di Giovanni Ricciardi
La «questione turca» suscita oggi in Europa un vasto dibattito, legato soprattutto alla richiesta di Ankara di entrare a far parte dell’Unione europea, cosa che suscita timori e perplessità in buona parte dell’opinione pubblica: timori che hanno probabilmente contribuito alla mancata approvazione da parte francese del Trattato costituzionale europeo.
La Turchia moderna appare ai nostri occhi come un groviglio di contraddizioni: da un lato, l’alleato fedele degli Stati Uniti, il Paese musulmano dotato di una costituzione laica, di istituzioni parlamentari bene o male attive da più di cinquant’anni; dall’altro uno Stato che ancora fatica a riconoscere pienamente le libertà individuali, che reprime le minoranze con violenza inusitata per i nostri standard, in cui il peso di una élite burocratico-militare limita ancora notevolmente la libertà di pensiero e di circolazione delle idee.
Emblematico è il caso rappresentato dalla querelle sul genocidio armeno, che vede un’accesa contrapposizione tra la comunità armena della diaspora e il governo turco, arroccato su un deciso negazionismo. Tra i due «contendenti» si stende il mare magnum dei numerosissimi riconoscimenti ufficiali del genocidio promulgati da un gran numero di comuni, regioni e Parlamenti, tra cui la risoluzione del Parlamento europeo del 1987, che pone alla Turchia il riconoscimento dello sterminio come conditio sine qua non per l’ingresso in Europa.
Spicca, in questo coro composito, l’imbarazzante eccezione del Congresso americano, preoccupato di non urtare la sensibilità dell’alleato turco, mentre in Francia si discute addirittura una proposta di legge che renderebbe reato penale la negazione del genocidio armeno.
In Italia, il 90° anniversario dei tragici avvenimenti del 1915 ha provocato un discreto coinvolgimento dei media, come non era accaduto in passato. Il successo del romanzo di Antonia Arslan, La masseria delle allodole e il film che ne hanno ricavato i fratelli Taviani continuano a tenere desta sul tema l’attenzione del mondo culturale nel nostro Paese.
Inoltre, due libri hanno arricchito il panorama bibliografico italiano sulla materia: il saggio di Marcelle Flores, II genocidio degli armeni, edito dal Mulino (Bologna 2006, pp. 294, euro 22) e la traduzione del libro di Taner Akcam. Nazionalismo turco e genocidio armeno, promossa da Guerini e Associati (Milano 2006, pp. 284, euro 24), che ha avuto una certa eco sulla stampa, compresa una recensione molto critica e vicina a posizioni filoturche come quella apparsa sulla Repubblica a firma di Marco Ansaldo. Lo stesso Akcam ha presentato il volume a Roma e a Milano e ha partecipato alla trasmissione Zapping di Aldo Forbice.
Il Taner Akcam, turco controcorrente
Akcam è il primo storico turco ad aver pubblicamente ammesso il genocidio. Condannato per questo in Turchia, fuggito dal carcere ed emigrato in Germania prima e poi negli Stati Uniti, oggi insegna presso l’Università del Minnesota. La sua fatica editoriale è un’analisi attenta e particolareggiata delle circostanze storiche che hanno permesso l’esplosione della violenza genocidaria del 1915 in Anatolia. E in questo il suo contributo va di pari passo con il volume di Flores.
Ma Akcam scava anche in altre direzioni, tentando di spiegare, con l’ausilio della psicologia di massa, perché la formazione della moderna Repubblica turca abbia avuto come condizione necessaria la rimozione della memoria del genocidio. Un compito che lo storico affronta con la consapevolezza che il modo di guardare alla propria storia da parte di un popolo è, in effetti, uno specchio deformato del presente. Compito arduo, considerando che il «punto di vista» a cui siamo abituati in questi casi, è quasi sempre quello delle vittime.
La storiografia armena a questo proposito è ricca di opere importanti e documentate. Ma nessuno prima di Akcam, al di là delle imbarazzanti ricostruzioni ufficiali della storiografia turca di regime, aveva provato ad affrontare la questione dal punto di vista dei carnefici. A spiegare, cioè, come sia stato possibile, storicamente, giungere a una barbarie di simili proporzioni, e alla sua cancellazione, operata sistematicamente per decenni, dalla memoria storica dei turchi e in parte anche dell’Occidente: basti pensare allo spazio ancora risibile che all’avvenimento danno i manuali di storia in uso nelle scuole italiane.
