Capitalismo in riflusso

Duma_russapubblicato su Asia news (www.asianews.it)  4 Novembre 2003

di Vladimir Rozanskij

Mosca (AsiaNews) – Con il clamoroso arresto del presidente della “Yukos” Mikhail Khodorkovskij, avvenuto la mattina del 25 ottobre con grande dispiego di forze in un aeroporto della Siberia, lo sviluppo democratico della Russia post-comunista giunge a un punto di svolta molto significativo: si conclude in qualche modo l’epoca della “democrazia oligarchica” degli anni ‘90, e si afferma in modo ormai irreversibile il sistema della “democrazia centralizzata” del nuovo corso putiniano.

La Russia del terzo millennio si ricongiunge così con le migliori tradizioni della sua storia millenaria: un paese immenso e poco abitato, che si sviluppa attraverso strappi improvvisi e clamorose fughe in avanti, per poi nuovamente adagiarsi in un lungo riflusso, coperto dalla quiete del suo sterminato manto nevoso.

La “mano forte” di Putin

La “fuga in avanti” dei giovani oligarchi alla Khodorkhovskij, in perfetto stile russo, era stata fulminea e decisamente eccessiva. Il crollo del muro comunista aveva spalancato davanti a giovani poco più che ventenni un Eldorado prima soltanto sognato.

Nell’arco di pochissimo tempo, due-tre anni al massimo, da volonterosi attivisti del Komsomol si erano trasformati in miliardari (in dollari), in grado di competere sui mercati finanziari internazionali, speculando con allegria e spregiudicatezza sulle grandi risorse della terra russa: oro, diamanti, petrolio, metalli e altre materie prime sparse su un territorio grande quanto un sesto delle terre emerse.

A tutti era evidente che il gioco non poteva durare: ciò che avviene oggi in Russia era assolutamente prevedibile. La Russia non può sostenere il peso di un’oligarchia così esplicita al suo interno, non perché gli oligarchi siano una cerchia di pochi privilegiati, ma perché in realtà sono troppi: i russi non amano il pluralismo, sono avvezzi al pugno di ferro, che dev’essere indossato da uno solo.

L’elezione-designazione di Vladimir Putin alla presidenza, ha sollevato la popolazione e la società russa dall’angoscioso dilemma di dover scegliere. Ormai le elezioni a tutti i livelli (dalla Duma al consiglio di quartiere) sono diventate, se possibile, più formali e scontate che ai tempi del comunismo e del partito unico.

È il presidente che indica il candidato da votare, e senza neppure fare lo sforzo di pronunciarne il nome: gli stessi candidati si affannano a dichiarare la propria obbedienza e fedeltà; i rari candidati e partiti “di opposizione” sono inesorabilmente destinati a raccogliere poche briciole, buone solo per il folklore interno e la propaganda esterna, per mostrare all’Occidente e al mondo intero qualche faccia di “politico liberale russo”.

Ma “liberalismo” e “democrazia” sono parole ormai solo “da esportazione”, impronunciabili all’interno della Russia. Nei quasi tre anni di regno dell’ex-capo del KGB sono stati chiusi i giornali di opposizione, silenziati i canali televisivi anti-governativi, espulsi, esiliati o arrestati gli oligarchi più influenti dell’epoca eltsiniana, espropriati dei poteri i governatori delle regioni e degli altri “soggetti federali”.

Nella Duma il principale partito di opposizione si è fuso con il “partito del presidente”, lasciando a sinistra i comunisti a rivangare il passato e a destra i liberali a scrivere appelli sui giornali americani, confinati nei loro recinti e guardati a vista da una nuova burocrazia di controlli e forze di sicurezza. Le “strutture di forza pubblica” (KGB/FSB, esercito, polizia, ministero degli interni e difesa, procura generale) sono gestite direttamente dalla presidenza; al governo vengono lasciate più che altro le funzioni di cireneo (quando va bene) e di capro espiatorio (il più delle volte).

