Tempi n° 51 16 Dicembre 2004
“Non piangete sulle immagini delle donne sudanesi, prendetevela con i loro governi corrotti. Invece di riempirli di soldi, chiedeteci questo”. June Arunga è nata in Kenya, ha girato un documentario, “The devil’s footpath” (“Il sentiero del diavolo”), un viaggio per tutto il continente nero. Lavora in una fondazione, l’Inter Region Economic Network, che insegna agli studenti e ai lavoratori in Kenya a cambiare mentalità. E l’Africa nei suoi occhi di ventenne, per quanto diabolica di miseria, è più viva che nelle cartoline stupide delle nostre Ong.
di Pasolo Bracalini
Fa quasi venire i nervi. Vieni qui in Europa dal Kenya, studi a Londra, e poi non vuoi nemmeno un po’ di fondi Ue? Dici che gli africani vanno rispettati, non elemosinati. Dici che preferisci un corso di economia d’impresa ai foreign aid. «D’accordo, servono anche quelli. Ma non chiedeteci se abbiamo fame, chiedeteci se abbiamo delle fattorie, una casa, chiedeteci chi ce le ha tolte. Non piangete sulle immagini delle donne sudanesi, prendetevela con i loro governi corrotti. Invece di riempirli di soldi, chiedeteci questo».
June Arunga è nata in Kenya, ha girato un documentario, “The devil’s footpath” (“Il sentiero del diavolo”), un viaggio per tutto il continente nero, presentato giovedì scorso a Milano dall’Istituto Bruno Leoni. Lavora in una fondazione, l’Inter Region Economic Network, che insegna agli studenti e ai lavoratori in Kenya a cambiare mentalità. E l’Africa nei suoi occhi di ventenne, per quanto diabolica di miseria, è più viva che nelle cartoline stupide delle nostre Ong.
June, ma è vero che la troupe Bbc progressista era scandalizzata dal suo atteggiamento anti-terzomondista?
Volevano toccare le corde del pietismo, che al pubblico europeo piace moltissimo. La loro idea era: facciamo vedere che gli africani stanno male così gli europei mandano sempre più soldi. Quindi cercavano immagini di quel tipo. In Sudan, mentre stavo commentando le riprese descrivendo la povertà e la miseria come il frutto della mancanza di un principio fondamentale, quello della proprietà privata, del rispetto per ciò che è mio, mi hanno fermato come se avessi detto una bestemmia: «Devi dire che è colpa degli europei che dimenticano l’Africa».
Invece di chi è la colpa?
Dei nostri governi corrotti, e più soldi gli mandate peggio è. Gli aiuti internazionali sono un ostacolo per la democrazia in Africa. Perché se il mio governo non ha bisogno dei miei soldi, perché ne riceve già a sufficienza da voi, io non posso pretendere niente dal mio governo, divento un suddito.
E’ vero che gli operai della Chevron in Sudafrica sono contentissimi di lavorare in una multinazionale?
Certo, sono orgogliosi di lavorare per una multinazionale che gli dà un lavoro e uno stipendio onorevole. Con i soldi riescono ad aiutare le loro famiglie. Per loro sono incomprensibili tutte le vostre battaglie contro le multinazionali che “sfruttano” l’Africa. Vada a vedere la fila di gente quando apre una nuova fabbrica.
E lei lo vada a raccontare ai nostri No global.
La visione politicamente corretta dell’Africa è totalmente distorta. Non è vero che l’Africa è vittima dell’Occidente. Noi siamo responsabili dei governi che abbiamo. Ma noi stessi dobbiamo essere la soluzione al nostro problema, non possiamo aspettare che arrivi da altri.
E il commercio equo e solidale?
Una balla. Se gli artigiani in Kenya o in Uganda fanno borse o scarpe brutte, con materiali peggiori o con una lavorazione di bassa qualità, perché stupirsi se il mercato preferisce le altre? L’Africa potrà fare davvero concorrenza ai prodotti occidentali quando offrirà prodotti competitivi. Ma per questo ci servono conoscenze tecniche. La globalizzazione ci sta aiutando moltissimo in questo.
Cosa si aspetta dall’Europa?
Che la smettiate di compatirci, e che veniate qui a portare nuove industrie, nuove fabbriche, che significano lavoro per noi. Non solo, ci insegnano competenze e professionalità, a confrontarci con il mondo. Ben vengano le multinazionali americane, quindi, vogliamo lavoro e sviluppo, non compassione.