Akcam ha così cercato di porre fra parentesi la propria appartenenza etnica e di ragionare «freddamente», da storico e da osservatore attento dei fenomeni politici e sociali che oggi attraversano la Turchia. E la risposta tentata da Akcam è estremamente articolata.
Egli rifiuta in partenza la comoda teoria della «follia collettiva», semplice e rassicurante, perché farebbe pensare quasi a uno «sbaglio di natura», a una rottura dell’ordine consueto delle cose, sino a ritenere che quanto è accaduto in passato, nella sua tragica unicità, sia destinato comunque a non ripetersi più. Sappiamo bene, dalla storia del Novecento, che le cose non stanno così.
Alle radici dell’odio etnico-religioso
Occorre allora, per Akcam, cercare di individuare i fattori storico-psicologici che hanno contribuito a che un evento del genere si verificasse. Ma questa prospettiva è più insidiosa, e l’autore ne è lucidamente consapevole. Si potrebbe essere indotti a pensare che, se un genocidio ha delle cause ben individuabili, sia forse possibile, percorrendo questa via, attenuarne la portata, fino quasi a giustificarlo.
La cornice storica in cui matura la mala pianta dell’odio etnico-religioso nei confronti della minoranza armena è la progressiva dissoluzione dell’impero ottomano tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento, fino allo scoppio della Grande Guerra.
La perdita dei tenitori europei, causata dalle insurrezioni a sfondo nazionalistico che conducono all’indipendenza dei popoli cristiani delle regioni balcaniche – greci, romeni, serbi e bulgari – costituisce un gravissimo colpo all’onore dell’impero ottomano ed è il sintomo di una fine sentita ormai come prossima. Le potenze europee continuano a tenere in vita il «malato d’Europa» per timore che uno smembramento conduca a una sanguinosa guerra di spartizione. Ma l’atteggiamento delle nazioni «cristiane» dell’Europa verso gli ottomani è segnato da un’ambiguità di fondo.
Quasi sempre le loro pesanti intromissioni negli affari interni dell’impero sono ammantate dal pretesto di voler proteggere i sudditi cristiani del sultano. E sono quindi percepite come pretestuose «ingerenze umanitarie». A fronte di questo, si prospetta una linea di resistenza, incarnata dai Giovani Turchi. Nazionalisti accesi, formati al mito dello Stato-nazione figlio della Rivoluzione francese, esautorano il sultano nel 1908 e sognano una politica di «riconquista»: non però verso i tenitori balcanici ormai perduti, ma verso Oriente, nell’orizzonte ideale dell’unità dei popoli turchi che si estendono dall’Anatolia all’Asia centrale.
I primi mesi della Grande Guerra vedranno però il sogno panturco frantumarsi di fronte alle armate russe a Sarikamish. La rabbia e la delusione per la sconfitta si incanalano allora contro la minoranza armena, che abita la Cilicia e i sei vilayet dell’Anatolia orientale. E le ragioni, o meglio, i pretesti, non mancano: gli armeni sono cristiani, i loro «fratelli» che vivono nel Caucaso sotto lo zar combattono a fianco dei russi. Sono dunque potenziali traditori. Sono, insieme alle popolazioni greche delle isole, l’ultimo grande popolo non musulmano che ancora si trova all’interno dell’impero.
Nei loro ambienti politici e culturali più avanzati si sono formati partiti che aspirano a ottenere forme di autonomia amministrativa, se non piena indipendenza: tanto che, attirati dalle sirene costituzionali dei Giovani Turchi, questi armeni in prima battuta hanno appoggiato la loro rivoluzione politica. Ma si sono tirati indietro, allo scoppio della guerra, davanti alla richiesta di sobillare contro lo zar i loro fratelli che abitano in territorio russo. Tutto ciò genera fastidio, ostilità, sospetto e odio nella nuova dirigenza e, soprattutto, nel «triumvirato» costituito da Kemal, Enver e Talat Pasa.