Putin, l’uomo senza carisma, ha eseguito un capolavoro: ha assorbito tutte le funzioni politiche nella “mano forte” del capo, senza peraltro apparire un prevaricatore o un violento, anzi, agendo nella massima legalità e quasi nell’anonimato. Tutte le azioni di “normalizzazione” del paese, compresa la limitazione della libertà religiosa in favore della “Chiesa di stato” ortodossa, sono da tutti intese come un intervento dall’alto, “dai massimi livelli”, senza che si possano attribuire in modo formale o diretto al presidente.

Anche nel caso dell’arresto di Khodorkovskij, Putin si è limitato ad affermare “l’autonomia della magistratura” e a imporre al governo di “astenersi dalla discussione sul caso”. È in qualche modo una rivincita della storia: Putin riesce oggi nell’impresa fallita da Mikhail Gorbaciov, che voleva riformare il paese senza eliminare il partito comunista e lo stesso sistema sovietico. Gorbaciov fu tradito dalla volontà di gestire tutto in prima persona, finendo per bruciarsi in modo irreversibile.

A tutt’oggi, Di tutti i leader politici del XX secolo, Gorbaciov è il leader politico del XX secolo meno ricordato dalla popolazione, pur essendo il più celebrato nel mondo; Putin invece è il più efficace e potente dopo Stalin, pur essendo praticamente ancora uno sconosciuto per l’opinione pubblica internazionale. Probabilmente, entrambi sono dei semplici prodotti delle circostanze: allora non poteva non crollare un sistema ormai completamente marcio e senz’anima; oggi non può non ricostituirsi un sistema basato sulla forza e sulla ripresa dell’identità nazionale russa.

L’ideologia del nazionalismo russo

L’aspetto ideologico, infatti, non può essere sottovalutato nella comprensione delle vicende russe attuali. Il comunismo aveva a lungo sostituito l’ideologia nazionale, basata sulla famosa triade zarista “autocrazia, ortodossia e nazionalità”, soprattutto grazie alla vera grande rivoluzione russa, quella staliniana, che aveva riempito gli astratti dogmi di Marx e Lenin con la “carne” del terrore poliziesco, della guerra, dell’economia schiavista del GULag.

Il sistema, basato sulla competizione internazionale con gli Stati Uniti e sulla divisione dell’Europa, ha retto fino all’offensiva reaganiana degli anni ‘80 e all’usura di un’economia sempre più fasulla e arcaica, buona solo per la ricostruzione post-bellica. Ma “fasulla” è stata anche la “privatizzazione” degli oligarchi, gestita dalle giovani seconde linee dello stesso sistema defunto, che ha portato alla Russia solo l’impressione della modernità, ma non un vero benessere e un vero progresso.

La riscoperta dell’identità nazionale, sancita dall’unico apparato ideologico del passato rimasto in piedi (la Chiesa Ortodossa), si è resa necessaria per “congelare” di nuovo il paese in una condizione sociale e politica più consona alla propria conformazione climatica: brevi primavere intervallate da lunghissimi inverni. Come ha detto in questi giorni un politico “liberale”, Boris Nemtsov, la Russia è di fronte a un bivio tipico della sua storia: “o la guerra civile, o un paese di delatori”.

Il sistema della delazione, fondamento sociale della dittatura staliniana, prevede una partecipazione di massa alla retorica moralista dello stato: “era ora che mettessero i ladri in galera”, anche se questo significa dire addio ad ogni speranza di vero sviluppo economico del paese. Meglio la cristiana rassegnazione alla propria marginalità storica, da rivendere magari come “orgoglio etnico” e “superiorità spirituale” nei confronti dell’Occidente e del mondo intero.

Non è un caso che l’arresto di Khodorkhovskij sia avvenuto a pochi mesi dalle nuove elezioni presidenziali che si terranno nel marzo 2004. Lo stesso oligarca aveva dichiarato di voler parteciparvi attivamente, sostenendo in vari modi tutte le opposizioni, sia di destra che di sinistra. Sorprende pure la spettacolarità di questa operazione nei confronti del capo della più grande azienda petrolifera russa, nell’imminenza di un grande accordo strategico tra la sua azienda, la Yukos-Sibneft, e la maggiore azienda petrolifera del mondo, l’americana Exxon.

