di detenuti senza macchia travolti dalla cecità di un Amministrazione in guerra, subisce uno stillicidio di smentite a opera degli stessi rilasciati, che si fanno catturare o uccidere mentre combattono di nuovo al fianco dei jihadisti. Perché, come ha detto Slimane Hadj Abderrahmane, un islamista danese liberato nel settembre del 2004, il patto che firmano prima di uscire, che li impegna a non condurre nuovamente attività terroristiche, “è un pezzo di carta igienica, se gli americani lo vogliono possono tenerselo”.
Poi Abderrahmane è andato a combattere in Cecenia.