Da un articolo di più di vent’anni fa si evince come la politica economica e fiscale dell’attuale sinistra in Italia sia affato mutata ma punta ancora alla trasformazione in senso socialista della società, attraverso la spesa pubblica e il prelievo forzoso, in nome di una fantomatica ridistribuzione delle risorse
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Di fronte alla «persecuzione fiscale» e allo «spreco di Stato» i principi della dottrina sociale della Chiesa come categorie per giudicare, affrontare e superare senza demagogia lo statalismo ipertrofico e invadente e la sua espressione fiscale.
di Massimo Introvigne
Le dimensioni anomale della fiscalità italiana, sottolineate e aggravate dai più recenti sviluppi della «manovra» tributaria, hanno determinato in vari settori del corpo sociale una situazione di grave disagio, che ha indotto molti – come ha scritto un economista pure culturalmente vicino ai promotori della «manovra» stessa, Mario Salvatorelli – a percepire la operazione come una vera e propria «persecuzione fiscale» (1). E’ certamente deplorevole che disagi materiali e psicologici siano stati, come spessoaccade, «giocati» e strumentalizzati in chiave propagandistica, o talora – secondo la occasione – elettorale.
Il dibattito, non di rado inquinato dalla demogogia, ha variamente ruotato intorno a come trovare le elevate somme necessarie a coprire i pubblici disavanzi; è mancata invece, in genere, un’analisi del perché lo Stato si presenta a esigere tributi tanto elevati. Si è dato per scontato, in altre parole, che lo Stato, nelle sue varie articolazioni, abbia bisogno di spendere una somma che si aggira fra i 150mila e i 200mila miliardi (2), e si è cercato dove e da chi recuperarli ed esigerli.
Si è fatto largo appello alle forze dell’invidia e della delazione sociale, cercando di ‘convincere ogni consociato che il suo problema fiscale sarebbe risolto se soltanto anche il vicino pagasse, secondo il noto slogan della campagna elettorale comunistica: «La società è ingiusta: tu paghi, lui no». Si è posto l’accento, così, su ciò che divide i consociati e li rende sospettosi e aggressivi gli uni verso gli altri; mentre si è accuratamente evitato ogni elemento suscettibile di unire i contribuenti tra loro e di evocare responsabilità e anomalie non solo del comportamento dei singoli ma anche del comportamento dello Stato. Quasi mai ci si è chiesti se è proprio necessario che lo Stato spenda – e pertanto chieda ai consociati – una somma tanto elevata e se non sia invece possibile che questa somma sia drasticamente ridotta.
La polemica fiscale offre statistiche con un ritmo quasi quotidiano, così che anche di fronte alle cifre più allarmanti la opinione pubblica non reagisce più, ormai assuefatta a numeri di cui non sembra in grado di percepire la natura oggettivamente mostruosa. Tuttavia, fra le varie cifre disponibili, sembra almeno particolarmente rilevante quella relativa alla incidenza percentuale della spesa pubblica sul prodotto interno lordo, il Pil, figura tra le più attendibili del reddito nazionale.
Secondo dati presentati dal professore Franco Reviglio, ex ministro delle Finanze, a un convegno organizzato nel 1983 dalla Cassa di Risparmio di Torino, la previsione per l’anno parlava di una spesa pubblica attestata intorno al 61,4 per cento del Pìl, circa i 3/5 del reddito nazionale. Questo significa che su ogni 5mila lire che si spendono complessivamente in Italia, circa 3mila sono spese dai vari settori della pubblica amministrazione.
Nella stessa relazione, Franco Reviglio ha fatto rilevare come l’anomalia della espansione emerga dal dato storico: in 110 anni, dal 1861 al 1970, la incidenza della spesa pubblica sul Pil è passata dal 18 al 36 per cento, con un incremento di 18 punti. In soli 13 anni, dal 1970 al 1983, si è per contro registrato un ulteriore incremento di 35 punti, dal 36 al 61 per cento (3).
Questa situazione non è normale: lo dimostra un confronto tra la evoluzione della spesa pubblica in Italia e, rispettivamente, negli altri paesi della CEE, dove pure sono state tentate o sono in corso esperienze di interventismo statale dichiaratamente socialistico. Negli altri paesi della Comunità la incidenza della spesa pubblica sul Pi1 resta costantemente al di sotto del 50 per cento e – in paesi come la Germania, il Belgio, la Francia – tende a rimanere intorno al 35-40 per cento (4).
Questo mostro in continua crescita, naturalmente, non può che essere finanziato con un prelievo fiscale talora diverso nelle modalità, ma sempre crescente nel suo valore aggregato e giunto a livelli – come ha commentato un giornalista presente al citato convegno promosso dalla Cassa di Risparmio di Torino – in cui «non si tratta più di intervento dello Stato, ma. di saccheggio del Paese» (5).
L’anomalia del caso italiano dimostra che il problema della giustizia fiscale non si riduce né alla questione della evasione né al dibattito sulla equità «tecnica» delle varie forme di prelievo. La evasione e le tecniche riguardano il come lo Stato preleva; ma rimane, a monte, il problema fondamentale della imposizione fiscale, di quanto lo Stato può e deve prelevare. Quest’ultimo interrogativo è strettamente connesso con una serie di problemi più generali, che riguardano i rapporti tra Stato e consociati e l’ambito e i limiti dell’attività statale; più lo Stato fa, più spende – più spende, più deve chiedere tributi.
La questione fiscale appare, allora, non un terreno riservato ai tecnici, ma un problema di giustizia la cui soluzione è condizionata da una serie di presupposti dottrinali. E proprio nel dibattito sui presupposti dottrinali della imposizione fiscale i cattolici possono e devono intervenire con elementi originali e importanti, alla luce di quel «corpo di principi di morale sociale cristiana, conosciuto oggi come Dottrina Sociale della Chiesa», di cui Giovanni Paolo II ha ricordato la «stabilità e la certezza nei principi e nelle norme fondamentali» e che è «parte integrante della concezione cristiana della vita» (6).
