Intervista con l’arcivescovo Malcolm Ranjith scelto da papa Benedetto XVI come segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti
intervista di Gianni Cardinale
Eccellenza, come è nata la sua vocazione?
Albert Malcolm Ranjith Patabendige Don: Sono nato in una famiglia di buoni cattolici. La nostra era una parrocchia in cui si viveva con gioia la sana e buona tradizione della Chiesa, dove la messa quotidiana era una pratica diffusa tra molti semplici fedeli. Era retta da un bravo missionario francese, un oblato di Maria immacolata, padre Jean Habestroh, che ha dato tutto per Gesù e per la Sua Chiesa. Un vero modello di dedizione. E così, all’interno di questa intensa vita di fede nella famiglia e nella parrocchia, la chiamata a dedicarmi pienamente al servizio del Signore è nata fin da piccolo ed è maturata, quando facevo il chierichetto, quasi in modo naturale.
Dove ha studiato?
Ranjith: In una scuola dei Fratelli delle scuole cristiane di La Salle, scuole di ottima qualità e dove la vita devozionale era molto intensa. Ogni giorno recitavamo il Rosario, ed eravamo quasi tutti membri della Legio Mariae. Sono stato fortunato, perché in queste scuole sono cresciuto non solo nelle conoscenze scientifiche e nella formazione culturale, ma anche nella vita spirituale. E i fratelli di La Salle erano guide esemplari.
Lei ha frequentato il seminario maggiore nazionale di Kandy dal 1966 al 1970…
Ranjith: Avevo diciott’anni quando sono entrato. Mio padre in un primo tempo non era molto contento, perché ero il primogenito e unico figlio maschio. Ma poi, grazie soprattutto a mia madre, i miei genitori si sono messi d’accordo nel darmi il permesso di entrare in seminario. Dopo gli studi filosofici e un periodo di tempo passato fuori seminario, il primo e unico cardinale che ha avuto lo Sri Lanka, Thomas Benjamin Cooray, mi ha mandato a Roma, al Collegio di Propaganda Fide, per completare gli studi teologici.
E a Roma è stato ordinato sacerdote.
Ranjith: Sì, il 29 giugno 1975. Eravamo più di 350 diaconi ordinati da Paolo VI in occasione dell’Anno Santo. Successivamente ho frequentato il Pontificio Istituto Biblico dove, dopo quattro anni, ho conseguito la licenza in Sacra Scrittura. Durante questi anni ho avuto la fortuna anche di poter seguire un corso di otto mesi all’Università ebraica di Gerusalemme, dove dagli insegnanti rabbini ho potuto ricevere un grande senso di amore verso la Parola di Dio. La Terra Santa è piena di Dio e del Suo amore verso l’umanità, un amore che in quei luoghi si può quasi toccare con mano. La mia vocazione sacerdotale, quindi si arricchiva di nuove forze spirituali ogni giorno che respiravo quell’aria.
Chi sono stati i suoi maestri?
Ranjith: Ero studente dell’allora padre Carlo Maria Martini, intelligente e capace: ci insegnava il Vangelo di san Luca e la critica testuale. Un mio docente era anche un altro gesuita oggi cardinale, padre Albert Vanhoye. Con lui come relatore, nel 1978 ho scritto la mia tesina per la licenza in Sacra Scrittura sulla Lettera agli ebrei. All’Urbaniana mi è rimasta impressa la figura di padre Carlo Molari: presentava la dottrina dogmatica in una chiave diversa, però interessante, che suscitava dibattito e ci apriva gli occhi per gustare il vero valore della teologia. C’erano anche molti altri bravi insegnanti. Mi ricordo di monsignor Stefano Virgulin e del padre comboniano Pietro Chiocchetta: insegnavano non in modo libresco, ma con una fede intensa in Gesù.
Finiti gli studi, nel 1978 è tornato in patria.
