di Michele Brambilla
È inutile farsi illusioni: la guerra tra i palestinesi (più in generale: il mondo islamico) e Israele è destinata a non avere fine perché nessuno dei contendenti vorrà mai – anzi, «potrà» mai – rinunciare al proprio obiettivo.
Chi crede che si possa risolvere il conflitto con gli strumenti della diplomazia, della politica e dell’economia è soltanto un’anima bella che pensa di poter applicare le proprie categorie di pensiero a un mondo che ha ben altre, e ben più profonde, motivazioni. Dunque finirà così: finirà che a un certo punto diventerà decisiva l’immane sproporzione numerica: un miliardo di musulmani da una parte, cinque milioni di israeliani dall’altra. E allora Israele, per difendere il proprio diritto a esistere, non avrà altra via di scampo che fare ricorso alla bomba atomica.
Mamma mia. Che scenario. Ma questo è quello che pensa Vittorio Messori, uno che per anni è stato ritenuto troppo “politicamente scorretto”, ma che alla fine ha dimostrato di vederla lunga. Andiamo con ordine. A Messori (…) avevamo telefonato perché ci era venuto un sospetto di cui volevamo chiedergli conferma. Il sospetto era questo: la guerra in Libano è un fatto drammatico e inevitabilmente occupa le prime 10-12 pagine di tutti grandi quotidiani; però abbiamo l’impressione che il 90, forse 95 per cento dei lettori, quelle pagine le salti a piè pari.
E’ cinico dirlo: ma di quel che sta accadendo in Libano la gente disinteressa totalmente. Perché è lontano da casa nostra? Non solo. Il fatto è che alla guerra in quei posti siamo abituati, anzi assuefatti. La riteniamo inevitabile. Pensiamo, da maledetti egoisti: è un film già visto, tanto lì continueranno ad ammazzarsi, non c’è niente da fare. Vittorio Messori, forse il più noto scrittore cattolico del mondo, ci conferma nel nostro sospetto: «I credenti lo pensano per sensus fidei, i non credenti per semplice fiuto della realtà: ma tutti pensano che la guerra in quei posti sia una non-notizia. Da quelle parti non è patologica la guerra: sarebbe patologica la pace».
Abitudine e rassegnazione, dunque?
«Non solo. C’è anche l’incapacità dei nostri analisti, dei nostri cosiddetti “esperti” di spiegare che cosa sta succedendo. Preciso: non sanno spiegare che cosa sta succedendo per il semplice motivo che non lo capiscono».
Perché?
«Perché pensano di spiegare comportamenti dei contendenti con le categorie della politica e dell’economia. E sbagliano. Quello che avviene là non fa parte della storia ma della metastoria. Più che l’analisi sociologica, lì conta la profezia biblica. La prospettiva non è politica, ma teologica e perfino apocalittica. Quando trovo sui giornali l’ennesimo saccente che dice la sua senza tenere conto dell’importanza del fattore religioso, ridacchio e giro pagina»
Adesso è lei che deve spiegare.
«Ci provo. Cominciamo con l’analizzare le tre forze in campo» Perché tre? «Israele e Palestina sono gli attori sul palcoscenico, ma dietro le quinte ci sono gli Stati Uniti. Anzi, nella prospettiva araba, contendenti sono solo due: loro, gli arabi, e gli Stati Uniti».
E Israele?
«Per gli arabi Israele non esiste. Nei libri di scuola non è mai neppure nominato. Ciò che vive nel territorio di Israele è chiamato “Entità Sionista”. E l'”Entità Sionista” per gli arabi è solo la cinquantunesima stella degli Usa».
Una tesi molto simile a quella della sinistra italiana.