1. Fisco e valori
1. Il principio di solidarietà
L’interesse – spontaneo o, come accennato, talora artificialmente promosso – che suscitano nella opinione pubblica alcuni aspetti del fenomeno della evasione fiscale ha spinto i filosofi e i cultori di morale sociale, in diversi ambiti culturali, a insistere vigorosamente sul valore della solidarietà e sulla denuncia di quello che una certa filosofia sociale anglo-americana definisce free-rider: colui che «cavalca da solo» e si sottrae a ogni responsabilità verso gli altri.
La critica del free-rider si situa, in genere, all’interno di modelli sociali che insistono sulla uguaglianza come fine e quindi sulla pressione fiscale come strumento ugualitario; tipico – al riguardo – è il neocontrattualismo di John Rawls, al quale non a caso ha più volte dichiarato di ispirarsi anche uno dei promotori della «manovra» tributaria italiana, Francesco Forte (7).
Il free-rider non offre certamente modelli di comportamento suscettibili di essere condivisi nel quadro della morale sociale cristiana. che – sulla scia di Aristotele – considera la socialità come una componente della stessa natura umana e propone il principio di solidarietà come alternativa alla formula hobbesiana dell’homo hominis lupus e alle sue inevitabili conseguenze totalitarie.
Nell’attuale contesto politico la posizione del ,free-rider sembra particolarmente pericolosa, in quanto l’affermazione estrema dell’individualismo gioca paradossalmente a favore dell’avanzata statalistica, che procede senza reazioni e senza ostacoli proprio grazie al rifiuto del sociale, al «riflusso», al «farsi i fatti propri» che connotano la mentalità di fasce crescenti di cittadini. Sono sempre di più quelli che «non si occupano di politica». ignorando forse che la politica si occupa e si occuperà di loro.
In questo quadro, anche la evasione fiscale rischia di assumere le caratteristiche di una pericolosa fuga dalla realtà. La parola «evasione» assume un significato analogo a quello che ha in espressioni come «letteratura di evasione», «cultura di evasione» e simili: nasce una mentalità in cui non solo e non tanto si evadono le tasse, ma si finge di poter evadere dalle tasse, rifugiandosi in una immaginaria dimensione «apolitica» dove la evasione fiscale, come mentalità e come costume, è alternativa rispetto a una più consapevole ed efficace «protesta fiscale».
Nel quadro di una analisi del problema della giustizia fiscale alla luce della dottrina sociale della Chiesa, il richiamo al principio di solidarietà e la critica di chi ritiene di evadere dal problema fiscale rifugiandosi in un illusorio disimpegno hanno certamente un ruolo importante. Perché, tuttavia, il richiamo non sia generico – come spesso avviene anche in tanta letteratura ecclesiastica -, è necessario a mio avviso completarlo con almeno due osservazioni ulteriori sulla origine e sul ruolo della figura del free-rider.
L’individuo che si disimpegna dalla società per «cavalcare da solo» non è comparso improvvisamente, ex machina, sulla scena della storia; piuttosto, è il frutto inevitabile di una civiltà e di un processo che hanno creato un individuo senza radici e senza memoria storica, infinitamente plastico e plasmabile, in balìa di ogni divenire e di ogni potere. Se è vero che i processi storici hanno una valenza filosofica, rappresentano le idee incarnate nella storia, non si può criticare il free rider contemporaneo senza chiedersi chi ha diffuso una cultura del dubbio e della incertezza, ha gettato il sospetto sui valori, ha creato generazioni di déraciné senza religione, senza metafisica e senza morale.
In secondo luogo, sembra opportuno osservare che il free rider– figura tipica e per certi versi inevitabile della società Post-illuministica e Post-marxistica – è forse una conseguenza, ma non è certamente la causa della «persecuzione fiscale». Le calamità naturali, come la peste e i terremoti, comportano normalmente la poco edificante presenza di profittatori e di sciacalli; i profittatori, tuttavia, non sono la causa della peste e il loro arresto non contribuisce a fare cessare la epidemia.
Presentare l’evasore come causa della «persecuzione fiscale» – mentre ne è normalmente una conseguenza – significa soltanto, con una operazione di propaganda maliziosa e immorale, distogliere l’attenzione dalle vere cause del fenomeno e, insieme, aprire in modo irresponsabile il vaso di Pandora della invidia sociale, scatenando forze cieche e sordide che corrompono ulteriormente la pubblica moralità.
2. Il principio di moralità
I ricorrenti scandali e la scoperta di sempre nuove malversazioni compiute da pubblici amministratori in ogni grado dell’ordinamento statale hanno richiamato l’attenzione sulla dimensione etica della politica, che sembrava per la verità dimenticata, e sulla rilevanza del principio di moralità. La critica dell’amministratore disonesto sembra ormai un luogo comune e un esercizio di retorica.
Si tratta, tuttavia, di un passaggio che è difficile evitare a fronte di fenomeni anche quantitativamente di rilevanza notevole, come l’impressionante insieme di addebiti mossi dalla magistratura a esponenti dell’amministrazione socialcomunistica di Torino, che sembra offrire una immagine della vita amministrativa piemontese – la «mela-rossa», secondo la orgogliosa formula propagandistica del Partito Comunista Italiano che trova punti di riferimento e paragoni soltanto nelle ricostruzioni giornalistiche di certi regimi africani, dove la corruzione diventa industria quotidiana. I ladri, certamente, vi sono; ma anche la retorica della caccia al ladro non va esente da pericoli e da malintesi.