Commenta Akcam: «Alcune delle idee che abbiamo visto avevano sicuramente delle basi storiche indiscutibili. Ma anche queste finirono per diventare una sorta di paranoia collettiva che legittimava la ferocia dei nazionalisti turchi». È il clima della guerra, che nei primi mesi porta quasi alla caduta di Costantinopoli, a far precipitare la situazione e a far prevalere la «soluzione finale» dell’ala radicale dei Giovani Turchi: «Le massime autorità di un impero che continuava a perdere territori», sintetizza Akcam, «e che stava per crollare, percepivano le istanze democratiche dei propri sudditi cristiani attraverso la paura della fine, e si comportavano di conseguenza.
In altre parole, capivano di dover condurre una “lotta per la sopravvivenza”; di conseguenza le istanze di democrazia dovevano essere soffocate con violenza spietata». Un leone ferito, quello ottomano, scatena insomma il suo potenziale di violenza su un popolo che viene ormai percepito come estraneo, nemico: addirittura simbolo e concentrato di tutte quelle forze che congiurano contro la sopravvivenza dello Stato e contro la supremazia della razza turca, destinata a tentarne l’estrema e disperata difesa.
Perché negare un milione di morti?
Tutto questo può portare a comprendere perché sia stato perpetrato un crimine così orrendo, la deportazione e il massacro di più di un milione di armeni e la loro scomparsa dalla Cilicia e dalle terre dell’Anatolia orientale che avevano abitato per millenni. Ma non spiega ancora perché, dopo la guerra, sia stato negato e cancellato dalla memoria storica dei turchi. La sconfitta nella Grande Guerra infatti non cancellò, ma contribuì a rafforzare il nazionalismo dei Giovani Turchi.
Il trattato di Sèvres, firmato nel 1919, sanciva non solo la punizione dei responsabili del genocidio, ma anche lo smembramento dell’impero tra armeni e curdi, a est, greci e italiani a ovest, e riservando alla Gran Bretagna il controllo su buona parte del Medio Oriente. La soluzione provocò il risveglio della resistenza turca ed ebbe l’effetto di cementarla ancora una volta sulla necessità di rifondare lo Stato su base rigidamente monoetnica cacciando le potenze straniere.
La guerra che ne seguì riuscì a ristabilire il controllo turco sull’intera Anatolia, a prezzo di nuove stragi di greci e armeni, e a interrompere il processo di individuazione e punizione dei colpevoli del genocidio, molti dei quali occuperanno importanti ruoli di governo nella neonata Repubblica turca.
Kemal Ataturk, il «padre della patria» nata sulle ceneri dell’impero, volle cominciare così una nuova storia, condannando all’oblio il passato ottomano, lo spettro di Sèvres e il genocidio armeno, attraverso una sistematica cancellazione della memoria storica.
L’adozione dell’alfabeto latino, per cui una generazione dopo la Prima guerra mondiale quasi nessuno era più in grado di leggere in lingua ottomana, è il simbolo stesso di questa volontà di rifondazione. A partire da questo «nuovo inizio» tutta la storia turca viene riscritta: «Per creare un carattere nazionale», scrive ErnestRenan, «oltre ai criteri etnico-culturali-religiosi, cioè oggettivi, una nazione necessita una memoria comune.
Memoria e storia collettive costituiscono la base della nazione “immaginata” e del conseguente Stato nazionale reale. La storia deve essere scritta in modo univoco, adatto a questo aggregato di persone, che presto si considererà un tutto unico sia nella gioia che nel dolore. Una nazione può nascere solo dalla distorsione del proprio passato. È impossibile creare una nazione senza distorcerne il passato. La più comune forma di distorsione è dimenticare».
Si può imputare al cittadino turco d’oggi di non sapere nulla del genocidio armeno, o di conoscerne una versione distorta, in cui sono gli armeni i persecutori e i turchi le vittime? Gli si può imputare di percepire le richieste occidentali di riconoscimento come delle indebite accuse all’onore dello Stato?
La sua memoria storica è stata, per decenni, gettata in un cestino e riscritta per volontà dello Stato, come si fa quando vogliamo eliminare un file dal computer e decidiamo di sostituirlo con un altro. Crediamo così di averlo cancellato per sempre. In realtà quello è stato soltanto rimosso, compresso, nascosto, ma continua a vivere in qualche angolo dell’hard disk, da cui prima o poi, potrebbe essere ripescato.