Comunque vada a finire l’azione della magistratura, l’effetto è ormai assicurato: Putin si garantisce un nuovo mandato plebiscitario, che durerà ancora di più della lunga “stagnazione” brezneviana. Nello stesso tempo, la nuova divisione del mercato mondiale del petrolio, che prevede un’emarginazione degli stessi paesi dell’OPEC, viene ad essere gestita direttamente dal Cremlino.

La deriva populista traspare addirittura dalle misuratissime parole dello stesso Putin, che per il caso Yukos ha indicato come esempio da seguire le “esperienze di speciali misure di lotta alla criminalità esistenti in altri paesi”, e ha dato l’incarico al governo “entro due settimane di presentare proposte in tal senso”. Il giustizialismo come via alla politica e addirittura alla gestione dell’economia, era rimasto l’ultimo baluardo ancora fuori dal controllo presidenziale.

Non c’è russo che non si chieda oggi, alcuni con timore e i più con soddisfazione, “chi sarà il prossimo”: le accuse mosse a Khodorkovskij si possono applicare senza sforzo a qualsiasi azienda media e grande che abbia avuto un minimo di successo nel decennio passato, evadendo il fisco grazie a una legislazione compiacente ora riformata “ad hoc”.

Libertà rimangiate

È la stessa traiettoria percorsa dalla libertà religiosa: la legge gorbacioviana del 1990 ne aveva favorito la diffusione e l’assoluta libertà di azione, permettendo la registrazione di decine di migliaia di comunità piccole e grandi, dalle maggiori confessioni protestanti alle più strampalate sette locali o di importazione; la nuova legge del 1997, resa ancora più iniqua da una serie di disposizioni draconiane negli ultimi due anni, ha permesso di eliminare o ridurre quasi all’inattività la gran parte delle stesse associazioni, a partire da quella più simbolica di tutte (anche se non certo la più numerosa nel paese): la Chiesa Cattolica locale, agenzia “dell’onnipotente” Vaticano, “l’Anticristo” russo.

Lo stesso schema si può applicare alla libertà di parola e di stampa, alla scuola, la sanità, perfino le associazioni sportive: lo stato si riprende oggi tutto ciò che ha dato “in leasing” agli ingenui devoti dell’iniziativa privata, che non hanno fatto altro che offrire in pasto alla dirigenza una selezione naturale delle risorse del paese. I più accorti, al più, oggi possono consolarsi comprando squadre di calcio in Inghilterra.

Un ultimo fattore, che caratterizza questo “riflusso” della società russa, è che tale scivolamento verticale verso la dittatura avviene nella fase di massima concordia esteriore con l’America, l’Europa e il mondo occidentale in genere. Le fortune di Putin in Occidente si sono ingigantite dopo l’11 settembre 2001: l’emergenza della lotta al terrorismo internazionale ha fatto superare anche le ultime perplessità nei confronti del presidente “giustiziere dei ceceni”.

Ma va detto che proprio l’attentato delle Torri ha messo a nudo l’assoluta contraddizione della vita sociale e politica russa: mentre l’opinione pubblica si schierava, in modo più o meno esplicito, dalla parte degli estremisti islamici (uno delle più diffuse riviste religiose ortodosse aveva titolato: “È crollata la torre di Babele”), in politica estera si dava il decisivo “placet” alla guerra in Afghanistan, possibile solo grazie alla protezione geopolitica di Mosca.

Lo stesso schema si è ripetuto anche per la guerra in Iraq (amico tradizionale della Russia), a cui il Cremlino si è opposto in modo così poco convinto da apparire come la “spia americana” nel campo franco-tedesco, ottenendo ogni garanzia di protezione dei propri interessi dell’area, a partire dal petrolio fino alle armi da vendere in Iran e agli stessi fedelissimi di Saddam Hussein.

Rimane da chiedersi come mai l’America, e l’Europa stessa, ritengano così necessario conservare l’alleanza con un paese che si dichiara in prima fila, almeno a parole, nella contrapposizione alla “civiltà occidentale”, e che sogna di ritornare a condizionare il mondo attingendo ai “due forni” dell’Oriente – Cina, India, mondo arabo – e dell’Occidente. Forse una Russia orgogliosa e povera, anche se mette un po’ di paura, conviene di più che una Russia libera e ricca, come forse non sarà mai. Anche il capitalismo globale ha bisogno del suo riflusso storico.