Quando la corruzione dilaga, la dottrina della Chiesa riafferma il principio di moralità, la cui formulazione più sintetica ed efficace è forse quella recente di Giovanni Paolo II: «Il crollo della moralità porta con sé il crollo delle società» (8). Sembra, del resto, che la scoperta della dimensione morale della politica, il cui disprezzo ha offerto alla storia alcune delle sue pagine più oscure, emerga puntualmente in ogni epoca di crisi sociale, secondo quel processo che Heinrich Rommen ha chiamato «l’eterno ritorno del diritto naturale» (9).
Nel momento, tuttavia, in cui – sotto la spinta degli eventi – un largo consenso riconosce che l’attività pubblica non può prescindere dalla morale e dai valori, sembra opportuno non dimenticare le origini culturali della separazione tra politica e morale. Origini lontane, certo, che risalgono alla crisi del Medioevo e a Machiavelli; ma anche origini prossime in tutto l’ambiente culturale laicistico e positivistico che proclamava il carattere «avalutativo» delle attività pubbliche dell’uomo, come scienza, economia, politica e diritto.
Ancora non molti anni fa nell’area della cosiddetta cultura laica sembrava una .sorta di dogma quello secondo cui i valori, se pure esistono, sono un fatto privato, e non vi sono valori pubblici. Questa tesi, nata all’interno di un quadro positivistico e neo-positivistico ormai da più anni abbandonato in quelle stesse aree culturali che lo avevano diffuso, sembra tuttora sopravvivere, per quanto stancamente, in Italia.
La tesi riemerge ostinatamente ogni volta che la discussione verta sui valori religiosi, il cui carattere pubblico viene escluso per principio, senza avvedersi, in genere, che tale esclusione è legata al vecchio mito del carattere avalutativo delle attività pubbliche, ormai messo in crisi e screditato dalla cultura scientifica più critica. Soltanto liberandosi definitivamente da questo mito, e riconoscendo che il ruolo di controllo dei valori si esercita anche sulla politica e sulle leggi, sarà possibile pervenire a un ampio riconoscimento sociale del principio di moralità, presupposto indispensabile per la moralizzazione della vita politica e amministrativa.
Per il principio di moralità vale tuttavia una considerazione già accennata a proposito del principio di solidarietà. Il problema della moralità del comportamento di chi amministra le pubbliche finanze non esaurisce il problema della spesa pubblica e della entità del prelievo fiscale. Una considerazione banale, ma non falsa, ci ricorda che i ladri ci sono sempre stati, mentre il problema della «persecuzione fiscale» è principalmente recente.
Ma è soprattutto la entità delle cifre in gioco a rendere inattendibile la ipotesi, che pure esercita una profonda suggestione sulla fantasia, sociale, secondo cui il loro sbocco privilegiato è l’appropriazione da parte di amministratori corrotti. E’ difficile, infatti, immaginare che la voracità della classe politico-amministrativa italiana richieda o comunque sia in grado di assorbire una spesa pubblica che dai 150mila miliardi circa nel 1980 si avvia a tappe forzate al traguardo dei 200mila miliardi annui.
Per riprendere un esempio già accennato in tema di solidarietà sociale, gli effetti delle pestilenze e dei terremoti sono normalmente aggravati dai politicanti corrotti che dovrebbero porvi rimedio, secondo modalità note in Italia dalla peste milanese descritta da Manzoni fino a episodi più recenti. Ma la corruzione degli amministratori, per quanto gravi siano le loro responsabilità, non ha causato il terremoto; e anche in questo caso la indignazione rischia di alterare il quadro, scambiando le cause con gli effetti – i ladri, infatti, prosperano tra l’altro quando vi è molto da rubare – e attribuendo ancora una volta a individui responsabilità che sono piuttosto dello Stato.
In questa prospettiva, al di là del principio di solidarietà e del principio di moralità, che indicano esigenze ai privati nei loro rapporti con lo Stato, emerge il ruolo centrale del principio di sussidiarietà, che indica le esigenze imprescindibili di cui lo Stato deve tenere conto nei suoi rapporti con i privati.
3. Il principio dì sussidiarietà
Nella dottrina sociale della Chiesa gli ambiti e i confini dello Stato rispetto alla sfera delle. autonomie private sono definiti dal principio di sussidiarietà, a cui tutte le società – come ha ricordato Giovanni Paolo 11 nella esortazione apostolica Familiaris consortio – sono «gravemente obbligate ad attenersi» (10).
Nella sua formulazione più sintetica, riportata nella enciclica Quadragesimo Anno di Pio X1, del 1931, questo principio stabilisce che «come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per darlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e infèriori comunità si può fare» (11). Compito dello Stato è fare quello che i privati, pure con i loro migliori sforzi, non. riescono a fare da soli: è per organizzare operativamente questo «di più» che lo Stato ha diritto di esigere necessari e ragionevoli tributi.
Nel mondo moderno, rilevava già Pio X11 nel suo discorso del 2 ottobre 1948 a un congresso sulle pubbliche finanze, «i bisogni finanziari di ogni nazione, grande o piccola, sono formidabilmente aumentati. La causa non è da ricercarsi solo nelle isolate complicazioni e tensioni internazionali, ma anche. e più ancora forse, nell’estensione smisurata dell’attività dello Stato, dettata troppo spesso da ideologie false e malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio delle preoccupazioni di un ordine affatto diverso» (12).
Gli Stati centralizzatori moderni fondano la loro politica fiscale su alcuni presupposti impliciti, tra i quali – come notava Enrico di Robilant al convegno torinese del 1980 su Fisco e libertà – «la tesi secondo cui lo Stato è in grado di impiegare le risorse economiche della società meglio di quanto non possano e non sappiano fare i privati» (13). Al principio di sussidiarietà si contrappone così lo statalismo, la cui continua espansione dilata la spesa pubblica e, di conseguenza, la pressione fiscale.
II. «Persecuzione fiscale» e statalismo
1. Lo statalismo come processo
La violazione del principio di sussidiarietà comporta la dilatazione progressiva della sfera. delle attività dello Stato, che deborda dalle sue classiche funzioni e si assume continuamente nuovi compiti. A mano a mano che la sfera del pubblico si allarga, la sfera del privato si comprime e si contrae, e con essa si comprime lo spazio della libertà personale.
