Parla Pietro Verni, presidente dell’Associazione Italia-Tibet: «La tradizione tibetana è a rischio estinzione. Un genocidio culturale pianificato da Pechino e che parte da lontano». Parola di un esperto
di Paolo M. Alfieri
«Se per genocidio culturale intendiamo un preciso tentativo continuato nel tempo di proibire a una cultura di esprimersi liberamente nel suo complesso, allora sicuramente in Tibet siamo di fronte a un fenomeno di questo tipo per mano della Cina».
A parlare è Pietro Verni, tra i più profondi conoscitori della realtà tibetana. Presidente dell’associazione Italia-Tibet, da oltre vent’anni compie viaggi di studio e ricerca in India, Tibet e nella regione himalayana ed è l’unico autore italiano ad aver scritto una biografia autorizzata del Dalai Lama.
Proprio il Dalai Lama ha parlato di «genocidio culturale» ai danni del Tibet, alimentando un acceso dibattito. «A usare per primi tale definizione – spiega Verni – furono due documenti di una Commissione internazionale di giuristi editi tra il 1960 e il 1961, subito dopo la definitiva conquista del Tibet da parte della Repubblica popolare cinese.
In tutti questi decenni c’è stato un tentativo, ahimè riuscito, di un annichilimento della cultura tibetana, sia religiosa che laica. Anche negli ultimi anni, quando la situazione apparentemente sembrerebbe cambiata, con l’apertura a una possibilità di espressione religiosa popolare, in realtà ci troviamo davanti soltanto a specchietti per le allodole confezionati per i turisti. Purtroppo la vera tradizione culturale tibetana è tuttora inibita».
Come si attua nel concreto questo genocidio?
Prendiamo il teatro tibetano, di tradizione completamente diversa dall’opera cinese; ebbene, vi sono stati immessi tutta una serie di caratteri assolutamente sinocentrici. Quanto alla religione, basti pensare che anche le regole interne dei monasteri sono nelle mani dei dirigenti politici cinesi. Lo stesso numero dei monaci è condizionato all’approvazione del Partito e i monaci devono subire delle sessioni di indottrinamento patriottico nelle quali si chiede loro di denunciare pubblicamente le attività «criminali» del Dalai Lama. L’evolversi del buddhismo, così come è stato nell’ultimo millennio, è assolutamente contestato. Sopravvivono solo frammenti dell’antica cultura.
Anche la lingua tibetana rischia di sparire…
Il tibetano è ormai quasi solo un dialetto. Tutto avviene in cinese. Ricordo che le due lingue, così come le rispettive grafie, sono assolutamente inconciliabili. Basti pensare che il cinese è una scrittura ideogrammatica mentre quella tibetana è alfabetica, di derivazione sanscrita, e le lingue parlate sono reciprocamente incomprensibili, come lo svedese e l’arabo. Il tibetano è stato introdotto a scuola come seconda lingua solo di recente; fino alla metà degli anni Ottanta era assolutamente proibito parlarlo e scriverlo nell’ambito scolastico.
Perché Pechino ha questa necessità di annientare la cultura oltre ad attuare la repressione politica?
I due elementi vanno di pari passo. I cinesi capiscono che per avere un controllo totale sulla popolazione tibetana non ci si può affidare soltanto alla repressione politica. Si deve spezzare l’anima, oltre che le gambe, di un popolo. Nel periodo rampante della rivoluzione culturale, i cinesi erano convinti di aver risolto tutti i loro problemi affidandosi alle violenze. Si risvegliarono invece negli anni Ottanta con un popolo tibetano compatto nel non riconoscere l’occupazione e ancora legato alle proprie tradizioni. I cinesi capirono come la repressione da sola non sarebbe bastata. Hanno poi sì aperto il Tibet al turismo, ma cercando di snaturare la cultura locale lasciando visibili solo gli aspetti più folcloristici. Un po’ come se in Italia fosse consentito lo svolgimento di qualche processione religiosa, ma al clero non fosse consentita una vera preparazione al mistero cristiano.
Gli incentivi di Pechino al trasferimento dei cittadini cinesi in Tibet rispondono a questa esigenza di annientamento?
Esistono facilitazioni per i «coloni», sia riguardo alle deroghe sulla politica del figlio unico che ad incentivi economici. Di solito i coloni cinesi non si trasferiscono in Tibet per mettere radici: la loro permanenza media è di sette anni. A nessun cinese piace vivere a quattromila metri e il Tibet è considerato solo una periferia dell’impero: vorrebbero tutti emigrare a Shangai, a Canton, a Pechino. Se vanno in Tibet è solo perché sperano di arricchirsi. Un po’ come succedeva al colonialismo europeo più straccione, tipo quello italiano.
Molti coloni sono stati recentemente oggetto di intimidazioni da parte di gruppi tibetani. Perché?
