«Avvenire», editoriale, 11 giugno 2015
La dimensione educativa di malattia e morte
Giacomo Samek Lodovici
In un passaggio dell’udienza di ieri, il Papa ha detto che «è importante educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel tempo della malattia», mentre «un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana inaridisce il cuore e fa sì che i ragazzi siano anestetizzati verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite». E ha aggiunto: «La debolezza e la sofferenza dei nostri affetti più cari e più sacri, possono essere, per i nostri figli e i nostri nipoti, una scuola di vita, e lo diventano quando i momenti della malattia sono accompagnati dalla preghiera e dalla vicinanza affettuosa e premurosa dei familiari».
In effetti, tanto per incominciare, la sofferenza e la morte ci attestano la nostra finitezza − il nostro limite come ha detto il Papa − e ci potrebbero indirizzare, nella preghiera e non solo, verso l’Unico Guaritore.
Ma la nostra società è una grande consumatrice di anestesie e tende, specialmente per i figli, a rimuovere qualsiasi tipo di fatica e sforzo, ogni differimento o negazione della soddisfazione dei desideri. Spesso ogni desiderio del bambino è trattato dai genitori come un diritto e non gli si insegnano la fortezza e la temperanza.
Ai bambini non solo viene spesso tolto quasi ogni tipo di sforzo, ma vengono occultate la sofferenza e la morte altrui che, anche presso gli adulti, subiscono una frequente censura, come già notava Pascal (ma anche Heidegger, fatte le debite differenze): «gli uomini, non avendo potuto guarire la malattia, la sofferenza e la morte hanno deciso di non pensarci». La malattia e la morte danno fastidio ed è anche per questo motivo (insieme ad altri) che si fa strada la scorciatoia dell’eutanasia. In vista della quale, allora sì, si sbandiera la sofferenza per favorire l’uccisione di disabili e malati.
È soprattutto la morte che viene nascosta specialmente ai bambini e ai ragazzi, che ne hanno spesso una percezione solo virtuale, come virtuale è gran parte del loro mondo (videogiochi, internet, social network, ecc.).
Così, nel nostro tempo, l’argomento indecente da evitare in ogni conversazione non è più il sesso, di cui anzi si parla a tutte le ore, bensì proprio la morte. Perciò, i bambini, a volte, non vengono nemmeno portati ai funerali, e a volte si dice loro che il tal defunto (per esempio il nonno) è partito per un Paese lontano.
Spesso, si tralascia l’argomento-morte (o lo si spettacolarizza, rendendola fiction irreale) evitando di riflettere su se stessi e sulla propria vita: «il vario agitarsi degli uomini e i pericoli e le pene a cui si espongono […] deriva […] dal non sapere starsene in pace, in una camera», cioè a riflettere su di sé (ancora Pascal).
Insomma, si dimentica spesso la grande funzione educativa che può avere la sofferenza. Infatti, senza cadere nel deplorevole “dolorismo” (che si compiace del dolore in quanto dolore e talvolta lo cerca appositamente), va rammentato che vedere, confrontarsi e interrogarsi sulla malattia e sulla morte altrui fa comprendere ai giovani, che potrebbero sentirsi spavaldamente forti perché avvertono la forza della giovinezza, che prima o poi anche loro deperiranno. Inoltre, la sofferenza (propria ma anche altrui) può aumentare la nostra empatia, può farci maturare e può forgiare l’umana capacità di amare. Può farci comprendere quale sia la vera gerarchia dei beni da cercare nella vita ed aiutarci a capire che «alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (S. Giovanni della Croce).