La marcia inarrestabile dello Stato moderno presuppone la soppressione dei corpi intermedi, elemento essenziale di una prospettiva sociale basata sul principio di sussidiarietà (14), che stanno tra la persona e lo Stato e che, come de Bonald diceva della nobiltà, proteggono la libertà per il solo fatto di esistere. Resta, soppressi i corpi intermedi, una figura della persona disincarnata, diafana e astratta, a cui vengono sottratte libertà e autonomia nei settori più importanti della vita sociale, come la formazione, la produzione e l’aggregazione. Proprio l’esempio dell’avanzata statalistica dell’amministrazione pubblica italiana mostra come tutte queste funzioni vengano progressivamente sottratte ai privati e attribuite senz’altro allo Stato.
a La statalizzazione della formazione
È doveroso riconoscere che negli ultimi anni alcune delle critiche più vigorose dello statalismo e della persecuzione fiscale necessaria per sostenerlo e alimentarlo sono venute dalla sponda della cultura di area liberale (15). Tuttavia, nel ricostruire la genesi storica dello statalismo italiano gli studiosi di area liberale indicano come punto di partenza il centro-sinistra e, al massimo, risalgono al fascismo; come i figli buoni di Noé cercano invece – comprensibilmente – di coprire le vergogne storiche dei loro padri in liberalismo, tacendo delle prime fondamentali mosse stataliste operate dallo Stato liberale uscito dal Risorgimento. Lo Stato risorgimentale, coerente con i suoi modelli francesi rivoluzionari e bonapartistici, combatte i corpi intermedi in nome della esaltazione dell’individuo singolo.
L’individuo, infatti, sembra per un momento giganteggiare:m a è una illusione ottica, perché subito dopo lo Stato comprime la sfera individuale e occupa lo spazio lasciato libero dal venire meno delle realtà intermedie. Lo Stato liberale si preoccupa soprattutto di impadronirsi della sfera della formazione. colpendo con una serie di misure la libertà di associarsi, di insegnare, di creare e di gestire associazioni caritative e assistenziali: in una parola, di influenzare e di formare i minores, i più piccoli e i più deboli.
Lo Stato liberale unitario incomincia a dilatare il suo apparato assorbendo realtà e istituzioni nei settori della scuola, dell’assistenza e della sanità; anche se qualcosa riesce a sfuggire e a sopravvivere fino agli anni più recenti, che vedono l’attacco frontale all’assistenza privata – in genere cattolica – e preoccupanti sintomi di lotta alla scuola e alla ospedalità non statali.
L’assorbimento della sfera della formazione, come ha mostrato Tina Tomasi per quanto riguarda la scuola (16), avviene sotto la pressione incalzante e quasi ossessiva della massoneria, preoccupata non solo di conformare l’Italia al modello statalistico e centralizzato francese, ma soprattutto di impedire che nella formazione dei minores continuino a giocare un ruolo centrale le istituzioni da sempre più efficienti e attrezzate in questo settore, cioè le istituzioni cattoliche.
Ancora oggi non è raro imbattersi in qualche storico liberale che, benché in linea di principio contrario allo statalismo, giustifica le tendenze statalistiche dello Stato. Post-unitario nel settore educativo e assistenziale con una presunta necessità inderogabile di sottrarre tali settori alla influenza dottrinale di una organizzazione estranea e potente, la Chiesa, che se ne sarebbe servita come di una testa di ponte per continuare un’opera critica ed eversiva nei confronti dello Stato liberale.
Ed è veramente singolare come questi storici non si avvedano che si tratta, esattamente, delle stesse ragioni che il moderno socialismo invoca per giustificare l’intervento dello Stato sulla economia, che oggi si dichiara di volere sottrarre a forze ostili e potenti – il capitalismo e la borghesia -, che facilmente si servirebbero del potere economico per mettere in crisi il potere politico dello Stato socialistico.
Del resto, una volta avviato, il processo di statalizzazione non si arresta, e dall’ambito della formazione tende a debordare immediatamente nella sfera della produzione e della economia. Gli stessi economisti del liberalismo classico, infatti, contribuiscono a risvegliare lo statalismo economico, richiedendo l’intervento dello Stato per liquidare gli usi civili e sconvolgere quanto resta di una libera economia contadina, giudicata incompatibile – soprattutto, sembra, dal punto di vista simbolico – con i presupposti di una economia moderna, sempre più sganciata dal riferimento a necessità e a valori (17).
b, La statalizzazione della produzione
Sulla base di una figura riduttiva della persona umana, in cui dalla persona viene scissa la libertà economica, lo Stato centralizzatore pone mano ben presto alla statalizzazione delle attività di produzione, attraverso la creazione progressiva di un grande numero di monopoli di diritto e di monopoli di fatto, e anche di oligopoli, in cui la «partecipazione» statale si inserisce in determinati settori produttivi come presenza non esclusiva, ma certamente egemone e condizionante.
Dai precedenti «storici» delle ferrovie e dei telefoni – peraltro non banali né scontati, giacché si tratta di attività in cui rilevante è la presenza privata in vari paesi occidentali a economia industriale avanzata – si passa, con il 1933, a quella che Salvatorelli ha definito la vera e propria «nascita dello Stato imprenditore» (18), con la creazione dell’IRI. Tipica istituzione italiana, «nata con il carattere di provvisorietà» (19) e di cui si è invece celebrato il cinquantennio, l’IRI era sorta, come è noto, per rilevare da alcune grandi banche gli eccessivi pacchetti azionari di industrie in crisi, di cui gli istituti di credito disponevano, patendo nel contempo una crisi di liquidità.
