I leader europei hanno espresso costernazione per l’iniziativa di George W. Bush che il 1° giugno ha lanciato un dialogo a lungo termine tra i 15 Paesi a più alta emissione di gas serra. Il piano, essi dicono, è un’altra tattica diversiva per permettere all’amministrazione Bush di far finta di lavorare con la comunità internazionale sul clima, quando invece non è così.
Tale azione, dicono, distoglie tempo e attenzione dal lavoro difficile che dovrebbe essere fatto invece per il Protocollo di Kyoto. In realtà il piano di Bush segna la fine di Kyoto e l’inizio di un nuovo consenso internazionale che toglie la pressione di Kyoto sui governi.
Peter Zeihan e Bart Mongoven
Il regime di Kyoto
Firmato nel 1997 da oltre 75 Paesi, il Protocollo di Kyoto è il regime internazionale riconosciuto sui cambiamenti climatici. Il Protocollo è un allegato alla Convenzione sui Cambiamenti Climatici del 1992, in cui le parti concordavano essenzialmente sul taglio delle emissioni di gas serra se questo era conveniente per loro. Siccome tagliare le emissioni è molto sconveniente, solo in pochissimi hanno dato seguito al protocollo.
Con Kyoto, ogni parte ha acconsentito di tagliare le sue emissioni per uno specifico ammontare rispetto ai livelli del 1990 entro il 2012 (l’Unione Europea si è impegnata per un taglio dell’8%, gli USA per il 7, il Giappone per il 6). Ma l’accordo scade nel 2012, e a quel punto tutti i partecipanti saranno di nuovo formalmente liberi da qualsiasi impegno. Inoltre il Protocollo non ha previsto restrizioni alle emissioni dei Paesi in via di sviluppo – incluse Cina e India – il che spiega perché i Paesi più poveri lo sostengono con forza.
Sebbene per gli USA Kyoto avesse diversi difetti, è questa mancanza di restrizioni per i Paesi in via di sviluppo che ha reso la ratifica improponibile all’origine. Malgrado il tono dell’attuale dibattito politico negli USA, nel voto del 1997 Repubblicani e Democratici hanno votato all’unanimità per rifiutare qualsiasi trattato sul clima che non includesse impegni dai paesi in via di sviluppo. I senatori John Kerry, Paul Wellstone, Barbara Boxer e molti degli attuali campioni delle questioni del clima erano tra quelli che hanno bocciato Kyoto fin dal suo nascere.
Nel giro di quattro mesi dopo l’insediamento, Bush ha fatto lo stesso, affermando che gli Stati Uniti non prendono parte in colloqui su un trattato per il quale non hanno interesse.
Sorprendentemente, la reazione globale all’annuncio di Bush fu di grande sorpresa. Bush è diventato un pariah dell’ambiente sia in casa sia nel mondo, con Greenpeace che lo ha rinominato il “Texano Tossico” (Toxic Texan) e con i leader europei a fare pressioni per far riconsiderare la questione agli USA.
La logica europea
Dal punto di vista dell’Europa, portare gli USA in un negoziato sui cambiamenti climatici è molto più importante che forzarli a tagliare le emissioni entro il 2012. Dato che gli USA sono la singola fonte più importante per l’emissione di CO2, qualsiasi accordo che non abbia gli Stati Uniti coinvolti in qualche modo, semplicemente non può ottenere lo scopo ultimo: ridurre le emissioni globali al punto di escludere almeno il peggiore scenario del riscaldamento globale.
Per portare gli USA nei negoziati, allora, i leader del G8 hanno convenuto nel 2005 a Gleneagles (Scozia) di smettere le pressioni per una adesione americana a Kyoto in cambio di una accettazione degli USA di prendere parte a discussioni internazionali sul tema. I leader europei speravano in questo modo di coinvolgere gli USA nei più importanti negoziati per un trattato più ampio e vincolante destinato a succedere al Protocollo di Kyoto dopo che questo scadrà nel 2012.
