In lotta contro gli ”ismi”

Hannah Arendt

Hannah Arendt

Jesus n.11 novembre 2006

Ebrea tedesca costretta all’esilio per evitare le persecuzioni naziste, Hannah Arendt è stata una delle più interessanti filosofe del Novecento. Autrice del famoso libro su La banalità del male, è stata una critica spietata delle ideologie totalitarie, di destra e di sinistra, che hanno funestato il ventesimo secolo.

di Maurizio Schoepflin

La pensatrice tedesca di origine ebrea Hannah Arendt, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, è stata una delle figure più originali e interessanti del panorama filosofico della prima metà del Novecento e rappresenta l’emblema della donna emancipata, laica, capace di ragionare con la mente sgombra da pregiudizi.

Costretta ad abbandonare la Germania a motivo della dittatura nazista, si rifugiò in Francia e poi negli Stati Uniti, dove rimase sino alla morte. L’esperienza della persecuzione contro gli ebrei non solo la segnerà indelebilmente, ma sarà decisiva anche per lo sviluppo del suo pensiero. Non casualmente, infatti, uno dei temi più importanti sui quali la Arendt concentrò l’attenzione fu quello relativo all’origine del totalitarismo, a cui legò le sue celebri riflessioni sulla banalità del male, che suscitarono aspre critiche nello stesso mondo ebraico, che la accusò di sottovalutare, in tal modo, il fenomeno nazista.

Le origini del totalitarismo, il suo testo più famoso, vide la luce nel 1951, all’indomani del secondo conflitto mondiale, in piena guerra fredda, e può essere considerato una delle opere storico-politiche più significative del Novecento. In esso la Arendt analizza le cause che generano i regimi totalitari e i meccanismi che li sostengono. A suo giudizio, tali regimi rappresentano la conseguenza più tragica dell’affermarsi della società di massa, che spersonalizza l’uomo e lo sradica da ogni relazione con i suoi simili.

Scrive a questo proposito la Arendt: «Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l’esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza. Eppure, nel contesto dell’ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno “un’anima da schiavi” (Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell’ideologia, i campi hanno quasi il difetto di aver troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza (…). La follia di tali sistemi consiste (…) nella logicità con cui sono costruiti. La curiosa logicità di tutti gli “ismi” (cioè quei sistemi di pensiero che pretendono di dare una spiegazione totale e definitiva, quali per esempio il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, il totalitarismo, ecc.), la loro fede ingenua nell’efficacia redentrice della devozione caparbia senza alcun riguardo per i vari fattori specifici racchiude già in sé i primi germi del disprezzo totalitario per la realtà e la attualità».

Riconoscendo ai diversi regimi totalitari una matrice e una logica comuni, la Arendt assimilò nazismo e comunismo, e per questo non fu letta con la dovuta serenità e oggettività da parte dell’intellighenzia di sinistra, che la considerò la rappresentante di un’ideologia liberale e neoconservatrice. In realtà, l’intellettuale ebreo-tedesca fu vicina al pensiero socialista, in particolare alle idee di Rosa Luxemburg.

A giudizio della filosofa germanica, vi è stata una congiuntura storicamente favorevole all’affermarsi dei regimi dittatoriali, cioè il confluire in un momento preciso (quello della crisi susseguita alla fine della Grande Guerra) delle conseguenze provocate dall’antisemitismo e dall’imperialismo.

Nel totalitarismo la Arendt ravvisa un fenomeno completamente nuovo e diverso rispetto alle altre forme di oppressione politica realizzatesi nel corso della storia. Infatti, ella ritiene che l’ideologia totalitaria distrugga tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche di un Paese, creandone di nuove, e soprattutto, cosa ancora più grave, miri alla trasformazione della natura umana.

La condizione in cui si viene a trovare l’individuo è l’isolamento politico e l’estraneazione sociale: infatti una simile dittatura può affermarsi prima di tutto perché distrugge la vita politica democratica, diffondendo paura e sospetto tra gli uomini, che non si sentono più cittadini ma individui isolati; in secondo luogo perché annulla la vita privata delle persone, le isola dal mondo, taglia ogni loro radice sociale e le rende reciprocamente nemiche.

Ma, continua la Arendt, le ragioni profonde dei crimini nazisti non devono essere ricercate nella cattiveria o nella mostruosità di alcuni carnefici, quanto piuttosto nell’assenza di pensiero che subentra in individui del tutto normali. Coloro che si sono macchiati di delitti così efferati e assurdi non sono in realtà mostri, ma uomini qualunque, comuni padri di famiglia, i quali però, una volta inseriti in una macchina infernale come l’organizzazione nazista, si trasformano e diventano capaci delle più disumane atrocità (a tale proposito si deve ricordare che la pensatrice ebrea partecipò, come inviata speciale del New Yorker, al processo celebrato a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann, e che, in seguito a tale esperienza, nel 1963 pubblicò un famoso libro, eloquentemente intitolato La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme).