Nel giro di un anno, dal 1933 al 1934, lo Stato riuscì in realtà non a salvare le banche in crisi, ma ad assorbirle, finché nel 1936 si determinò con la nuova legge bancaria un controllo generale dello Stato sull’attività creditizia che è un fenomeno unico in Occidente e, insieme, si rese l’IRI da provvisorio definitivo.
Appena un cenno merita la legge del 1938 che sancisce e regola il monopolio statale del lotto; insieme alle norme che regolano la gestione delle varie case da gioco, questa normativa – al di là del dato economico concreto – sembra avere quasi un valore simbolico, a indicare la tendenziale onnipervadenza dello Stato, che non si accontenta di essere educatore, ferroviere, banchiere, imprenditore, ma si fa perfino biscazziere.
Parallelamente, nel 1942, si regolano i monopoli fiscali del sale e dei tabacchi; monopoli anch’essi «provvisori», giustificati con ragioni belliche, che continuano naturalmente a tutt’oggi. Dopo la guerra, la marcia dello statalismo nei settori produttivi – di cui qui si accenna soltanto qualche passaggio nodale – continua, e anzi si accresce, nonostante le critiche degli economisti liberali – non di rado cooptati nei governi – contro il centralismo economico fascistico.
Nel 1946 la regolamentazione del traffico aereo sancisce un oligopolio e la egemonia di una società di Stato in questo ulteriore settore delle comunicazioni, premessa all’attuale monopolio di fatto. Nel 1953 viene creato l’ENI, di cui la dottrina amministrativistica ha da tempo riconosciuto la natura di «vero e proprio monopolio» (20) per tutta una serie di attività legate a settori chiave della energia e degli idrocarburi.
E tuttavia soprattutto dal 1956, con Ia Creazione del ministero delle Partecipazioni Statali, che lo Stato imprenditore comincia a dispiegare una vivacità prima sconosciuta, non soltanto creando nuovi monopoli ma soprattutto, con il gioco delle «partecipazioni», entrando in modo meno evidente di settori dove, a poco a poco, perviene a esercitare un ruolo sostanzialmente oligopolistico.
Sono ben noti gli autentici traumi per la economia italiana legati alla nazionalizzazione della energia elettrica, del 1962, e alla serie di interventi che, dal 1964 al 1977, stringono il settore delle telecomunicazioni in una rete di monopoli di fatto e di diritto che tolgono ogni spazio alla iniziativa privata. Meno evidente – e si tratta soltanto di un esempio – è l’ingresso dello Stato nel settore dolciario e alimentare, la cui portata non è probabilmente neppure percepita dalla maggioranza della opinione pubblica.
Eppure, attraverso la Sme, il gruppo IRI controlla – soprattutto grazie a una serie di operazioni compiute tra il 1974 e i1 1975 – una buona metà delle più importanti società dolciarie e alimentari nazionali, fra cui la Star, la Sidalm – nota al pubblico con i marchi Motta e Alemagna -, la Cirio, la Alivar, – che sfrutta fra l’altro il marchio Pavesi – e la Tanara.
Esempi analoghi di statalizzazione oligopolistica – pericolosa proprio in quanto meno appariscente della creazione di nuovi monopoli, e quindi meno suscettibile di creare reazioni – si riscontrano nei settori della elettronica, dell’aeronautica e anche della chimica, a prescindere dalla figura anomala della Montedison. Un riscontro anche dottrinale della lunga marcia delle partecipazioni statali verso una statalizzazione sempre più massiccia della sfera della produzione in Italia può essere reperito nella evoluzione delle annuali relazioni programmatiche del ministero delle Partecipazioni Statali, documenti il cui ruolo fondamentale è sottolineato dalla legge 22 dicembre 1956, n. 1589.
Come scrive Alberto Massera in un volume dedicato alla storia del sistema delle partecipazioni statali, «dalla necessità di assicurare la “certezza” dei rapporti fra iniziativa privata e iniziativa pubblica sostenuta dalle relazioni dei primi anni, si passa nel 1963 alla prudente affermazione che il rispetto di tale esigenza “non significa la fissazione di una rigida divisione di campi di operazione fra impresa privata e pubblica, poiché l’efficacia del piano sarebbe ridotta se non vi fossero possibilità – dell’impresa pubblica di impegnarsi in nuove attività; per poi sostenere esplicitamente nel 1967 che “non esistono specifici campi operativi che debbono a priori essere sottratti ad ogni responsabilità di intervento imprenditoriale diretto dello Stato attraverso aziende controllate”» (21).
L’ultima affermazione, tratta dalia relazione programmatica dei 1967, merita di essere sottolineata: non esistono campi specifici sottratti all’intervento diretto dello Stato, non esistono «santuari» della iniziativa privata, ma lo Stato imprenditore si occupa tendenzialmente di tutto e di tutti.
Potrebbero evidentemente moltiplicarsi gli esempi che mostrano il progressivo assorbimento della sfera della produzione da parte dello Stato, con conseguente sovraccarico fiscale, se è vero che la maggioranza delle imprese statali è oggi gestita in perdita; sembra, tuttavia, che non vi sia bisogno di esemplificazioni di fronte a una affermazione ufficiale, come quella della relazione del 1967, che dichiara in esplicito uno scopo che è difficile non definire totalitario.
c. La statalizzazione della aggregazione
Separata dalla formazione dei minores e dalla produzione economica, la sfera del privato conserva in tesi una serie di spazi di libertà che la connotano in quanto privata e quasi ne fondano la esistenza. Secondo un pensiero più volte sottolineato da Giovanni Paolo II, la «nazione», in quanto distinta dallo Stato, si caratterizza come autonomo centro di continua aggregazione, connotato da una cultura e animato da una memoria storica (22).
Lo Stato liberale, burocratico e centralizzatore, ispirato a una rigidità amministrativa di origine bonapartistica, non vede certamente con favore l’autonomia dei centri di aggregazione e talora li sabota occultamente; tuttavia, è soltanto il socialismo a proclamare apertamente che l’aggregazione è una funzione sociale che deve essere gestita non dai privati, ma dallo Stato.