Ranjith: Ho fatto il viceparroco in una zona poco sviluppata, in un villaggio di pescatori, tutti cattolici. E lì ho cominciato a scoprire il collegamento della teologia alla vita quotidiana dei fedeli attraverso il grande veicolo della liturgia. Chi celebra e prega intensamente viene aiutato a mettere in pratica ciò che celebra. Poi sono stato parroco sempre in altri villaggi di pescatori. Erano molto poveri ma avevano una grande fede. E proprio attraverso il contatto con queste realtà ho scoperto la necessità che la Chiesa si occupi anche della giustizia sociale. Fin da allora l’amore per la liturgia e l’amore per i poveri, due veri e propri tesori della Chiesa, si potrebbe dire, sono stati la bussola della mia vita di sacerdote. Anche se all’epoca non avrei mai pensato di diventare un giorno addirittura segretario della Congregazione per il culto divino…
Come ha aiutato queste popolazioni?
Ranjith: Ho sfruttato le conoscenze che avevo coltivato a Roma e in Germania. Ho chiamato i miei vecchi amici e, grazie a Dio, gli aiuti sono arrivati. È grazie anche a questa attività che, nel 1983, sono diventato direttore nazionale delle Pontificie opere missionarie. Incarico che ho ricoperto per dieci anni. E in questa veste ho partecipato a molti incontri con gli altri direttori delle Pontificie opere missionarie sparse per tutto il mondo. Proprio queste riunioni mi hanno aiutato ad avere una visione veramente cattolica, universale della Chiesa.
Nel 1991 lei è stato nominato vescovo ausiliare di Colombo. Come ha vissuto questa prima esperienza episcopale?
Ranjith: Da vescovo ausiliare ho potuto allargare la mia presenza a tutta la diocesi e collaborare così con il mio vescovo ordinario. Ho potuto scoprire inoltre come il popolo cristiano voglia sentire vicino i propri pastori dai quali si attendono una vita che rifletta quella del supremo pastore, Gesù. Durante questo periodo, su richiesta dell’episcopato, ho coordinato con il governo e la Santa Sede la preparazione del viaggio di papa Giovanni Paolo II nello Sri Lanka avvenuto nel gennaio 1995. È stata una grande esperienza anche questa. Era commovente vedere i nostri semplici fedeli che si stringevano attorno al Papa con un grande senso di affetto.
Era la prima volta che un papa toccava il suolo dello Sri Lanka?
Ranjith: No, trent’anni prima, nel dicembre 1970, Paolo VI, di ritorno a Roma dall’Australia, fece una sosta a Colombo, dove celebrò una messa nell’aeroporto. All’epoca ero un giovane seminarista e ricordo ancora la gioia con cui i cattolici, ma non solo, si raccolsero attorno alla figura del primo papa che metteva piede nella nostra isola.
Alla fine del 1995 lei viene chiamato a guidare la nuova diocesi di Ratnapura, dove è rimasto fino al 2001.
Ranjith: Mi hanno chiesto di occuparmi di una diocesi nuova, appena costituita, situata all’interno del Paese. E ho accettato. Sono stati cinque anni molto felici, nonostante i problemi che sempre ci sono, soprattutto quando si deve costruire un’intera struttura diocesana. Ho imparato a stare vicino al clero – che a Ratnapura era un po’ diviso al suo interno – e ai fedeli, la maggioranza dei quali erano e sono molto poveri. Non si trattava più di pescatori ma di coltivatori delle piantagioni di tè.
Quanti erano i cattolici a Ratnapura?
Ranjith: Solo il due per cento. Ma col resto della popolazione, nella stragrande maggioranza buddista, i rapporti erano ottimi. Quando sono entrato in diocesi come vescovo, sono andato a visitare tutti i templi buddisti della città e incontrare i monaci. Dal primo giorno abbiamo creato un organismo di dialogo e di cooperazione in quei campi, come in quello sociale, dove questo è possibile. Con alcuni di questi monaci è nata un’amicizia molto forte. A loro, a volte, abbiamo chiesto consigli e suggerimenti quando costruivamo nuove chiese.
Eppure, proprio negli ultimi tempi, nello Sri Lanka si sono discusse delle leggi per impedire la conversione da una religione a un’altra…
Ranjith: Si tratta di una questione discussa a livello nazionale e dovuta all’annosa guerra tra la minoranza tamil, perlopiù induista, e la maggioranza cingalese, perlopiù buddista, e dovuta anche alle attività poco corrette di alcune sette cristiane fondamentaliste. La maggioranza cingalese-buddista ha paura che le minoranze, quella tamil-induista ma anche le comunità cristiane che si trovano sia tra i tamil che tra i cingalesi, vogliano conquistare una posizione dominante nella società, e allora reagisce e cerca di controllarle, creando talvolta in esse un senso di oppressione. Questo a livello generale. Ma quando ero vescovo a Ratnapura, lì la situazione era tranquilla anche perché era fuori dalle zone più calde del conflitto, che sono quelle nordorientali del Paese.