Se in questa prima fase della sua speculazione la Arendt si concentra su temi politici, successivamente sente la necessità di ampliare il campo delle sue ricerche, fortemente sollecitata dalla conoscenza del dibattito sviluppatosi negli anni Quaranta e Cinquanta, e in particolar modo dalle questioni suscitate dall’esistenzialismo. Il risultato più organico e interessante di questo suo nuovo impegno teoretico è rappresentato dall’opera Vita activa: la condizione umana, risalente al 1958.

In essa la Arendt delinea i tratti caratteristici della vita attiva quali vengono fissati da Platone e soprattutto da Aristotele, e sottolinea le differenze che intercorrono tra questo genere di esistenza e quella contemplativa. Segue la trattazione delle varie interpretazioni che storicamente si sono succedute sul tema della vita pratica, trattazione che muove dall’antichità greco-romana e giunge fino ai nostri giorni.

Nella parte conclusiva dell’opera, la pensatrice tedesca, ispirandosi alle teorie del suo maestro Martin Heidegger, evidenzia la crisi dei tempi moderni, derivante in massima parte dal rovesciamento delle gerarchie, prima fra tutte quella tra vita activa e vita contemplativa, e in secondo luogo quella esistente all’interno della stessa vita activa, la quale si articola in tre momenti, che costituiscono i tre aspetti fondamentali della condizione umana: l’uomo è animal laborans, homo faber e zoon politikòn.

Evidente risulta la gerarchia di questi tre tipi di vita, fra i quali è il terzo ad avere la dignità maggiore. Inoltre, a proposito del primato della vita contemplativa su quella attiva, la filosofa tedesca sostiene che esso non è di origine cristiana: infatti, già i grandi filosofi greci, Platone e Aristotele, avevano parlato della superiorità del bios theoretikos sul bios politikos. Tale superiorità, secondo la Arendt, va tuttavia negata, perché l’azione e la contemplazione stanno sullo stesso piano e hanno pari valore.

Nell’età moderna la gerarchia esistente fra le tre sfere della vita attiva è stata capovolta: in un primo momento si è affermata la superiorità dell’homo faber, che, con Cartesio, trova in sé la fonte di ogni verità e certezza; ciò, però, ha condotto alla negazione del bisogno di Dio o di qualcosa di eterno, e alla distruzione stessa dell’homo faber a favore dell’animal laborans, cioè al primato di quella forma di attività che ha come fine unico il mantenimento della vita.

Dunque, secondo la Arendt, l’umanizzazione integrale del mondo moderno avviene al livello più basso. L’unica speranza resta legata al pensiero, che è ancora possibile ed efficace, in qualsiasi condizione politica vivano gli uomini. A questo tema la filosofa ebrea dedicò un’opera, La vita della mente, pubblicata postuma nel 1978.

Le attività mentali sono tre: pensare, volere e giudicare. Esse rappresentano ciò che è assente ai sensi, ma si mantengono in contatto con il mondo attraverso il linguaggio di cui si servono. Secondo la Arendt, è proprio il linguaggio che, sanando la frattura esistente tra il mondo sensibile e quello della mente, può offrire all’uomo una possibilità di salvezza dalla passività e dal conformismo di massa.

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Da La banalità del male a La vita della mente

Hannah Arendt nacque il 14 ottobre 1906 nei pressi di Hannover in una famiglia della borghesia ebrea benestante. Fu allieva di Martin Heidegger e di Edmund Husserl e si laureò sotto la guida di Karl Jaspers con una tesi su Il concetto di amore in Agostino. Ad Heidegger fu pure legata da una intensa passione amorosa.

Nel 1929 si trasferì a Berlino e si sposò con il filosofo Günther Stern. All’avvento del nazismo, abbandonò la Germania e si stabilì a Parigi. Nel 1940 si sposò una seconda volta con Heinrich Blücher, con il quale, l’anno seguente, dopo varie vicissitudini, raggiunse New York. Dal 1957 percorse una prestigiosa carriera accademica che la vide insegnare a Berkeley, a Princeton e, dal 1967 fino alla morte, alla New School for Social Research di New York.

Si spense a New York il 4 dicembre 1975 stroncata da un attacco cardiaco. Tra le sue opere più importanti tradotte in italiano segnaliamo: Le origini del totalitarismo (Einaudi, 2004), Vita activa (Bompiani, 1988), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, 2003), Il concetto di amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica (SE, 1992), La vita della mente (Il Mulino, 2004).