Sulla base di questo presupposto, dopo la riforma regionale, sono in Italia soprattutto le giunte socialcomunistiche delle «regioni rosse»ad assumersi il compito di statalizzare la cultura; l’azione delle regioni dà quindi impulso anche alle amministrazioni comunali, che già da tempo avevano iniziato qualche esperimento in questo senso. Si tratta di una intrapresa tipica della sinistra italiana, che ha fra le sue premesse culturali la teoria gramsciana della egemonia e la «rivoluzipne culturale» maoistica.
La sua portata complessiva costituisce un fenomeno di grande interesse che, benché ora tardivamente imitato nella Francia di Mitterrand, in realtà non trova riscontri né precedenti fuori dal nostro paese. Gli stessi regimi del socialismo reale, infatti, sono impegnati in un’opera di indottrinamento quotidiano del corpo sociale, che tuttavia si svolge in un regime di monopolio e non necessita, quindi, dell’apparato pubblicitario e propagandistico indispensabile,in vece per chi operi in regime di concorrenza.
Anche dal punto di vista della «persecuzione fiscale» uno sguardo alla routine delle delibere comunali e regionali mostra il ruolo centrale della spesa «culturale» nella costruzione quotidiana dello «spreco di Stato». Sul corpo sociale italiano viene continuamente rovesciata un’autentica pioggia di mostre, esibizioni, spettacoli, concerti, cataloghi e pubblicazioni le cui reali dimensioni e il cui enorme costo rischiano di rimanere ignoti a chi non consideri la dimensione complessiva e nazionale del fenomeno.
Gli ultimi anni, caratterizzati dalla predicazione della «cultura dell’effimero» lanciata a Roma dal comunista Nicolini, hanno offerto alcuni esempi particolarmente clamorosi, anche per il contrasto evidente con la «austerità» e i «sacrifici» contemporaneamente imposti e richiesti dai governi. Cosi, in una regione particolarmente segnata dalla crisi economica, le varie amministrazioni piemontesi hanno generosamente contribuito allo spettacolo torinese dei Rolling Stones, portatori fra l’altro – almeno nei testi delle loro canzoni – di una cultura della droga e della violenza che nessuno Stato dovrebbe volere incoraggiare (23): ai membri del complesso inglese sono state offerte le chiavi della città di Torino e, come da loro richiesta, Rolls Royce per il trasporto dall’aereoporto allo stadio in cui si è svolto lo spettacolo (24).
A Roma, fra una serie incredibile di delibere «culturali». ha destato giusta sensazione la cosiddetta «porno delibera» del 30 novembre 1982, con cui il comune socialcomunistico. su proposta del solito assessore Nicolini, ha stanziato un certo numero di milioni (25) per un «fistival del cinema erotico» organizzato dall’Aiace, che ha proposto fra l’altro pellicole come Il supermaschio e Il fantasma del fallo, certo più note al pubblico dei cinema «a luce rossa» che a quello delle rassegne culturali.
La singolare delibera comprende sette milioni per la stampa di diecimila cataloghi della rassegna – di cui soltanto 780 venduti – e dieci milioni per due viaggi a New York di personale comunale – si è parlato dello stesso assessore smanioso di documentarsi sul cinema erotico degli Stati Uniti. In consiglio comunale, Nicolini ha difeso la «Porno-delibera» chiedendo «come pensate che si formi una cultura laica […] se non si stimolano delle connessioni anche audaci» (26).
Per citare un ultimo esempio, l’amministrazione – anche qui socialcomunistica – di Reggio Emilia ha promosso dal 13 ottobre al 2 dicembre 1982 una manifestazione dal titolo I porci comodi per indagare «sulla cultura del porco». un tema di cui peraltro, secondo Ivanna Rossi, assessore alla cultura, «in questo clima di contestazione all’effimero ci sentiamo di dire che effimero non è (27).
Si parla nel complesso di centinaia di milioni per convegni, ricerche finanziate e tre mostre, dedicate rispettivamente a L’eccellenza e il trionfo del porco – «per seguire il filo rosso del porco nel tessuto della nostra civiltà letteraria» -, a Il porco di Venere – sul significato simbolico, e antimorale, della immagine del maiale -, e a una serie di lavori di «arte postale» per un progetto di monumento al porco. In questa occasione, la mail art era stata ribattezzata dai promotori della cultura comunale emiliana «mai(A)lart», con «un gioco di parole che è una freddura da vergognarsi a raccontarla in giro», come ha giustamente commentato un giornalista (28).
E tutto questo, naturalmente, in funzione di un progetto culturale descritto dall’assessore Ivanna Rossi come una lotta contro il «moralismo quaresimale» fondata sul valore simbolico del maiale, in quanto «dire porco è dire porcherie, spudoratezza, diavolo, materia»: su questa base, «Reggio Emilia assume con consapevolezza il suo diritto di condurre una riflessione culturale su questa informe materia. e il suo dovere di piantare un segnale per i frequentatori di riti cosmofagici» (29).
Si è calcolato che in Italia, per varie categorie, le tasse sono ormai circa il cinquanta per cento del reddito: si lavora solo sei mesi per sé e gli altri sei mesi per lo Stato. Non è di conforto pensare che almeno qualche ora di questi sei mesi, negli ultimi anni, è servita a finanziare il trionfale ricevimento dei Rolling Stones a Torino, il festival del cinema erotico a Roma e la celebrazione del «trionfo del porco» a Reggio Emilia.