Nel 2000 viene pubblicata la dichiarazione Dominus Iesus, sull’unicità salvifica di Gesù. Ha creato dei problemi nel dialogo con il buddismo?
Ranjith: A dire il vero, un primo problema era nato nel 1994, quando Giovanni Paolo II pubblicò il libro-intervista con Vittorio Messori intitolato Varcare la soglia della speranza, in cui c’erano delle frasi sul buddismo che suscitarono reazioni. Ma quelli che diedero ampia diffusione a queste affermazioni erano stranieri provenienti dall’estero. Furono loro a dare grande risalto sui giornali dello Sri Lanka alla notizia che il Papa in questo libro aveva attaccato il buddismo. Erano articoli che infiammavano le tensioni, anche se molti non avevano neanche letto il libro del Papa. Ma un monaco buddista, che io conoscevo, scrisse sul principale giornale di lingua inglese dello Sri Lanka, il Daily News, un articolo in cui difendeva il Santo Padre.
Questo monaco scrisse che, secondo le indicazioni di Buddha, tutti gli insegnamenti andavano sottoposti a critica, anche i suoi. E quindi il Papa aveva tutto il diritto di dire quello che secondo lui era negativo della religione buddista. Paradossalmente furono più alcuni teologi cattolici a criticare il Papa che non gli stessi buddisti. Più o meno lo stesso è avvenuto con la Dominus Iesus: gli attacchi maggiori sono venuti dai teologi cattolici e non tanto dagli altri. Spesso in queste cose ci si lascia guidare dalle proprie emozioni più che da un’analisi dei fatti. E così si creano delle situazioni antipatiche e inutili.
Comunque durante la visita di Giovanni Paolo II in Sri Lanka del gennaio 1995 i leader buddisti non parteciparono all’incontro col Papa…
Ranjith: I leader no, ma moltissimi fedeli buddisti vi parteciparono con gioia. Devo specificare che l’altare principale sul quale il Papa celebrò la santa messa, nella spianata di Galle Face, era stato disegnato e costruito da un monaco buddista, nostro amico, che così rifiutò di essere strumentalizzato dagli altri.
Torniamo all’attualità. Come valuta il tentativo di introdurre leggi anticonversione nel suo Paese?
Ranjith: Innanzitutto noi cristiani diciamo chiaramente alla maggioranza buddista che non è nostro desiderio sovvertire le tradizioni religiose e culturali in cui si riconosce la maggioranza del popolo dello Sri Lanka. E poi, anche se una legge di questo tipo verrà approvata, le conseguenze potranno non essere tutte negative. Vorrà dire che il Signore vuole mettere alla prova la nostra fede e con il Suo aiuto non dubito che la fede del nostro popolo cristiano si rafforzerà.
Il 1° ottobre 2001 viene pubblicata la sua nomina a segretario aggiunto di Propaganda Fide. Come ricorda questa chiamata a Roma?
Ranjith: Nel 1995, oltre che vescovo di Ratnapura ero diventato anche segretario generale della Conferenza episcopale e presidente della Commissione episcopale per la giustizia e la pace. Insieme al vicepresidente di questa Commissione, il vescovo di Mannar Joseph Rayappu, di etnia tamil, ho lavorato molto per portare il governo di Colombo e le Tigri tamil al tavolo dei negoziati che hanno condotto al cessate il fuoco, infranto, ahimé, proprio questa estate. Ricordo che con monsignor Rayappu riuscimmo a portare 26 monaci buddisti nella zona controllata dai tamil per cercare di rompere l’ostilità che animava sia i buddisti che i tamil l’uno verso l’altro a causa delle atrocità commesse da entrambi nel passato.