Conflitti da sanare tra passato & futuro
La memoria storica vive infatti anche nei rivoli delle memorie dei singoli, nei racconti familiari, che non hanno la stessa pubblicità, ma che tuttavia costituiscono un canale parallelo spesso assai resistente. Inoltre, la globalizzazione delle informazioni rende oggi più difficile per un Paese che non si isoli del tutto dal resto del mondo mantenere una versione «ufficiale» dei fatti e non esporsi mai al confronto con altri punti di vista.
L’attuale società turca è attraversata da un notevole dinamismo, in cui emerge, a poco a poco, una spinta dal basso che inizia a incrinare i modelli culturali dominanti. Da queste «crepe» potrà forse nascere, nel tempo, secondo Akcam, una capacità di rileggere il passato senza pregiudizi e senza dipendere da riletture storiche indotte dall’alto. Il riconoscimento del genocidio, allora, sarà forse più frutto di una progressiva evoluzione della società che di un’ammissione «estorta», obtorto collo, a un sistema di potere che si perpetua nel «culto» dello Stato, dei suoi miti e della sua monolitica immagine.
Al vertice stesso dello Stato turco si percepiscono oggi i segni della crisi di un sistema tradizionale di potere. Il meccanismo di alleanze che ha visto la Turchia saldamente ancorata a Stati Uniti e a Israele è entrato in discussione con la fine della guerra fredda.
Lo Stato appare diviso al suo interno: da un lato una democrazia «a sovranità limitata», in cui i partiti che si succedono al potere non esercitano un reale controllo su tutto il Paese, che continua a essere gestito per buona parte da una burocrazia obbediente ai militari; dall’altro, una società che inizia a rivendicare i suoi spazi di autonomia.
Anche le scelte in politica estera sono incerte e divise tra un passo deciso in direzione di una democrazia compiuta – in questo senso vanno gli sforzi e le richieste di ingresso nell’Unione europea, che a volte sembrano, per Akcam, più dettati da esigenze di ricollocazione e da pressioni esterne che da un sincero desiderio di muoversi in questa direzione – e il ritorno di un sogno «imperiale» che restituisca alla Turchia un ruolo di potenza regionale.
Così viene spiegata la mancata collaborazione con gli Stati Uniti nella avventura irachena, e l’appoggio dato agli azeri contro gli armeni nella disputa sul Nagorno-Karabach. Lo stesso intervento americano in Iraq ha risvegliato i timori connessi al rischio di una messa in discussione dei confini stabiliti nel 1923: la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese e soprattutto di uno Stato curdo nel nord dell’Iraq alimenta questi timori.
Ecco perché l’ostilità turca nei confronti di un riconoscimento del genocidio armeno continua a essere tanto ostinata, quasi che l’eliminazione di un «tassello» comporti il crollo dell’intero edificio: stiamo parlando della paura che, attraverso il riconoscimento, siano messi in discussione i fondamenti stessi della Repubblica; che al riconoscimento faccia seguito una richiesta di risarcimento, come è avvenuto nel caso delle vittime dell’Olocausto; e che tutto ciò divenga il pretesto per una concessione di libertà e diritti civili sempre maggiore.
«La memoria», scrive il filosofo Massimo Borghesi, «è il passato dell’io (anche di un io collettivo), ma per ognuno il passato può divenire un limite invalicabile, il passato può diventare destino. Per tante persone il passato è un destino, cioè una prigione di cui non riescono più a liberarsi. In questo senso il passato disegna la persona, è una potenza che si porta sulle spalle, pagando gli errori compiuti […] dobbiamo allora considerare il dominio del passato sul presente e precisare come la memoria possa divenire una memoria aperta sul presente e sul futuro. Il passato può esercitare un dominio sul presente, come la psicanalisi ha abbondantemente dimostrato. Quindi la memoria non è semplicemente un deposito, ma una potenza che può aprire il presente al futuro oppure risucchiare il presente nel passato. In questo caso l’io è inibito dal suo sé passato oppure posto in contraddizione con sé stesso. Questo essere determinati dal passato può portare tanto alla rassegnazione quanto al risentimento, cioè alla vendetta».