Questi esempi, tuttavia, non documentano soltanto alcuni dei casi più clamorosi della industria dello «spreco di Stato»; sono anche episodi – talora maldestri – di’ un tentativo di statalizzazione dell’aggregazione, che vorrebbe re-interpretare dall’alto una «cultura popolare» opportunamente riveduta e corretta. Il traguardo, chiaramente indicato per esempio nel Projet socialiste pour la Frunce di Mitterrand, è una gestione unitaria di Stato per tutta la vita sociale, dove «scompare la distinzione fra lavoro e tempo libero», nel senso che anche il tempo libero è gestito «socialmente» (30).
2. Lo statalismo come ideologia
Come si è visto, il principio limite della imposizione pubblica nella dottrina sociale della Chiesa è il principio di sussidiarietà, secondo cui lo Stato deve realizzare quello che i privati, pure con i loro migliori sforzi, non riuscirebbero a realizzare da soli. Lo Stato organizzato secondo il principio di sussidiarietà circoscrive pertanto la sua attività a alcuni settori ben determinati, intervenendo negli altri con le sole funzioni di sussidio e di supplenza.
Per l’opposta dottrina dello statalismo, invece, lo Stato è capace di realizzare in modo perfetto molti obiettivi che i privati possono realizzare anche da soli: è quindi giustificato che assorba e assuma un grande numero di attività e di scopi, che può perseguire in modo migliore di quanto non possano e non sappiano fare i privati. Giacché, con l’aumentare dell’attività dello Stato, aumenta parallelamente il carico dei tributi, tutto il problema della giustizia fiscale ruota intorno a questa alternativa.
Vi è da chiedersi, a questo punto, quale sia la natura del presupposto secondo cui lo Stato potrebbe fare meglio anche molte cose che i privati possono fare da soli. Sembra, talora, che il presupposto debba avere natura empirica: ma in questo caso proprio la crisi italiana finisce per provarne la inesattezza. Nei compiti che non sono i suoi la macchina statale, infatti, normalmente fallisce, come dimostrano i dissesti delle imprese pubbliche e i vistosi sprechi della cultura di Stato.
Qualche economista ha ritenuto di potere identificare una «regola del due» (31), secondo cui ogni operazione economica gestita dallo Stato costa normalmente il doppio della stessa prestazione fornita da privati. Dal punto di vista empirico, dunque, la premessa è facilmente falsificabile – nel senso popperiano di «essere provata falsa» -: lo Stato è in grado di svolgere molte attività che possono svolgere anche i privati, ma in modo meno efficiente e meno produttivo.
Altre volte, forse per la difficoltà dell’argomentazione empirica, il presupposto statalistico assume invece la configurazione di una vera e propria «ideologia», nel senso – attribuito al termine soprattutto dalla meta-scienza sociale tedesca – di discorso fondato su premesse occulte di natura dogmatica e sottratte alla discussione (32). Nasce così, a sostegno della imposizione pubblica, quello che Enrico di Robilant ha proposto di chiamare «giustificazionismo sociale». intendendo con questo termine la «attribuzione di assolutezza ed esaustività a soluzioni di problemi di tecnologia sociale, le quali, perciò, vengono considerate come giustificate, vale a dire provate giuste o comunque tali da dover essere accolte, mentre alla luce delle esigenze di severa criticità questa pretesa appare infondata e illusoria» (33).
Talora il giustiticazionismo metodologico porta alla costruzione dì teorie sociali il cui denominatore comune sembra essere quello che Karol Wojtyla ha chiamato, nel suo Persona e atto, «totalismo». riferendosi a quella concezione che, sulla base del presupposto della estraneità del bene della persona al bene comune, persegue tale «bene comune» nonostante e contro le esigenze e i diritti della persona (34).
Talora il presupposto totalistico è teorizzato esplicitamente come tale, ipostatizzando una figura di Stato i cui diritti e le cui esigenze sarebbero «essenzialmente»o «ontologicamente» superiori a quelle delle persone dei consociati (35). Questa figura dello Stato. che non tollera limiti e rende quindi inutile o irrilevante ogni discorso sui limiti della imposizione pubblica e in particolare della tassazione. si presenta in modo caratteristico nel socialismo marxistico: permane, tuttavia, sulla base di presupposti idealistici più o meno esplicitati, anche in teorie e sistemi che vorrebbero essere assai lontani dal socialismo.
Nella cultura non marxistica. specialmente anglosassone, il totalismo e il giustificazionismo sociale sono di solito presenti in una forma più raffinata che si ispira ai vari tipi di utilitarismo. Sono di questo tipo. in genere, le varie teorizzazioni dello Stato assistenziale ad alta fiscalità. molto diffuse, almeno fino a qualche anno fa. in vari paesi. Non è un caso che l’utilitarismo, finora in Italia meno rilevante che nei paesi dell’area angloamericana, sia stato di recente «riscoperto» dalla rivista ufficiale del Partito Socialista (36). Spesso, poi. la tesi che lo Stato sia in grado. disponendo di adeguate risorse, di massimizzare la utilità sociale si confonde con quella secondo cui la utilità sociale assicurata dalla Stato è anche «giusta»: così che, in concreto. può essere difficile distinguere il giustificazionismo utilitaristico dal giustificazionismo «di giustizia» (37).
Come ha notato fra gli altri Friedrich A. Hayek, anche la seconda forma di totalismo, che giustifica l’assorbimento di risorse e di attività nello Stato assegnando all’apparato statale il compito di instaurare la giustizia sociale, è in realtà del tutto illusoria e fallace. Lo Stato, infatti, dovrebbe in questo caso conoscere a priori tutte le possibili situazioni sociali, prevedere ogni ipotesi, sapere che cosa è «giusto» e «utile» per ognuno in ogni occasione, stabilire premi e castighi; principio che, se da una parte implica la distruzione dei dinamismi più tipici della libertà della persona umana, dall’altra è evidentemente infondato in quanto attribuisce allo Stato caratteristiche conoscitive che non ha e non può avere. Il totalismo utilitaristico, inoltre, è suscettibile di critiche sul piano pratico, ampiamente articolare dalla scuola economica della public choice e recentemente da Gordon Tullock. In uno studio sulle teorie distributive, egli dimostra in modo persuasivo che il Welfare State in realtà non «ridistribuisce» nulla, perché i poveri conoscono modeste variazioni della loro situazione e la presunta «ridistribuzione» avviene in genere tutta all’interno della classe media, ovvero – più spesso – si riduce al semplice prelievo dai consociati di ricchezze che servono a finanziare l’apparato burocratico che dovrebbe ridistribuirle (38).