L’incontro tra i due gruppi fu un’esperienza molto felice. Proprio quando ero molto impegnato in queste iniziative di pace, mi chiamò il nunzio apostolico che mi annunciava la decisione del Papa di nominarmi segretario aggiunto a Propaganda Fide e chiedeva se aderivo a questa richiesta. Di fronte al desiderio del Papa ho detto sì. Così sono arrivato a Roma per svolgere la mia missione nella Congregazione posta sotto la guida del cardinale Crescenzio Sepe.
Dove è rimasto per circa due anni.
Ranjith: È stato un periodo molto interessante. Per me si è trattato un po’ come di una continuazione del lavoro che avevo già svolto in qualità di direttore delle Pontificie opere missionarie in Sri Lanka. Quasi due anni in cui ho cercato di essere il più possibile autentico, leale e sincero nel mio lavoro. Ho tentato di valorizzare al massimo il ruolo dei direttori nazionali delle Pontificie opere missionarie nelle varie Chiese locali, e di salvaguardare la trasparenza assoluta in tutte le delicate questioni finanziarie che riguardano queste opere.
Il 29 aprile 2004 viene resa nota la sua nomina a nunzio apostolico in Indonesia e Timor Est.
Ranjith: Dopo un periodo di riflessione mi è stato chiesto di diventare nunzio apostolico. Ho accettato con grande interesse. Anche se si trattava per me di un’esperienza nuova, in un campo che per me era ancora misterioso. Da vescovo avevo collaborato con la nunziatura di Colombo, ma non avevo avuto la formazione speciale che hanno i nunzi. Direi che è stata un’esperienza molto ricca e ho cercato di essere vicino a quella Chiesa e ai suoi pastori e manifestare così la vicinanza del Santo Padre a loro.
Proprio durante la sua permanenza a Jakarta c’è stato il terribile tsunami che ha sconvolto il Sud Est asiatico. Come ha vissuto quella esperienza?
Ranjith: In quei giorni si trovava da me un mio carissimo amico, l’arcivescovo di Vienna il cardinale Christoph Schönborn. Appresa la tragedia, abbiamo abbandonato il programma che avevamo già stabilito per lui e siamo andati a Banda Aceh. È stato un viaggio estremamente difficoltoso, ma siamo riusciti ad arrivare e a visitare le zone colpite. È stato uno spettacolo terribile: morte e distruzione dappertutto. Abbiamo trascorso due giorni da missionari, abbiamo dormito in alloggi di fortuna senza acqua corrente e senza luce. Ma siamo stati contenti di poter essere vicini alla piccola comunità cattolica di Banda Aceh e anche dell’isola di Nias.
La voce del cardinale Schönborn che da quella zona raccontava alle radiotelevisioni europee la sua esperienza è stata anche determinante nella solidarietà che abbiamo ricevuto da ogni parte del mondo. Successivamente attraverso la rete delle Caritas e l’aiuto della Santa Sede siamo riusciti a stabilire un programma di aiuti solido per quelle popolazioni. La Caritas indonesiana era inattiva e così con l’aiuto del cardinale arcivescovo di Jakarta e della Caritas internationalis siamo riusciti a riattivare questo organismo ecclesiale e a stabilire progetti di aiuto per la ricostruzione di quelle zone. Ricordo che abbiamo partecipato a riunioni interminabili ma importanti grazie alle quali abbiamo potuto dare il nostro contributo come Chiesa cattolica per le popolazioni colpite da questa immane tragedia.
Poco prima della sua nomina a nunzio, L’Osservatore Romano del 26-27 aprile 2004 ospitò un suo articolo di commento alla istruzione Redemptionis Sacramentum «su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia», pubblicata poco tempo prima a cura della Congregazione per il culto divino d’intesa con la Congregazione per la dottrina della fede…
Ranjith: L’articolo lo scrissi su richiesta del prefetto della Congregazione per il culto divino, il cardinale Francis Arinze. Avevo trovato la Redemptionis Sacramentum assai utile e necessaria, e perciò sono stato ben contento di commentarla.
Fu un articolo per così dire profetico, visto l’incarico da lei oggi ricoperto…
Ranjith: Non lo so. Però come ho già detto, mi sono sempre interessato della liturgia soprattutto nei suoi risvolti pastorali, e ho sempre cercato di leggere e documentarmi su questi aspetti. E ricordo che quando mi capitava di incontrare l’allora cardinale Ratzinger, spesso nei nostri colloqui si finiva per parlare di liturgia.