«Esatto. La quale sinistra italiana oggi dice che nel 1948 gli ebrei “rapinarono” la terra ai palestinesi, ma evidentemente non sa che nei dibattiti del 1947 alle Nazioni Unite fu proprio l’Unione Sovietica ad appoggiare con ogni mezzo la realizzazione del “sogno sionista”. Stalin vedeva nella nascita dello Stato di Israele un colpo all’imperialismo britannico inferto dagli ebrei comunisti russi e polacchi. L’Urss fu il primo Stato al mondo a riconoscere la nuova repubblica di Israele. Poi il voltafaccia, quando Stalin si rese conto che – per ragioni economiche, storiche e culturali – il nuovo Stato cominciava a gravitare verso l’Occidente e soprattutto verso gli Stati Uniti».
Ma andiamo avanti con l’analisi delle forze in campo e delle motivazioni che le muovono.
«Tutti e tre si muovono in una dimensione teologica. Comincio dalla forza in campo meno sospettabile di fondamentalismo: gli Usa».
Cioè?
«Anche Bush è spinto da motivazioni religiose. Fa parte di una corrente protestante oggi maggioritaria negli Usa: i “Cristiani per Israele”. Sono convinti che la Parusìa, cioè il ritorno di Cristo sulla terra, potrà avvenire solo quando Israele si convertirà. E’ una convinzione tratta da una frase di san Paolo. Il punto è che questi protestanti, di cui Bush fa parte, ritengono che gli ebrei, per convertirsi, devono essere riuniti in un solo luogo. Quindi Bush si batte per una causa non ebraica bensì cristiana: ma comunque religiosa».
Veniamo ai musulmani.
«Ovviamente anche loro sono mossi da motivazioni teologiche. E’ sbalorditivo vedere opinionisti che trattano la questione in termini politici, senza tener conto che per l’islam non esiste politica senza religione. Nella prospettiva islamica il mondo è diviso in due: i territori di Allah e i territori di guerra. Quindi fare guerra ai Paesi non islamici è un dovere. Ma c’è di più».
E cioè?
«Una volta che il terreno è stato “santificato” dalla presenza islamica, non si può più tornare indietro. Dove oggi c’è Israele, dal nono secolo c’erano i musulmani. E quindi quella terra deve tornare musulmana. Non dimentichiamo che per l’islam Gerusalemme è la seconda città santa, è la città dove riapparirà Maometto alla fine dei tempi. Capito? Per l’islam Israele è un cancro da estirpare. Mi fanno ridere gli analisti che propongono cooperazione economica e reciprocità. Tutti questi discorsi sui confini, sulle spartizioni territoriali eccetera, sono cecità di gente che non conosce la prospettiva religiosa degli islamici».
E gli ebrei?
«Pure loro si muovono in una prospettiva teologica. Per l’ebraismo terra e sangue sono inscindibili. E la loro terra è quella, non altre. Per questo, nel corso della storia, il movimento sionista ha rifiutato la proposta di altri territori anche più grandi e più ricchi: in Uganda, in Australia, in Canada, in Etiopia. Gli ebrei non vogliono una terra dove possono stare al sicuro. Vogliono “quella” terra. Vogliono Gerusalemme».
Qualcuno sorriderà nel sentirla parlare così. Dirà che la vera questione non è religiosa ma come al solito economica.
«Faccia pure. Ma è frutto di un inquinamento marxista pensare che tutto giri intorno al denaro. Nel mondo musulmano si preferisce morire piuttosto che darla vinta a Israele».
E quelli che dicono che è la miseria a spingere i palestinesi alla guerra?
«Una scemenza smentita da un fatto incontrovertibile. Hanno calcolato che con i soldi spesi dai Paesi arabi per fare tre guerre a Israele, avrebbero potuto regalare a ogni palestinese una villa con piscina. Ma i palestinesi preferiscono la guerra alla villa con piscina».
Come finirà?
«Visto che le motivazioni sono queste, nessuno può cedere. E allora finirà che a un certo punto diventerà soverchiante la disparità numerica: un miliardo di musulmani contro cinque milioni di israeliani. E Israele, quando sarà con le spalle al mare, sarà costretto a usare la bomba atomica».