Più che il dialogo con gli ebrei, il Vaticano vede in pericolo la fede nella storicità dei Vangeli. E teme il ritorno di un’antica eresia, che eliminava dalla Bibbia le pagine politicamente scorrette
di Sandro Magister
ROMA – C’è una questione ebraica aperta dal film di Mel Gibson “The Passion of the Christ”, in visione già in mezzo mondo: nelle due Americhe, in Polonia, paese natale di Giovanni Paolo II, e dal 7 aprile, mercoledì santo, in Italia e a Roma. Ma c’è anche una questione cattolica, tutta interna alla Chiesa. Così cattolica che il predicatore ufficiale della casa pontificia, il francescano Raniero Cantalamessa, ha dedicato ad essa l’intera sua prima predica di quaresima al papa e agli altri capi di curia, venerdì 12 marzo, nella cappella vaticana “Redemptoris Mater”. E sia l’una che l’altra questione sono tanto più serie quanto più toccano non il film – discutibile come ogni creazione cinematografica e artistica – ma il suo soggetto: i quattro Vangeli nel loro nucleo più antico e centrale, i racconti della passione.
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La questione ebraica è quella su cui più si è fatto rumore. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, è arrivato a chiedere alle autorità della Chiesa un pronunciamento ufficiale contro l’antisemitismo del film, appellandosi alla dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II, che a suo dire “ha trattato differentemente i fatti raccontati dal Vangelo, storicizzando la responsabilità di quanto avvenuto a Gesù”. Ma a questa richiesta del rabbino Di Segni il portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls ha risposto in un’intervista al quotidiano “Il Messaggero” dell’11 marzo: “Se la Chiesa non ha reagito vuol dire che non ne ha trovato i motivi”. E ancora: “Il film è la trascrizione cinematografica dei Vangeli. Se fosse antisemita il film, lo sarebbero anche i Vangeli. […] Equivarrebbe ad affermare che i Vangeli non sono storici”.
La corrispondenza tra la passione dei Vangeli e “The Passion” di Mel Gibson è una rivendicazione costante dell’entourage di Giovanni Paolo II. Lo scorso dicembre, sia il suo segretario personale, l’arcivescovo Stanislaw Dziwisz, sia Navarro, attribuirono al papa in persona d’aver esclamato, dopo aver visto il film in anteprima: “It is as it was”, “È come è stato”. Poi sia l’uno che l’altro smentirono, obbedendo a un richiamo della segreteria di stato vaticana, alla quale preme tenere il papa fuori dalla disputa e non compromettere la preparazione di una seconda visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma, prevista entro quest’anno.
In ogni caso, più che un arresto del dialogo tra cattolicesimo ed ebraismo, il Vaticano teme un attacco frontale alla storicità dei Vangeli. Questo attacco è stato portato in modo esplicito da ebrei come Leon Wieseltier, filosofo e capo delle pagine culturali di “The New Republic”: “Si dice che questo film è esattamente ciò che raccontano i Vangeli: ma i Vangeli non sono documenti storici sicuri e affidabili”.
È un attacco, però, che trova sostenitori anche in campo cattolico. Per contrastarlo, il Vaticano ha messo in campo due suoi combattenti scelti: padre Joseph Augustine Di Noia, sottosegretario della congregazione per la dottrina della fede, e padre Raniero Cantalamessa, predicatore della casa pontificia. Il primo, teologo domenicano, ha prodotto negli ultimi mesi i più densi commenti dottrinali sulle questioni aperte dal film, evidentemente con l’avallo del cardinale Joseph Ratzinger suo diretto superiore. Il secondo, frate cappuccino, già professore di storia del cristianesimo primitivo all’Università Cattolica di Milano, ha difeso con forza la storicità dei Vangeli parlando nella veste ufficiale di predicatore della casa pontificia, evidentemente con l’approvazione del papa.
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Ebbene, stando a quando predicato il 12 marzo da Cantalamessa, è in atto in campo cristiano un pericoloso svuotamento della “lettera” dei racconti evangelici della passione.
La lettera dice “ciò che è accaduto”: realmente accaduto, narrato da testimoni oculari. Alcune polemiche contro il film di Mel Gibson sarebbero invece il sintomo di un cedimento del realismo della fede. Si continua a proclamare nel “Credo” che Gesù Cristo “patì sotto Ponzio Pilato”, si continua ad ascoltare nella settimana santa il Vangelo della passione. Ma la fede nella storicità dei racconti evangelici si è indebolita. Di essi si accetta lo “spirito”, molto meno la lettera. E il Concilio Vaticano II è spesso chiamato in aiuto di questa dualità tra spirito e lettera.
