Agenzia ZENIT.org domenica,
ROMA _ Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.
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L’inattendibilità di una simile posizione è presto evidenziata dal fatto che proprio coloro che vorrebbero la dignità come frutto di una valutazione soggettiva, sono poi gli stessi che approvano la selezione degli embrioni possibilmente malati, o l’eliminazione di feti malformati attraverso l’aborto “terapeutico”, o la sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale per i pazienti in stato vegetativo. Torna in mente la battuta – paradossale ma non troppo – di Ronald Reagan durante un dibattito elettorale del 1980 quando, a proposito di “libertà di scelta dell’individuo”, notava di non aver mai incontrato un sostenitore dell’aborto che non fosse già nato e che l’unico individuo a cui tale “scelta” non era concessa era proprio l’innocente che veniva soppresso.
E tuttavia, sempre meno si sente utilizzare il concetto di “indegnità” per convincere l’opinione pubblica che in casi come quello di Terri Schiavo è bene sospendere il sostegno vitale. Si dirà invece che lasciar morire simili malati è la soluzione più umana e più pietosa, che ogni sforzo di tenerli in vita è un inutile accanimento terapeutico. Come se l’accanimento terapeutico, quello vero, potesse essere utile.
Dal punto di vista medico, l’accanimento terapeutico si caratterizza proprio per l’inutile gravosità o per l’inefficacia del trattamento, ammettendo che, in una particolare situazione, la medicina non può più guarire o prolungare sensibilmente la vita. Può offrire invece un aiuto diverso da quello terapeutico, ovvero le cure palliative che, rettamente intese, sono in grado di ridurre o eliminare non già la malattia di base, ma la costellazione di sintomi che ad essa si accompagna, allo scopo di salvaguardare – per quanto possibile – il benessere del malato e di favorire un trapasso sereno.
Lo ha ricordato Benedetto XVI in occasione della XV Giornata del Malato (11 febbraio 2007), osservando come “l’essere malati porta inevitabilmente con sé un momento di crisi e un serio confronto con la propria situazione personale. I progressi nelle scienze mediche spesso offrono gli strumenti necessari ad affrontare questa sfida, almeno relativamente ai suoi aspetti fisici.
La vita umana, comunque, ha i suoi limiti intrinseci, e, prima o poi, termina con la morte. Questa è un’esperienza alla quale è chiamato ogni essere umano e alla quale deve essere preparato. Nonostante i progressi della scienza, non si può trovare una cura per ogni malattia (…).
“La Chiesa desidera sostenere i malati incurabili e quelli in fase terminale esortando a politiche sociali eque che possano contribuire a eliminare le cause di molte malattie e chiedendo con urgenza migliore assistenza per quanti stanno morendo e per quanti non possono contare su alcuna cura medica. È necessario promuovere politiche in grado di creare condizioni in cui gli esseri umani possano sopportare anche malattie incurabili ed affrontare la morte in una maniera degna. A questo proposito, è necessario sottolineare ancora una volta la necessità di più centri per le cure palliative che offrano un’assistenza integrale, fornendo ai malati l’aiuto umano e l’accompagnamento spirituale di cui hanno bisogno. Questo è un diritto che appartiene a ogni essere umano e che tutti dobbiamo impegnarci a difendere”.
Se l’intenzione dei sostenitori della cosiddetta “qualità di vita” fosse veramente quella di cercare il bene del malato, salvaguardando la sua dignità di persona, essi si unirebbero al Pontefice nell’esigere maggiore sostegno materiale e legislativo per le cure e le strutture in grado di assicurare ai sofferenti tutto l’aiuto e il sollievo umanamente concepibile allo stato attuale del progresso medico. Invece, si ritorna sempre a nascondersi dietro i drammi emotivi di situazioni particolari per giustificare violenze inaudite sui più deboli.