Merita un accenno, infine, una forma di giustificazionismo utilitaristico che è stata spesso invocata nel dibattito politico sui vari provvedimenti fiscali e i cui effetti nefasti sulla situazione italiana sono stati di recente sottolineati da Caramelli. Si tratta della teoria, che corrisponde a una sorta di vulgata keynesiana, per cui la espansione della spesa pubblica è utile alla collettività perché si tratta di una spesa che crea la propria domanda e, a gioco lungo, rilancia la economia.
Ancora una volta, proprio il «caso Italia» ha dimostrato falso il «keynesismo ingenuo», ormai abbandonato dalla maggiore parte degli economisti ma evidentemente comodo per molti politici.
In Italia, secondo l’analisi di Caramelli che vale qui la pena di citare, .è diventata tipica una sequenza di questo genere: «all’espansione della spesa privata e pubblica (nonché agli aumenti dei costi di produzione unitari) fa seguito un’accelerazione dell’inflazione e un deterioramento della bilancia dei pagamenti con emorragia di riserve valutarie; queste difficoltà vengono fronteggiate con misure restrittive di politica monetaria e valutaria, alle quali fu seguito di regola una caduta dell’investimento privato e una tendenza alla riduzione dell’occupazione; quando questi fenomeni raggiungono valori critici, interviene l’inasprimento fiscale come misura per garantire l’almeno temporaneo successo della svalutazione e consentire il ripristino di condizioni creditizie meno severe per le imprese, e spesso con il provvedimento di aumento dei prelievo si decide anche un ulteriore aumento della spesa pubblica, di sostegno alle imprese, salvataggio industriale e agevolazione agli investimenti – il che rende possibile la presentazione di provvedimenti assai restrittivi quali “misure tributarie per il rilancio dell’economia”» (39).
Alcune conclusioni
La storia, diceva Joseph de Maistre, è politica sperimentale. Il «caso Italia» dimostra, come una lezione, le conseguenze drammatiche, su tutti i piani, della espansione dello statalismo e del totalismo e della violazione sistematica del principio di sussidiarietà. Né consola la considerazione secondo cui gran parte dell’Occidente si avvia, ove non intervengano o non proseguano salutari correttivi, a condizioni analoghe alle nostre, tanto che studiosi di diverso orientamento, da Sergio Ricossa a Vittorio Mathieu, hanno segnalato il pericolo che la civiltà borghese crolli sotto il peso dei tributi (40).
Di fronte a questa crisi, abbiamo assistito – soprattutto in Italia – a fenomeni di pessimismo dogmatico e all’insistente riemergere della tesi secondo cui la crescita della spesa pubblica, e quindi del prelievo fiscale, è ormai ingovernabile e, giacché è impossibile spendere meno, ci si dovrebbe volgere piuttosto a cercare di spendere meglio.
Questa prospettiva, spesso assunta in modo acritico, implica in realtà la fine di una forma di Stato anche solo apparentemente «liberale» e la instaurazione esplicita di uno degli Stati più socialistici che sia possibile immaginare. Ha ricordato Francesco Mattei, a un convegno organizzato a Milano dalla Fondazione Einaudi: «Deve essere possibile governare la spesa pubblica: se non si ritenesse di poter dare questa risposta, si dovrebbe concludere che non è possibile governare il nostro Stato democratico con l’attuale sistema» (41).
È necessario, dunque, che lo Stato si ritiri e lasci più spazio a quella sfera del privato per lunghi anni umiliata e compressa. Perché questa esigenza, ormai largamente diffusa, diventi. progetto politico sarà necessario percorrere con coraggio una strada lunga e in salita: è più difficile risparmiare che spendere, come sanno non solo gli economisti ma anche le massaie. In questa crisi, il cui spessore culturale va ben oltre il normale decorso della cronaca economica, la cultura cattolica si trova di fronte a una storica sfida.
I cattolici hanno oggi la possibilità di rispondere a domande e esigenze di larga diffusione – si pensi all’interesse che ha. destato negli Stati Uniti la teoria dello «Stato minimo» di Nozick – , riproponendo insieme la lezione morale e la fecondità politico-sociale del principio di sussidiarietà, ricordando che la spesa pubblica può diminuire solo se diminuisce lo statalismo, se lo Stato torna ad avere come misura e limite del suo operare le esigenze e le concrete libertà della persona, secondo una felice formula della dottrina sociale cristiana: «tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario» (42).
Se sapranno trarre nova et vetera dal patrimonio della dottrina sociale, rileggendo il principio di sussidiarietà nel contesto della società tecnologica e delle sue crisi, i cattolici potranno davvero mostrare al mondo, partendo da problemi urgenti e concreti, che «il Cristianesimo non è un’esperienza storica superata da nuove ,forme di redenzione umana, ma è, resta e sarà sempre la “novità” per eccellenza. ai di là di tutti i ritrovati che l’uomo, con le sue soie forze, saprà escogitare nei corso della storia».
Viceversa, «se cediamo alla tentazione di lasciare il Cristianesimo per le “ideologie” di questo mondo, pensando di trovarle più “avanzate” o più efficaci, in realtà non andiamo avanti, ma torniamo indietro. Questo dovrebbe insegnarci la recente storia europea, nella quale si può costatare che l’acconsentire a quella tentazione non è stato senza rapporto con le catastrofi nelle quali essa è precipitata, sperimentando forme di barbarie sconosciute agli stessi antichi pagani» (43).