Il ballo comincia, ma non si decide la storia senza coinvolgere i popoli
Hanno deciso di avviare il negoziato per l’ingresso della Turchia in Europa, lo hanno deciso legittimamente i governi eletti dagli europei, non è mai successo che una procedura di questo tipo finisse in un nulla di fatto; e si capisce dunque che questa decisione divida l’opinione pubblica sebbene si tratti soltanto dell’avvio di una trattativa che durerà molti anni. Il fatto che Bush, Blair, Berlusconi e Israele siano favorevoli al lieto evento naturalmente fa pensare, e induce a una riflessione realista sulle conseguenze di un’eventuale decisione finale che associ settanta milioni di turchi islamici alle istituzioni dell’Unione.
Bush, Blair, Berlusconi e Israele sono precisamente le forze che hanno teorizzato e praticato una risposta di autodifesa attiva dell’occidente di fronte alla guerra portatagli dagli islamisti fondamentalisti e wahabi, il fronte in lotta per assumere la leadership della comunità musulmana mondiale. Diciamo che le loro opinioni non sono deboli né sospette. Che l’apertura alla Turchia sia una strada complicata da percorrere, che ci siano pericoli in vista, è evidente a tutti tranne che ai sognatori.
Che la soluzione migliore sia un “no” di principio, questo è piuttosto discutibile. Per le tante ovvie ragioni che conosciamo. Un rigetto mal motivato, edittale, provocherebbe un contraccolpo negativo nella collocazione internazionale di quel paese, che fino ad ora è stato con molte ambiguità un bastione antifondamentalista e a suo modo occidentalista. Quel che sarà l’Europa tra molti anni non lo sappiamo, non sappiamo nemmeno se avrà un trattato costituzionale in vigore (visto che si terranno delicati referendum in merito), e se l’ingresso della Turchia servisse a nullificare le ambizioni di un superstato burocratico di marca franco-tedesca, optando alla fine per una zona di libero scambio che è per adesso l’Europa reale, magari ne verrebbe un beneficio. Si chiama eterogenesi dei fini.
Su di un punto, però, bisogna esser chiari da subito. Le costituzioni e le assimilazioni politico-culturali ambiziose, anzi ardite, devono essere, se sono come si dice “fatti storici”, il prodotto paziente del ruolo delle classi dirigenti e della decisione finale dell’opinione pubblica. “Noi abbiamo molta fiducia nelle elezioni”, ci dicevano ieri due seri intellettuali americani (Brooks e Muravchick) da noi intervistati. Anche l’Unione dovrebbe abituarsi a ragionare così, se voglia combinare qualcosa. La storia la fanno le leadership in compagnia dei popoli che legittimano i loro atti battesimali, fondativi, non le burocrazie né i soli poteri esecutivi. Dunque sì, sì e ancora sì al referendum.