All’inizio di quest’anno, diversi organi di informazione hanno ripreso la drammatica vicenda di Ashley, una bambina americana di nove anni affetta da encefalopatia statica (static encephalopathy of unknown etiology), sottoposta ad una serie di interventi radicali atti a bloccarne la crescita e lo sviluppo, su disposizione dei genitori e “consigliati” dai dei medici del Children’s Hospital and Medical Center di Seattle, nello stato di Washington (cfr. La Stampa e Times)
Gli stessi medici hanno anche consigliato ai genitori la creazione di un blog nel quale presentare la storia della loro bambina. Significativamente, il titolo del blog è “The Ashley Treatment”: si incentra cioè sul trattamento – noto come “attenuazione della crescita” – e non sulla persona, dandoci già un indizio dello spirito ippocraticamente disinteressato dei dottori in questione. In sostanza, pur impossibilitata a parlare, deglutire, camminare e muoversi autonomamente, la piccola avrebbe avuto uno sviluppo fisico normale in presenza di uno sviluppo cerebrale fermo alla primissima infanzia.
Alla bambina sono stati asportati chirurgicamente, tra l’altro, l’utero e i seni in via di formazione con contestuale somministrazione di massicce dosi di estrogeni atte ad inibire la crescita. Ashley rimarrà per sempre alta poco più di un metro per un peso di circa 30 kg.
Per comprendere la follia ideologico-emotiva alla base di questa decisione, basta leggere le parole dei genitori e dei medici, nonché la motivazione addotta dal comitato etico dell’ospedale per il suo avallo. I genitori di Ashley affermano di aver deciso senza difficoltà il “trattamento”, perché in tal modo la piccola sarà “libera da dolori mestruali”e potenziale cancro uterino – non avendo più utero – e dai “disagi associati allo sviluppo di grossi seni pienamente sviluppati”, tra i quali vengono elencati “il rischio di molestie sessuali” e di “cancro al seno”, oltre alla “fibrosi cistica”, mentre rimanendo piccola sarà più facile da spostare e da “portare più spesso in viaggio”, potendo così disporre di più tempo dedicato a attività e occasioni sociali “invece di giacere fissando la TV tutto il giorno”.
Il comitato etico dell’ospedale ha approvato tutto ciò nel 2004, quando Ashley aveva ancora sei anni. E spiegava: non potendo “riprodursi volontariamente”, non si poteva sostenere che Ashley fosse sottoposta a sterilizzazione forzata o addirittura a “pulizia etnica”. E così apprendiamo che il Terzo Reich o i medici sovietici altro non hanno fatto che migliorare la “qualità della vita” di chissà quante Ashely incapaci di “riprodursi volontariamente” tra Norimberga e Vladivostock. In uno studio pubblicato su Archives of Pediatrics and Adolescent Medicine nell’ottobre 2006, i medici di Ashley, Douglas Diekerma e Daniele Gunther, affermano infatti che il trattamento serve ad incrementare la possibilità che “genitori con la capacità, le risorse e l’inclinazione” (dice proprio così: l’inclinazione) a prendersi cura dei propri figli disabili, possano farlo.
Di fronte all’ondata di indignazione sollevata da questa incredibile vicenda, George Dvorsky, direttore dell’Institute for Ethics and Emerging Technologies, osserva: “A fronte di chi si preoccupa per un’eventuale violazione della dignità della ragazza, mi oppongo argomentando che la ragazza manca della capacità cognitiva per sperimentare qualunque senso di indegnità”. Altri, come Jeffrey Brosco, pediatra all’Università di Miami, non possono fare a meno di notare che forse sarebbe meglio dotarsi delle risorse necessarie ad affrontare i diversi problemi – nelle diverse fasce d’età – derivanti dalla disabilità, piuttosto che tentare di eliminarli mutilando i già sofferenti, e avere un sistema di cura che sembra “restringersi al crescere del bambino” (cfr. Medical News Today)
Ricapitolando: per questi signori Ashley è un poco più che un vegetale incapace di alcunché, ma ci spiegano che le si asportano utero e seni, e la si bombarda di ormoni in modo da mantenerla a circa 130 cm di altezza, al fine di migliorare le sue attività sociali e poterla sistemare più facilmente in macchina per i viaggi. Ma se “manca della capacità cognitiva per sperimentare qualunque senso di indegnità”, che senso può avere operarla e menomarla per farle meglio vedere i paesaggi e “prevenire” malattie e molestie eventualmente possibili per chiunque?