Come ha conosciuto il cardinale Joseph Ratzinger?
Ranjith: Per una questione riguardante lo Sri Lanka, quella del teologo Tissa Balasuriya, il quale aveva scritto un libro, Mary and human liberation, in cui veniva fatta un’analisi teologica difficilmente compatibile con la dottrina cattolica. Allora ero un giovane vescovo appena nominato, mi sono interessato a questo libro e ho coordinato una commissione episcopale appositamente creata per studiare questo testo. Nel 1994, alla fine dei lavori di questa commissione, la Conferenza episcopale emise un comunicato in cui si avvisavano i fedeli che il libro non rispecchiava la dottrina della Chiesa.
Questo comunicato scatenò una campagna stampa mondiale contro di noi e in favore di padre Balasuriya. La controversia fu talmente forte che anche Roma cominciò a indagare. E così venni richiamato nell’Urbe per spiegare quello che stava succedendo al Papa e al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Ratzinger. Le affermazioni di padre Balasuriya erano talmente gravi che nel gennaio 1997 vennero formalmente condannate dalla Congregazione e lui stesso, non avendole ritirate, venne colpito dalla scomunica latae sententiae. Scomunica che rientrò l’anno successivo, dopo una solenne dichiarazione pubblica dello stesso padre Balasuriya.
Fu quindi in questo contesto che cominciò la sua frequentazione con il cardinale Ratzinger…
Ranjith: Sì, l’ho incontrato diverse volte e in quelle occasioni avevo modo di illustrare a lui le mie impressioni e le mie preoccupazioni di vescovo specialmente riguardo alla questione del dialogo interreligioso e anche alle questioni liturgiche. Quando poi sono stato chiamato a Propaganda Fide, ho avuto modo di incontrare il cardinale Ratzinger più di frequente, anche durante le ordinarie del dicastero di cui anche lui faceva parte. Così, oltre a essere un avido lettore dei suoi libri, ho imparato ad apprezzarne personalmente anche le sue doti umane. In lui ho visto sempre un grande teologo e nelle sue parole non un pedante, ma essenzialmente una persona vicina al Signore.
A Jakarta quindi è stato poco meno di due anni. Il 10 dicembre 2005 è stata pubblicata la nomina a segretario del Culto divino. Si aspettava questa nuova chiamata a Roma?
Ranjith: Ricordo che Benedetto XVI mi chiamò in udienza a Castel Gandolfo durante l’estate del 2005, era metà settembre, e mi chiese se volevo accettare la nomina a segretario della Congregazione per il culto divino. Ho detto di sì. Ho sempre avuto un interesse per la liturgia, che ho sempre considerato la chiave del rapporto tra fede e vita, perché come viene celebrata la liturgia così viene vissuta la fede cristiana. La liturgia da un lato esteriorizza la fede, dall’altro la alimenta. Poter dare su questo punto, che sta molto a cuore a papa Benedetto, il mio pur modesto contributo mi ha riempito il cuore di gioia.
Eccellenza, la sua prima uscita pubblica da segretario della Congregazione per il culto divino è stata una conferenza tenuta in occasione della presentazione del libro di Uwe Michael Lang, oratoriano di origini tedesche residente a Londra, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica (Cantagalli, Siena 2006, pp. 150, euro 14,90), avvenuta il 27 aprile presso l’Istituto patristico Augustinianum di Roma. Il volume, edito in tedesco nel 2003, contiene una prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, pubblicata per la prima volta in italiano sul numero di marzo 2004 di 30Giorni. Cosa l’ha colpita di più di questo libro?
Ranjith: Avevo già letto questo libro e la bellissima prefazione dell’allora cardinale Ratzinger. Così quando ho ricevuto l’invito, ho subito accettato. Perché è stata l’occasione per far nascere un dibattito molto positivo nella Chiesa. Si parla tanto di partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma i fedeli partecipano di più se il sacerdote celebra versus populum o se celebra verso l’altare? Non è detto infatti che questa partecipazione sia più attiva se il prete celebra verso il popolo; può darsi che in questo caso il popolo si distragga.