Gli attivisti ambientalisti USA hanno iniziato a usare tattiche in sintonia con la strategia europea. I sostenitori di Kyoto negli USA hanno dato per scontato che con Bush gli Stati Uniti non accetteranno mai una politica di riduzione dei gas serra per motivi ambientali. Il trucco, perciò, era quello di costringere Bush a farlo per altri motivi. I gruppi ambientalisti hanno pensato che se l’industria fosse stata costretta a fare i conti con regolamenti legati al clima a livello locale e statale, allora il business – normalmente ostile alle politiche di riduzione dei gas serra – avrebbe chiesto all’amministrazione di armonizzare la legislazione. Questo, nel pensiero degli ambientalisti, avrebbe fatto entrare negli USA una politica sui gas serra dalla porta posteriore.
Il ragionamento ambientalista era semplice: una delle cose che al business non piace affatto è l’incertezza, ed avere decine di regimi di competizione che cambiano continuamente è il massimo dell’incertezza. Perciò gli ambientalisti credevano che l’industria avrebbe avuto più successo di loro nel fare lobby sull’amministrazione per una politica nazionale unificata in fatto di emissioni di gas serra. La strategia appariva sensata e infatti le direttive a livello locale e statale sono proliferate, con leggi in 15 stati che ora obbligano l’industria ad alcune azioni legate ai cambiamenti climatici, leggi che la Corte Suprema ha già definito in accordo con la Costituzione.
Alla fine però, sia i gruppi ambientalisti americani sia i governi europei hanno fatto male i loro conti. I gruppi americani pensavano che il desiderio dell’industria per una politica unitaria, conducesse gli industriali verso Kyoto, invece ha portato l’industria a Washington. Gli europei pensavano che far cadere la discussione su Kyoto I avrebbe portato Washington a partecipare a Kyoto II, e invece ha portato Washington verso il Pacifico.
Il contrattacco americano
La storia ricorderà il 2007 come l’anno in cui gli Stati Uniti hanno perso la loro infame posizione di principali emettitori di gas serra a favore della Cina, un evento che era inevitabile da anni. Dal punto di vista degli USA, perciò, qualsiasi accordo sulla limitazione di gas serra che voglia avere successo, non dipende dalla partecipazione di Washington, ma da quella di Pechino.
Per questo Bush ha impegnato Cina, India, Australia e Canada e anche uno scontento Giappone – luogo di nascita del Protocollo di Kyoto – in negoziati separati dal sistema di Kyoto. Chiamata la Asia-Pacific Partnership on Clean Development and Climate (Partenariato dell’Asia-Pacifico su Sviluppo Pulito e Clima), questa strategia evita di porre limiti rigorosi alle emissioni, che americani, cinesi e indiani non vogliono e che si sono rivelati impossibili da conciliare con la politica delle risorse di australiani e canadesi.
Questo accordo invece si concentra sulla condivisione di tecnologie che riducono le emissioni di gas serra, specie nei Paesi in via di sviluppo; inoltre offre alle compagnie che stanno sviluppando tecnologie innovative quanto a efficienza un più ampio mercato per i loro prodotti. Tra queste tecnologie sono fondamentali il carbone pulito, il nucleare, il sequestro/cattura di carbonio e le celle combustibili.
All’inizio gli europei hanno visto la “direzione Pacifico” come una tattica diversiva, ma l’hanno considerata accettabile se l’obiettivo rimaneva intatto, ovvero il coinvolgimento degli USA su Kyoto.
Anche questo è stato un calcolo sbagliato
In fondo, l’industria americana e l’amministrazione Bush credono che entrare in un regime internazionale porta soltanto maggiore incertezza, considerato che sia la visione ideologica sia l’architettura pratica non solo hanno origine in Europa ma sono anche disegnate esplicitamente per l’Europa.
Così, andando avanti l’unico modo che può rassicurare l’industria americana che i regolamenti non cambino costantemente – punendo gli investimenti USA e premiando a loro spese le compagnie europee – non è quello di entrare in un regime sul clima, ma quello di idearne uno in casa. Ciò significa abbandonare Kyoto in ogni sua forma immaginabile, e lanciare un programma fondamentalmente nuovo.