Sul quotidiano di Roma “Il Riformista” è uscito il 6 marzo uno scritto di un intellettuale cattolico di rilievo, Stefano Ceccanti, costituzionalista, che spiega molto bene questo richiamo al Concilio.
Ceccanti ricorda che la dichiarazione conciliare “Nostra Aetate”, quella sul rapporto con gli ebrei e le altre religioni, invita i cristiani a “che nella catechesi e nella predicazione della Parola di Dio non insegnino alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo”. E prosegue: “Ma dove stanno questa verità e questo Spirito? Nella lettera nuda delle Sacre Scritture? Qui soccorre un secondo documento, la costituzione ‘Dei Verbum’, quella sulla divina rivelazione”.
Documento che Ceccanti così traduce e applica: “Guai ad accostarsi ai testi [evangelici] come se si trattasse di indiscutibili manuali di storia e guai a far propria una lettura fondamentalista per cui gli evangelisti sarebbero stati solo recettori passivi dello Spirito, senza proprie strutture culturali. Nel caso specifico è evidente che i quattro evangelisti, in forme diverse, e poi ancor più san Paolo, riflettevano la mentalità delle loro comunità di appartenenza che affermavano necessariamente la loro identità per differenziarsi rispetto agli ebrei.
La religione giovane, quella del Figlio, allo stato nascente non poteva che rimarcare la discontinuità con quella del Padre, con la legge di Mosé, e innervare di questa polemica gli stessi racconti della passione. Ciò non significa che essi debbano essere purgati da questi aspetti in nome del ‘politically correct’, ma che, leggendoli, se ne colga questa finalità storica, concreta, non prendendola per espressione della volontà divina”.
Conclusione: “Dalla lettera della violenza e della contrapposizione, presenti anche nelle Scritture per la loro necessaria umanità, ci si libera solo con lo spirito consapevole dei legami comuni [tra cristiani ed ebrei]. Se non lo si fa dopo la ‘Nostra Aetate’ si finisce, non volendo, per aiutare la rinascita dell’antisemitismo”.
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Insomma, né Cantalamessa né Di Noia l’hanno detto esplicitamente, ma in Vaticano si ritiene che dietro un certo modo d’intendere oggi la dualità tra lettera e spirito ritorni l’eresia di Marcione.
Marcione fu il filosofo e teologo greco del II secolo che eliminò dalle Sacre Scritture l’intero Antico Testamento e vari libri del Nuovo, perché a suo giudizio espressioni di un Dio violento e malvagio agli antipodi del Dio buono di Gesù. A suo giudizio. Come a loro personale giudizio anche oggi alcuni cattolici purgano le Sacre Scritture da tutte quelle pagine che essi ritengono scorrette.
Il caso più recente di neomarcionismo, in Italia, ha avuto come protagonista un capofila del pacifismo cattolico, Enrico Peyretti, fondatore e direttore a Torino del mensile “il Foglio”. Da Eric Auerbach in poi, la critica letteraria dà per assodato che furono i Vangeli a inaugurare il realismo della letteratura occidentale. Per chi non lo sopportava, venivano in soccorso i racconti apocrifi. E alcuni di questi – ha ricordato René Girard in un’intervista a “la Repubblica” del 10 marzo – “avevano soppresso del tutto la passione”.
Anche il Corano, nel VII secolo, esonerò Gesù dalla passione. Oggi c’è chi la vuole non sopprimere, ma addomesticare. E pretende che il dialogo con gli ebrei e “lo spirito del Concilio Vaticano II” autorizzino l’operazione.
La questione ebraica è quella su cui più si è fatto rumore. Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, è arrivato a chiedere alle autorità della Chiesa un pronunciamento ufficiale contro l’antisemitismo del film, appellandosi alla dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II, che a suo dire “ha trattato differentemente i fatti raccontati dal Vangelo, storicizzando la responsabilità di quanto avvenuto a Gesù”. Ma a questa richiesta del rabbino Di Segni il portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls ha risposto in un’intervista al quotidiano “Il Messaggero” dell’11 marzo: “Se la Chiesa non ha reagito vuol dire che non ne ha trovato i motivi”. E ancora: “Il film è la trascrizione cinematografica dei Vangeli. Se fosse antisemita il film, lo sarebbero anche i Vangeli. […] Equivarrebbe ad affermare che i Vangeli non sono storici”.