Così è vera partecipazione quando al segno della pace in chiesa si crea una grande confusione, con dei sacerdoti che a volte vanno a dare il loro saluto fino alle ultime file? Si tratta della actuosa participatio, auspicata dal Concilio Vaticano II, o semplicemente di una grande distrazione che non aiuta per nulla a seguire con devozione il momento successivo della messa – a parte il fatto che a volte ci si dimentica pure di declamare l’Agnus Dei… Ripeto, il libro di padre Lang è stato ed è un’utilissima provocazione, a cominciare dall’introduzione in cui il cardinale Ratzinger ricorda che il Concilio non ha mai chiesto di abolire il latino né di rivoluzionare la direzione della preghiera liturgica…
Una sua intervista alla Croix del 26 giugno, intitolata La riforma liturgica del Vaticano II non è mai decollata, ha fatto molto rumore. Può spiegare meglio i suoi giudizi sulla riforma liturgica attuata dopo il Concilio Vaticano II?
Ranjith: Queste parole sono state messe fuori contesto. Non è che valuti negativamente tutto quello che è avvenuto dopo il Concilio. Ho detto invece che il risultato atteso dalla riforma liturgica non si è manifestato. Ci si domanda se la vita liturgica, la partecipazione dei fedeli alle sacre funzioni, sia più alta e migliore oggi rispetto a quella presente negli anni Cinquanta. Si è criticato il fatto che prima del Concilio i fedeli non partecipavano veramente alla messa, ma assistevano passivamente o facevano delle devozioni personali. Ma oggi davvero i fedeli partecipano in modo spiritualmente più elevato e personale? È davvero successo che tanti che erano fuori della Chiesa con le nuove liturgie si siano messi in fila per entrare nelle nostre chiese? O non è successo invece che molti se ne sono andati via e che le chiese si sono svuotate? Di quale riforma allora si parla?
Colpa della secolarizzazione…
Ranjith: Certamente, ma tale situazione è anche frutto del modo con cui è stata trattata o, meglio, bistrattata la liturgia… In pratica, secondo me, le sacrosante aspettative del Concilio di una liturgia meglio compresa e quindi spiritualmente più feconda, sono state ancora disattese. E quindi c’è ancora molto da fare, affinché le chiese si riempiano di nuovi fedeli che durante le sacre liturgie si sentano veramente toccati dalla grazia del Signore. In un mondo secolarizzato, invece di cercare di elevare i cuori verso la grandezza del Signore, si è cercato, piuttosto, credo, di abbassare i misteri divini a un livello banale.
Quando è stato nominato segretario al Culto divino, è stato scritto che lei avrebbe ottimi rapporti col mondo lefebvriano. Corrisponde al vero?
Ranjith: Non ho conosciuto monsignor Marcel Lefebvre per motivi anagrafici, perché lui è di un’altra epoca. Ma certamente ho avuto qualche contatto con alcuni dei suoi seguaci. Ma non sono un appassionato dei lefebvriani. Sfortunatamente non sono ancora rientrati nella piena comunione con la Santa Sede, ma quello che loro qualche volta dicono sulla liturgia lo dicono a ragion veduta. E perciò loro sono un pungolo che ci deve far riflettere su quello che stiamo facendo. Questo non vuol dire che posso essere definito come un aderente o un amico dei lefebvriani. Io condivido alcuni punti dei cosiddetti no global riguardo alla giustizia sociale, ma questo non vuol dire che sono un loro aderente… D’altra parte la messa tridentina non è proprietà privata dei lefebvriani. Essa è un tesoro della Chiesa e di noi tutti. Come il Papa ha detto alla Curia Romana l’anno scorso, il Concilio Vaticano II non è un momento di rottura, ma di rinnovamento nella continuità. Non si butta via il passato, ma si cresce su di esso.
Questo vuol dire che la messa cosiddetta di san Pio V in realtà non è stata mai abolita?
Ranjith: Il fatto che la Santa Sede abbia recentemente approvato l’istituzione, a Bordeaux, di una società di vita apostolica di diritto pontificio caratterizzata dal fatto di usare esclusivamente i libri liturgici preconciliari [si tratta dell’Istituto del Buon Pastore in cui si sono raccolti alcuni fuoriusciti “lefebvriani”, ndr], sta a significare in modo inequivocabile che la messa di san Pio V non può essere considerata come abolita dal nuovo messale cosiddetto di Paolo VI.