di Marco Invernizzi
C’è una data dalla quale si può far partire la contestazione del Magistero da parte di alcuni teologi e di una porzione di fedeli cattolici che hanno ormai perduto la nozione di “diritto naturale”
Molti studiosi fanno risalire a questa enciclica l’inizio della contestazione del Magistero da parte di alcuni teologi e di una porzione di fedeli cattolici, contestazione che amareggerà il restante periodo di pontificato di Paolo VI e che sarà successivamente oggetto di diversi interventi della Congregazione per la dottrina della fede sotto la guida del card. Joseph Ratzinger.
Che cosa viene contestato al Magistero della Chiesa? Perché dal 1968 in poi assumono una visibilità costante nella vita della Chiesa, soprattutto attraverso l’enfatizzazione offerta dai mass media, sia i teologi che contestano il Magistero sia quel cattolicesimo democratico che, nella vita culturale e politica, si oppone a qualsiasi contrapposizione da parte dei cattolici contro le manifestazioni più anticristiane della modernità, e non soltanto nell’ambito della morale sessuale e matrimoniale?
Naturalmente il tema meriterebbe una più ampia e meditata riflessione che ci aiuterebbe a capire cosa è successo nella vita della Chiesa italiana negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando il Papa, che pur aveva sollevato tanti entusiasmi nel mondo progressista, venne sostanzialmente abbandonato e accusato di avere impedito lo sviluppo profetico del Concilio Vaticano II, tanto che nell’ultimo decennio del pontificato (dal 1968 al 1978) Paolo VI denuncerà costantemente, un numero impressionante di volte, quella che lui stesso aveva definito l’autodemolizione della Chiesa.
Tuttavia qualcosa si può accennare anche in poche battute. Una prima considerazione ha per oggetto il diritto naturale, la cui importanza è stata ricordata ancora da papa Benedetto XVI nel discorso alla Pontificia Università Lateranense lunedì 12 febbraio 2007. Come spiega proprio l’Humanae vitae, la Chiesa non insegna soltanto quanto rivelato da Dio attraverso le Sacre Scritture, ma anche quanto riguarda la natura, perché Dio che si è rivelato in Cristo è lo stesso che ha creato l’uomo e il mondo, iscrivendo nella creazione una legge appunto naturale, finalizzata al Bene supremo, che è Dio stesso, e il cui rispetto comporta anche il benessere (lo “stare bene”) della società.
Non è così per quei cattolici democratici che nel 1974, in occasione del referendum contro il divorzio, si sono schierati a fianco dei divorzisti incitando pubblicamente a votare no, cioè a mantenere la legge.
Non è così per l’attuale ministro Rosy Bindi che, insieme agli altri cattolici democratici, reclama l’autonomia della politica e delle decisioni che i governanti devono prendere (e fa benissimo a rivendicare questa libertà), ma dimentica che la legittima autonomia nelle cose temporali dall’autorità ecclesiastica non significa che il governante cattolico non sia tenuto a rispettare, nelle leggi che promuove, il rispetto del diritto naturale e dunque l’indissolubilità del matrimonio, l’unicità e irripetibilità della famiglia e la sua centralità nella vita sociale. Per cui il ministro non può auspicare, come invece è apparso sui quotidiani del 15 febbraio, che la Chiesa si occupi delle cose di Dio, come se la famiglia, o il simil-matrimonio proposto dai Dico, non sia affare di Dio e della Chiesa.
Il problema è che molti intellettuali cattolici hanno perso la nozione di diritto naturale e quindi hanno dimenticato il senso universale, valido per tutti gli uomini, non solo per i cristiani, delle proposte avanzate dalla dottrina della Chiesa su temi come la vita e la famiglia. Complice la “scelta religiosa” – cioè quella forma di disimpegno dalla vita pubblica maturata negli anni Sessanta in contrapposizione all’Azione Cattolica di Luigi Gedda – molti cattolici ritengono oggi di essere portatori di una scelta di fede opinabile accanto ad altre proposte e non invece di avere il compito di aiutare gli uomini del loro tempo a riconoscere il disegno d’amore di Dio verso ogni persona e verso le nazioni.Un disegno che è l’unico salvifico, anche se la Misericordia divina opera anche al di fuori della Chiesa visibile. Ora, questo disegno di Dio è parzialmente comprensibile dalla ragione umana, almeno quando riguarda la vita e la famiglia.
Dunque, il rifiuto dei Dico oggi, così come la battaglia per l’indissolubilità del matrimonio nel 1974, sono battaglie che la Chiesa non può non combattere perché riguardano tutti gli uomini, indipendentemente da quale fede religiosa ciascuno professi.
Avendo perduto la consapevolezza del diritto naturale, l’azione pastorale e politica dei cattolici democratici nel ventennio successivo al Concilio è apparsa incerta, perché aveva perduto la certezza di poter offrire una soluzione, parziale ma reale, per tutti gli uomini, anche per quelli che non possedevano la fede. E questa proposta debole, incerta, aveva bisogno di appoggiarsi ad altre forze politiche che agli occhi dei cattolici democratici rappresentavano l’incarnazione della speranza che avevano perduto. Queste forze politiche vennero così sempre ricercate dove i cattolici democratici pensavano che si orientasse inevitabilmente la storia, cioè a sinistra: e la “scelta religiosa” divenne così come un ponte sul quale si transitava sempre e soltanto verso una direzione, andando verso la quale molti abbandonarono la stessa professione di fede.
L’«amaro risveglio» del cattolicesimo democratico è cominciato almeno nel 1985, a Loreto, quando papa Giovanni Paolo II incitò i cattolici a essere visibilmente presenti nella vita pubblica delle nazioni moderne. Oggi, quelle parole di un Papa venuto dall’est, sono diventate le parole di una Chiesa, quella italiana, che ha ritrovato una compattezza e una fortezza che sembravano perdute. Speriamo ne prendano atto anche i cattolici democratici.