di Massimo Introvigne e Alfredo Mantovano
Abbiamo letto con attenzione i contributi al dibattito sul disegno di legge sulle unioni civili fra persone omosessuali in discussione in Parlamento. Condividiamo la sua formula sui diritti «patrimoniali e non matrimoniali», cui aggiungeremmo «individuali e non di coppia». La distinzione può sembrare di lana caprina, ma non lo è sul piano giuridico.
Il riconoscimento di diritti individuali alla persona omosessuale che convive con altra persona dello stesso sesso – a partire dal diritto all’assistenza del convivente in ospedale, in carcere e così via, già ampiamente contenuto nelle leggi in vigore – non determina alcuna analogia con il matrimonio. Riconoscere invece la coppia in quanto tale, con apposita pubblica registrazione, prevedere una cerimonia simile a quella del matrimonio – in Municipio e con due testimoni -, far diventare quella coppia soggetto di diritti in quanto coppia, ne avvicina il regime a quello matrimoniale fino a farlo coincidere con esso.
Non è sufficiente una clausola più o meno nominalistica con cui si affermi che l’unione civile è un “istituto giuridico originario”, in quanto tale diverso dal matrimonio, come è scritto in un emendamento proposto da alcuni senatori del Pd: non è questione di nomi, ma di sostanza. Se nella sostanza tale “istituto” prevede diritti e doveri per la coppia in analogia alla famiglia fondata sul matrimonio lo si può chiamare come si vuole: la realtà è quella di un matrimonio.
Negli interventi pubblicati su Avvenire si dà rilievo – e con ragione – alle adozioni; la volontà degli italiani è chiara sul punto: un recente sondaggio di IPR Marketing, realizzato il 24 giugno, segnala che l’85% dei nostri connazionali è contrario alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso. Non è vero che nel DDL Cirinnà le adozioni non ci siano: l’articolo 5 prevede la stepchild adoption, cioè l’adozione del figlio biologico o adottivo di uno dei conviventi omosessuali da parte dell’altro. Qualunque cosa dica chi appoggia questa norma, qui c’è una porta aperta anche per l’utero in affitto: se uno dei conviventi si reca all’estero e si procura un figlio con questa pratica – ancora illegale in Italia -, questo figlio sarà biologicamente suo e dunque potrà essere adottato dall’altro convivente in base all’articolo 5.
Ma quand’anche l’articolo 5 sparisse, rimarrebbe la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che fin dal 2013, in un caso relativo all’Austria – dove non c’è il «matrimonio» omosessuale, ma ci sono “unioni civili” analoghe a quelle del DDL Cirinnà – ha stabilito che nessun Paese europeo è obbligato a introdurre per le coppie omosessuali istituti simili al matrimonio, ma se lo fa non può poi “discriminare” queste coppie quanto alle adozioni. Se dunque passasse il DDL Cirinnà, dopo pochi mesi la magistratura – italiana o europea – reintrodurrebbe le adozioni, non in base a una nuova giurisprudenza bensì a un orientamento chiaro e definito, che esiste già.
La conclusione non ha alternative: chi punta all’approvazione di unioni civili ritenendo che il punto di mediazione accettabile sia l’eliminazione del riferimento alle adozioni vuole un circolo quadrato, qualcosa di giuridicamente impossibile. Non sono nostre illazioni; se non fosse sufficiente la mole di sentenze Cedu e della Consulta già intervenute in materia, è sufficiente – a un livello meno sottile dal punto di vista del diritto ma più immediato – quanto dichiarano i principali ispiratori di questa legge, il sottosegretario Scalfarotto e l’ex parlamentare Paola Concia.
Scalfarotto intervistato da la Repubblica il 16 ottobre 2014, ha spiegato che «l’unione civile non è un matrimonio più basso, ma la stessa cosa. Con un altro nome per una questione di realpolitik». Che l’“altro nome” duri poco lo afferma a chiare lettere Paola Concia su Il Foglio del 7 luglio: «Eppure la legge contiene una piccola, per il momento necessaria, ipocrisia: è infatti una legge che di fatto introduce il matrimonio tra cittadini dello stesso sesso, ma senza dichiararlo esplicitamente [….] La legge adesso in discussione nel nostro Parlamento, che assomiglia alla legge in vigore in Germania, e ad altre leggi approvate in Francia, in Inghilterra e in Belgio, può essere considerata una specie di ‘cuscinetto’, un ponte: serve cioè a far capire che due persone dello stesso sesso possono essere benissimo considerate una famiglia. Una volta sperimentato che le unioni omosessuali […] sono ‘famiglia’ […] poi queste unioni vengono chiamate ‘matrimonio’, com’è accaduto in Inghilterra o in America per intervento della Corte suprema, vengono cioè equiparate anche sotto il profilo nominalistico. E si risolve così l’ipocrisia».
Il dialogo va certamente coltivato: purché si sottragga alla «necessaria ipocrisia», cui invece preferiamo l’indispensabile chiarezza: qualunque tipo di unione civile che riconosca le coppie omosessuali in quanto tali – altro sono i diritti dei singoli – è un «ponte» a scorrimento veloce verso il matrimonio e include necessariamente le adozioni. Essere pienamente consapevoli di questa realtà è il presupposto ineludibile del confronto e del dialogo.