In occasione delle prossime Olimpiadi
di Bernardo Cervellera
Ha avuto una certa eco la proposta dell’attrice e ambasciatrice Onu Mia Farrow (e del candidato alle presidenziali francesi Bayrou) di boicottare le Olimpiadi di Pechino a causa del sostegno cinese a quel Sudan che opprime il Darfur. Pare però un’uscita limitata e un po’ troppo “politicamente corretta”.
Il che non vuole dire ridurre lo spessore della tragedia delle popolazioni africane in questione. Negli occhi e nel cuore di molti vi sono le sterminate tendopoli nel deserto che ospitano alla meno peggio i due milioni e mezzo di profughi, o i 200mila morti di questi ultimi 4 anni. Né si dimentica che Pechino ha enormi interessi petroliferi nella regione e offre armi e palazzi presidenziali al regime di Khartum. Ma affermare che «le Olimpiadi di Pechino sono sporche del sangue africano» e del genocidio del Darfur è perlomeno limitante: le Olimpiadi di Pechino 2008 sono infatti macchiate da tanto altro sangue. Tibetano. Uigur. E anche cinese.
Nel Tibet, nello Xinjiang, nello Shandong e nell’Henan vengono attuate dal governo uccisioni e distruzioni paragonabili a genocidi: sulla popolazione tibetana (2 milioni di persone), impossibilitata a studiare la propria lingua e la propria cultura e a nascondere il suo amore al Dalai Lama; su quella uigura (8 milioni), alle cui madri è proibito perfino portare i propri figli in moschea e gli uomini a centinaia vengono condannati a morte ogni anno; sui membri del Falun Gong, arrestati e torturati a centinaia di migliaia, secondo le cifre diffuse dallo stesso movimento.
E che dire della legge sul figlio unico, che in più di 20 anni ha portato all’eliminazione di 40 milioni di feti femminili? Non è questo anche un orribile genocidio infitto alla stessa popolazione cinese, portatore di squilibri demografici e umiliazione delle donne, nelle campagne ormai comprate e vendute come merce rara? Il Darfur vive un dramma umanitario che va condannato senza mezzi termini, ma a denunciare questa situazione è divenuto ora quasi una “moda”.
Abbiamo infatti visto il documentario girato da George Clooney e le foto di Angelina Jolie con i bambini locali. Nessun attore però ha finora fatto sentire la propria voce per liberare vescovi e sacerdoti imprigionati dal regime di Pechino, la cui unica “colpa” è quella di non voler aderire ad una struttura che si vuole indipendente dal papa di Roma…
L’impressione è che noi cerchiamo di colpire la Cina nei suoi rapporti col Sudan perché non abbiamo il coraggio di accusare la Cina per i suoi affari interni. Si accusano gli sponsor internazionali dei Giochi e non si dice nulla delle aziende occidentali che quotidianamente sfruttano la manodopera a basso costo, senza diritti e spesso perfino senza salario. Si tenta di nascondere il fatto che lo sviluppo economico della Cina è in realtà funzionale al nostro.
Se l’Occidente vuole boicottare, deve boicottare anzitutto se stesso e i suoi rapporti iniqui con Pechino: per essere credibile, il boicottaggio deve costare qualcosa a noi stessi. Per questo, meglio sarebbe che tutti coloro che commerciano con la Cina stilassero contratti cui collegare condizioni etiche: migliore trattamento degli operai, libertà di associazione, libertà di religione per le comunità locali, liberazione di qualche dissidente.
In questo modo sarebbe il rapporto con Pechino a essere strumento del cambiamento, non il semplice scandalo. Per questo le Olimpiadi di Pechino possono costituire una grande occasione di mettersi in rapporto con la popolazione cinese, occasione di tessere legami e conoscenze, più forti e reali delle sponsorizzazioni, capaci di lavare il sangue che sporca non solo le Olimpiadi, ma tutta la vita del Paese.