I cinesi a cui sono stati bruciati i negozi non sono poveracci, ma persone, spesso razziste, che si recano in Tibet con il compito di sfruttare ed emarginare i tibetani, assumendo tutti i posti di responsabilità nella società. Così vengono visti dai tibetani come diretti responsabili della loro marginalizzazione. Anche gli oggetti venduti ai turisti sono tutti di fabbricazione cinese e venduti su bancarelle cinesi.
La Cina tende anche a modificare la storia, sostenendo di aver «liberato» il Tibet…
I cinesi sono entrati in Tibet il 6 ottobre 1950 sfondando sette punti di frontiera e vincendo contro un esercito che rispondeva a un governo. Non esiste alcuna «pacifica liberazione del Tibet». È un po’ difficile liberare qualcuno che non voleva essere «liberato».
Quali sono le caratteristiche principali della cultura tibetana?
Sicuramente l’esperienza del sacro. Il Tibet è stato il cuore più compiutamente e sentitamente spirituale dell’Asia. La koinè culturale tibetana è imperniata sull’esperienza del sacro e della religiosità, che si declinava peraltro in modi molto differenti, dalla superstizione della religiosità popolare alle vette del pensiero metafisico dei grandi pensatori buddhisti. Da questo punto di vista il Tibet tradizionale ha delle analogie con l’Italia pre-moderna.
È un sacro che si riflette anche nell’arte?
Assolutamente sì; non esiste un’arte laica tibetana, tutta l’arte è di matrice religiosa. L’espressione artistica laica si è manifestata in Tibet esclusivamente nel teatro, mentre pittura, architettura, scultura sono tutte arti che prevedevano la raffigurazione dell’elemento religioso.
I turisti cosa vedono realmente della cultura tibetana?
Molto poco. Intanto vedono un Tibet sfregiato dal modernismo architettonico. Lhasa è una città devastata: tutte le tracce dell’architettura tibetana, anche povera, sono state spazzate via da una serie di volgari palazzoni, edifici senza anima. Tutta la zona di Shol, che era l’antico quartiere tibetano ai piedi del Potala (l’enorme meraviglia dell’Asia, residenza storica dei Dalai Lama), non c’è più. Povertà architettonica e arroganza edilizia si mescolano per dare vita a risultati dall’incubo. Ai piedi del Potala i cinesi hanno anche piazzato un Mig russo; proviamo a pensare se fosse accaduta una cosa simile davanti a san Pietro…
Perché il Dalai Lama parla di «genocidio culturale», ma non chiede il boicottaggio olimpico?
Temo che il Dalai Lama, persona dal punto di vista personale e morale di grandissima levatura, sia incappato in un grosso errore di prospettiva politica da cui ha difficoltà a uscire. Ha sperato che una politica di incredibili concessioni unilaterali da parte sua, come la rinuncia a chiedere l’indipendenza, potesse smuovere la «pietas» di Pechino. Questa politica, inaugurata il 17 giugno del 1988 con la «proposta di Strasburgo», non ha portato risultati.
C’è stata una breve stagione, tra il 2002 e il 2007, in cui due inviati del Dalai Lama avevano colloqui con esponenti della gerarchia cinese, ma Pechino ha poi troncato l’iniziativa, sostenendo che «non esiste un problema tibetano di cui discutere». Forse le recenti violenze hanno mandato il messaggio a Pechino che un problema tibetano esiste. Pechino rischia che il percorso della Torcia olimpica si riveli, perdonatemi il paragone, una sorta di Via Crucis. Temo, però, che la Cina non abbia intenzione di cambiare la sua politica di chiusura.
Si può parlare anche di genocidio vero e proprio?
Direi di sì, visto che le ong internazionali sostengono che per effetto, diretto e indiretto, dell’occupazione cinese dal 1950 a oggi sono morti più di un milione di tibetani. Una cifra impressionante, che però «disturba» coloro che fanno affari con Pechino. Così come disturbano altre realtà «scomode», dalla repressione degli uiguri nello Xinjiang a quella dei cattolici e dei praticanti del Falun Gong.
Sua moglie è tibetana; che cosa pensa di quello che accade?
Mia moglie è una «tibetana in collera», come direbbero i cinesi. Si ritiene vittima di una terrificante ingiustizia. Ancora oggi ha gli occhi che le si riempiono di lacrime quando pensa alla «vergogna» di non aver potuto celebrare le cerimonie religiose funerarie di sua madre in Tibet. Probabilmente anche il padre subirà l’«onta» di non poter morire nella sua terra di origine. Mia moglie ritiene che i tibetani abbiano il diritto di vivere da uomini e donne libere nel loro Paese. I tibetani non rinunceranno mai, Dalai Lama o meno, a ritenere fondamentale la richiesta di indipendenza per il Tibet. Fosse anche solo un sogno, è quello che i tibetani continuano a trasmettere alle nuove generazioni.