Se, invece, si ritiene che abbia qualche “capacità” in tal senso – altrimenti perché parlare di “qualità di vita” e “occasioni sociali”? – , non viene il sospetto che strappare utero e seni potrebbe costituire una crudeltà inaudita, ammesso che sia la sola “capacità cognitiva” a fondare la dignità dell’essere umano? Sembra incredibile, eppure questi sono gli argomenti (e le contraddizioni) di chi poi accusa gli oppositori dell’eutanasia di violare l’“autodeterminazione” del paziente con l’“accanimento terapeutico”.
Suscita non poca perplessità la certezza quasi “religiosa” di sortire effetti certamente positivi da mutilazioni e somministrazione di estrogeni miranti a chissà quale miglioramento delle relazioni sociali ( “Il Dio che conosciamo noi vuole che Ashley abbia […] genitori capaci di usare ogni risorsa a loro disposizione per massimizzare la sua qualità di vita”), imponendo arbitrariamente orribili danni attuali per prevenire problemi ipotetici. A questo punto, poiché Ashley vivrà presumibilmente un numero di anni “normale”, bisognerà porsi il problema di chi l’assisterà una volta scomparsi i suoi genitori. Forse gli allievi dei dottori che la mutilarono suggeriranno di liberarla con l’eutanasia dalla nuova situazione che tornerebbe a discapito dalla “qualità della vita” un tempo raggiunta.
In effetti, il meccanismo è sempre il medesimo: la “qualità di vita” che si intende migliorare è quella dei “sani”, in una società che non vuole riconoscere la verità sull’uomo e sulla sua vera dignità. Non si vuole qui sminuire il travaglio di genitori disperati e confusi, ma evidenziare le scelte contraddittorie e aberranti a cui possono andare incontro se accompagnati da cattivi consiglieri, dal momento che proprio su simili angosciosi travagli fanno leva coloro che tentano oggigiorno di snaturare l’essenza della medicina, trasformando i medici da persone investite della missione di curare i malati a operatori volti a sopprimerli o a ridurli a bonsai amorevolmente potati a tenuti in eleganti vasetti.
È sempre la prometeica volontà di ridisegnare la realtà che genera abomini senza nome, e non è un caso che le lobby anti-vita spieghino ora che “il “trattamento Ashley” è come il diritto all’aborto” (Cfr http://www.rhrealitycheck.org/blog/2007/02/15/how-ashley-s-treatment-is-like-abortion-rights)
Il feto precoce non ha adeguata capacità cognitiva, ergo non è persona; Terri Schiavo è in “stato vegetativo”, non comprende, non comunica, ergo non è più una persona: è più “dignitoso” lasciarla morire di fame e di sete. Insomma, qualcun altro ci dà o ci toglie il diritto di vivere in base ad un parametro assolutamente insufficiente a definire l’essere umano. Ce lo ha ricordato Papa Benedetto XVI il 16 febbraio – in un messaggio a firma del Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, inviato ai partecipanti al Convegno internazionale intitolato “Comunicazione e relazionalità in medicina. Nuove prospettive per l’agire medico”.
Il Pontefice definisce “un errore identificare nella capacità relazionale e comunicativa il tutto della persona umana negando, a chi questa capacità non ha, il valore intrinseco e oggettivo che appartiene alla persona umana come tale”, e richiama il fondamentale passaggio della Evangelium vitae di Giovanni Paolo II che denunciava “quella mentalità che, esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l’esaltazione dell’uomo quale essere «indisponibile»?
“La teoria dei diritti umani si fonda proprio sulla considerazione del fatto che l’uomo, diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c’è spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale. Ma questo è l’esatto contrario di quanto ha voluto storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle «ragioni della forza» si sostituisce la «forza della ragione».
“Ad un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell’uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell’altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.”
[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]