L’alternativa è, secondo Akcam, un modo diverso di guardare al presente, che fa leva sull’intuizione di alcuni, sulla loro capacità di superare gli schematismi per cui il turco e l’armeno di oggi sono condannati, come maschere di una tragedia della quale non furono protagonisti, a considerarsi in tutto e per tutto gli eredi dei carnefici e delle vittime di un tempo.
II diario di Varvar
Tutto questo è possibile? Ce lo auguriamo, pur sapendo che si tratta di una via ancora aspra e difficile. Ma i segni non mancano. Qualche anno fa è stato dato alle stampe in Italia, da Sperling & Kupfer, col titolo Pietre sul cuore, a cura della nipote Alice Tachdjian, il diario di una donna armena, Varvar, scampata al genocidio ed emigrata in Francia. È la storia di una donna straziata dalla propria vicenda umana, in cui prevale comunque, in ogni circostanza, un tenace e drammatico desiderio di vivere.
Vengono alla mente, nel leggere quelle pagine, le parole del poeta-soldato Ungaretti di fronte all’immane catastrofe della guerra: «Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita». L’Armenia, nella immaginazione di Varvar, è rappresentata con gli occhi di una bambina, che ne è stata strappata via a forza: e ha i colori dell’Eden, il Paradiso perduto. Quest’immagine tersa e serena dura lo spazio di poche pagine. Immediatamente dopo, il diario ci trascina nell’orrore della tragedia.
Gli occhi di questa bimba descrivono, passo dopo passo, lo svolgersi degli eventi: l’eco degli spari durante la fucilazione degli uomini del villaggio, in cui morirà il padre di Varvar; la successiva deportazione di donne, vecchi e bambini nel deserto della Siria, destinati a morire di fame e di stenti, a subire ogni sorta di violenze; la separazione di Varvar dalla madre, che resterà il ricordo più doloroso e indelebile per questa creatura di sei anni.
Fuggendo in braccio a una zia, Varvar si salverà, come tanti bambini armeni, per l’intervento di un conoscente turco, che la prenderà come sguattera al proprio servizio, fino alla fine della guerra, e alla ascesa al potere di Kemal. Suo fu il divieto tassativo alle famiglie turche di tenere in casa bambini armeni, anche se forzosamente islamizzati, come era capitato a Varvar, che pure conservava tenacemente nel cuore la fede cristiana dei suoi padri.
Molti di questi piccoli, compresa la protagonista della storia, verranno così «scaricati», dopo il 1920, in orfanotrofi gestiti in gran parte da missionari protestanti. Quando Kemal caccerà gli stranieri dal Paese, anche i missionari e gli orfani armeni loro affidati dovranno partire per sempre. Varvar descrive le tappe di un viaggio che per questi piccoli apolidi riserverà ancora amare sorprese, fino al definitivo approdo in Francia.
Nonostante la lunga catena di sofferenze, Varvar descrive le tappe della sua vita con dolcezza disarmante, sostenuta da una prosa tragicamente serena, che appare, ed è quasi un miracolo, priva di rancore.
Questa donna, al termine della sua esistenza, nonostante tutto, continua a riconoscere nella terribile sorte di un intero popolo il segno quasi impercettibile, paradossale, ma concreto, della presenza di Dio: «Ma perché Dio ha voluto che noi bambini sopravvivessimo? Perché siamo stati risparmiati dalla furia omicida? Forse noi fummo dispersi per il mondo come una manciata di semi in cerca di terra fertile per testimoniare, ricordare e indicare ai nostri figli la via impervia e dolorosa del perdono».
Una cosa così pura e vertiginosa, così «piena di grazia», può fiorire nel cuore di un uomo, soltanto se, invece di rivendicare ragioni e torti, adotta, per così dire, un Altro punto di vista. E questa è forse l’unica prospettiva che può permettere agli eredi delle vittime di cogliere dal proprio passato un frutto di riconciliazione, e agli eredi dei carnefici di guardare al proprio passato senza gli specchi deformanti di un’ideologia che rischia, ancora oggi, di generare mostri.