Padre Samir (gesuita di origine egiziana) esorta i politici europei a riflettere bene prima di aprire le porte dell’UE al governo di Erdogan, perchè in Turchia un conto è la legge scritta e ben altra cosa il comportamento pratico dei funzionari dello stato
di Giulio Ferrari
Professore, l’Europa ha rinunciato ad affermare le proprie radici cristiane nella Costituzione firmata venerdì scorso a Roma e si prepara ad ammettere Ankara nel consesso dei membri Ue. La prospettiva di questa operazione è una Turchia più laica o l’islamizzazione del Vecchio Continente?
«C’era un principio medievale che ho imparato in seminario: maxima extensio, minima comprehensio. Così, più allarghiamo l’Unione europea, più perdiamo in profondità, in comprensione. E questo è il risultato della rinuncia a proclamare le radici cristiane contemporaneamente allargandosi al Paese di Erdogan. Una presenza che difficilmente si può giustificare, se si pensa all’Europa come a una realtà, oltre che economica, anche geografica, culturale, storica. Il problema non è neanche quello di sapere quali siano le attuali convinzioni religiose degli europei, perché oggi temo che la tendenza prevalente sarebbe per il disinteresse in materia spirituale, ma capire che queste radici cristiane, che per oltre 15 secoli hanno modellato l’Europa, significano ancora molto nel quotidiano. Significa, ad esempio, affermare il principio della distinzione tra il fatto giuridico e quello religioso. E in Turchia non è così: la buona volontà affermata dal governo di Ankara non basta, quando poi la realtà profonda di quel Paese è molto diversa. Così il passo che si sta facendo diventa molto rischioso».
Quello turco le sembra un cambiamento di facciata?
«Voglio dire che l’islamizzazione della Turchia è in ripresa da vent’anni. Lo stesso presidente ha deciso a settembre di ritirare, dietro le pressioni europee, la legge di penalizzazione dell’adulterio. Ma questo dimostra quanto il progetto islamizzante sia presente. C’è sicuramente in corso una lotta tra due tendenze e, al momento, non si può dire chi ne uscirà vincitore. Tutta l’Anatolia, cioè grande parte del territorio turco, non ha assimilato il cambiamento. Lo stile di vita islamico è radicato nella coscienza della maggior parte della popolazione, che rimane più mussulmana che europea. Per questo preferisco un atteggiamento realista nei confronti della Turchia: aspettare gli esiti del progetto di neutralità religiosa e poi decidere l’ingresso nella Ue».
Per i turchi, quindi, non userebbe la definizione di popolo islamico moderato?
«Bisogna intendersi. Se usiamo il termine moderato in rapporto al terrorismo, credo di sì. Se invece significa che ha acquisito la mentalità laica… questo non si può dire. È anche un problema di convinzioni diffuse. Da diversi casi a mia conoscenza posso affermare che, per quanto il Paese si definisca giuridicamente laico, se qualcuno si converte al cristianesimo va incontro a una vita quasi impossibile. Così come è praticamente impossibile per un non mussulmano acquistare un terreno».
La discriminazione dei cattolici è ancora una grave realtà in Turchia?
«Non dobbiamo valutare alla maniera europea. Dire: ci sono delle leggi tolleranti e tanto basta. Loro fanno tutto senza tenere conto dei codici, è un comportamento frequente nel mondo islamico. Le faccio un esempio. In ottobre mi sono recato ad Ankara dove abbiamo una piccola comunità con quattro gesuiti. Un confratello, un tedesco, mi ha spiegato che la loro chiesa deve restare chiusa per la gente del luogo. Celebrano la Messa soltanto per gli stranieri che lavorano nelle ambasciate, dietro richiesta esplicita delle autorità. È venuto un funzionario che ha intimato di non aprirla ai turchi. Per evitare proteste ufficiali non rilasciano alcuna disposizione scritta, ma è una pratica quotidiana, verbale».
Stando così le cose, qualcuno ha fatto male i suoi calcoli. Chi vuole a tutti i costi la Turchia in Europa?
«Esistono degli interessi economici. Inoltre gli Usa spingono anche perché la Turchia è un loro alleato militare. E qui varrebbe la pena di ragionare sul ruolo della Nato, di cui Ankara fa parte. Questa alleanza militare aveva un senso finché si trattava di difenderci dall’Urss, ma se oggi pretende di proteggerci dal mondo islamico, allora c’è qualcosa che non quadra. La Nato è intervenuta contro i Serbi favorendo i kossovari che sono mussulmani, e in più occasioni ha rinforzato l’islam in contrapposizione all’Est. Mi pare una politica miope».
È una situazione poco chiara, come non è affatto limpida l’attitudine “moderata” dei turchi. D’altra parte nel Corano, che vale per tutti gli islamici, sono presenti molte esortazioni alla violenza contro i “miscredenti”. Chi è il buon mussulmano, il combattente o il moderato?
«Nel Corano c’è l’uno e l’altro. L’appello a combattere, con tutte le minacce per infedeli e miscredenti, appartengono al periodo di Medina, dal 622 alla morte di Maometto nel ’32, quando egli comincia a costituire lo Stato islamico. Secondo tradizione abituale del mondo mussulmano, proprio questi ultimi testi sono i più decisivi, in quanto si ritiene che alla Mecca il fondatore dell’islam fosse più debole, non potesse cioè ancora affermare pienamente il suo progetto politico. Gli intellettuali, invece, propendono per il periodo meccano, in quanto caratterizzato dalla rivelazione iniziale, più spirituale: sfortunatamente questa opinione non è condivisa dalla maggioranza. Insomma, chi è il “buon” mussulmano”? Entrambi. Non si può dire che Bin Laden sia un cattivo mussulmano, i suoi riferimenti sono i testi sacri di Maometto e la sua è l’interpretazioni dell’islam più diffusa».
C’è da temere, allora, anche per l’immigrazione extracomunitaria. Che ruolo gioca nell’espansione islamica in Europa?
«Che ci sia gente organizzata per questo progetto mi pare sicuro, non credo però che tutti quelli che vengono in Europa lo facciano con questo preciso intento, ma ritengo che in gran parte siano mossi da ragioni economiche. Il vero problema, dal punto di vista del fondamentalismo sono gli imam, formati alla dottrina più estremista in Egitto, con finanziamenti arabi, o direttamente in Arabia Saudita. E poi farei attenzione agli italiani convertiti all’islam, agli apostati generalmente mossi da zelo di neofita che spesso sconfina nel fanatismo».
La minaccia, dunque, esiste. Ma laici e cattolici spesso sembrano schierati sul fronte nemico. Come ci si potrà difendere?
«I cattolici oggi devono fare i conti con questo sentimentalismo che sostituisce la conoscenza della nostra fede. A loro dico che non si può mettere sullo stesso piano l’islam e il cristianesimo. Come posso credere che Cristo è Parola incarnata e che, però, Maometto è venuto a correggerlo? Lo posso sostenere se non sono cristiano. La nostra religione non significa essere gentili con tutti, significa essere coerenti. Quanto al laicismo… un conto è affermare la libertà, un altro il libertinaggio. Se si arriva a proclamare il diritto delle “famiglie” omosessuali, si aiuta la predicazione fondamentalista, confermando che siamo una società degenerata da disprezzare e distruggere. Come difenderci, allora, dall’islam? Personalmente non lo temo, so che la mia fede è più profonda. Più in generale dico che per difendersi occorre dimostrarci più autentici con noi stessi. Anche se sei ateo, riprendi la tua verità storica: se hai una tradizione non temi l’islam, se invece non sai chi sei, non hai radici e appena soffia il vento ti porta via».