La comunità americana degli affari aveva bisogno che Bush presentasse una politica del clima chiara e certa. Alla fine di maggio, l’unica “certezza” era che gli Stati Uniti avrebbero potuto accettare una qualche nuova versione di Kyoto, e che la questione dei cambiamenti climatici sarebbe rimasta saldamente nelle mani dei leader europei. L’annuncio di Bush del 1° giugno ha fatto saltare tutto. Bush ha ucciso Kyoto ed ha assicurato chiarezza di regolamenti per gli affari lanciando un sistema internazionale che gli USA influenzeranno pesantemente, se non addirittura controlleranno.
Per gli europei la principale preoccupazione è che il piano del Pacifico non attiri soltanto gli americani ma tutte le maggiori economie del Pacific Rim. Paragonate alle rigide attese per ogni piano che rimpiazzerà Kyoto – il cancelliere tedesco Angela Merkel ha proposto una riduzione di emissioni del 50% entro il 2050 – la preferenza di cinesi e indiani per il piano del Pacifico è scontata.
Infatti, un libro bianco sull’ambiente presentato dalla Cina il 4 giugno è in perfetta sintonia con il piano Bush mentre quasi ignora l’esistenza di Kyoto. Con l’Australia e il Canada che non intendono separare i loro piani sul clima da quello degli Stati Uniti, la partecipazione a qualsiasi Kyoto II rischia di essere limitata alla sola Europa (l’Europa è la sola firmataria di rilievo che sta mettendo in pratica quanto scritto nel Protocollo di Kyoto). Ma a questo punto ci sarà una alternativa chiara che porrà costantemente la domanda: Perché l’Europa non si unisce al programma?
La vita dopo Kyoto
Il prossimo lavoro di Bush è semplice: aspettare finché gli europei dichiareranno morto Kyoto e Kyoto II (il Protocollo era già stato ferito mortalmente al summit del G8 di Gleneagles, Scozia) e quindi presentare all’industria americana per la fine del 2008 una politica basata sui negoziati con gli altri 14 maggiori emettitori. Questa politica non avrà nulla a che fare con Kyoto e non forzerà l’azione di altri Paesi.
Naturalmente c’è il dettaglio che se l’amministrazione Bush riuscirà a raggiungere un accordo prima del 2009, allora il prossimo presidente – a qualunque partito appartenga – si insedierà al potere con un accordo internazionalmente accettabile già operativo. Anche un presidente che pure avesse una passione per Kyoto sarebbe folle a ritirarsi da un accordo che mette gli Stati Uniti in una posizione di comando, con tutta l’Asia al suo fianco (non per niente Bush ha già trovato il sostegno della Boxer, senatore Democratico della California, che non è esattamente in linea con il presidente).
In conclusione: gli europei non stanno semplicemente avvicinandosi a una sconfitta politica, ma soprattutto al fallimento strategico dell’Unione di avere una politica estera comune. Kyoto e le questioni ambientali sono da tempo l’unico programma significativo dove l’Unione è riuscita a far sentire la sua voce a livello globale.
Se l’Europa continuerà a sostenere Kyoto ora, non solo resterà isolata, ma dovrà affrontare un aspro dibattito interno sui motivi per cui ha tagliato drasticamente le emissioni quando nessun altro lo ha fatto. Diversi governi europei hanno già iniziato a fare ricorso alla Commissione Europea sulle direttive legate al clima che considerano troppo restrittive, mentre una nuova bellicosità polacca ha portato Varsavia a minacciare il veto su questo e su altre questioni.
Per quelli che credono che solo i limiti alle emissioni, così come nel Protocollo di Kyoto, fermeranno il riscaldamento globale, questo è un disastro immane. Quelli che invece credono che qualsiasi politica globale di successo deve includere i maggiori emettitori, vedono questo come un primo passo nella giusta direzione, cosa che non è mai stato Kyoto.
(A.C. Valdera)