L’amministrazione della comunione in bocca a fedeli in ginocchio da parte di Benedetto XVI «non è un esperimento, ma qualcosa sulla quale il Santo Padre ha sicuramente riflettuto, pregato e si è consultato. Si tratta di qualcosa che si poteva già trovare nei suoi scritti da cardinale, quando insisteva sulla riverenza dovuta al Santissimo. Lui, quindi, ha fatto un gesto che poi è quello che la Chiesa ha seguito in precedenza per secoli». Lo afferma il Segretario della Congregazione per il Culto Divino, mons. Malcolm Ranjith Patabendige, in una intervista rilasciata alla rivista “Radici Cristiane” (n. 38, ottobre 2008).
In un altro passaggio dell’intervista mons. Ranjith sottolinea il collegamento esistente fra la coerenza cristiana nella vita di ogni giorno e la corretta celebrazione eucaristica: «la celebrazione è come un ponte fra la fede e la vita. Più intensa la celebrazione e più coerente sarà la vita cristiana. Non c’è solo lex orandi, lex credendi, ma anche lex vivendi.
Cioè, faccio il bene ad altri perché c’è la chiamata di Cristo a celebrarlo e a viverlo. Se si trascura la fede e la sua celebrazione, si arriva a una dimensione sociale priva di contenuto, senza ragion d’essere, senza potere di convinzione, che diventa formalismo e banalità. Non si avrà il coraggio di essere cristiani coerenti se si riduce l’Eucaristia a mera esperienza orizzontale, senza la dimensione verticale».
Dopo aver ricordato che la modalità di ricevere la Comunione nella mano è solo una pratica permessa dalla Chiesa con un particolare indulto ma che quella ordinaria continua ad essere la ricezione dell’Eucaristia in bocca, mons. Ranjith sostiene che la prima forma, oggi divenuta la più frequente, collide con il senso del sacro di popoli come quelli asiatici, ostacolando oggettivamente una sana inculturazione in essi della fede.
A proposito del profondo rispetto che non di rado si manifesta nei giovani quando fanno le adorazioni eucaristiche, come si è visto a Sidney nella GMG, il presule sottolinea un paradosso: «Nel Concilio Vaticano II ci siamo chiesti spesso come essere attenti a leggere i segni dei tempi, del resto, una bellissima espressione. Ma entriamo in contraddizione con noi stessi quando chiudiamo i nostri occhi e le nostre orecchie a ciò che avviene attorno a noi.
Esiste oggi una grande domanda di spiritualità, di coerenza, di sincerità, di una fede non solo proclamata ma anche vissuta. Ciò lo vediamo soprattutto nelle giovani generazioni. Mi piace a volte trovare giovani sacerdoti e seminaristi che vogliono andare in una direzione di ricerca dell’Eterno.
Noi altri, che siamo della generazione del Concilio Vaticano II, che ha proclamato sempre il dovere di essere attenti ai segni dei tempi, non dobbiamo proprio ora diventare ciechi e sordi. I segni dei tempi cambiano con la storia. Se siamo attenti non solo ai segni dei tempi del sessantotto ma anche a quelli di oggi, allora dovremo aprirci a questo fenomeno, rifletterci, esaminarlo».
«È strano ed è triste – continua – che in un mondo con tanti giovani delusi dalle banalità, stufi della superficialità, del materialismo consumista, molti sacerdoti e suore vadano vestiti in borghese, abbandonando il loro segno di appartenenza a una realtà diversa. Leggere i segni dei tempi significa discernere che ormai i giovani cercano l’Eterno, cercano un obiettivo per cui sacrificarsi, che sono pronti e generosi.
È dove ci sono queste disposizioni che dobbiamo essere presenti. Altrimenti parliamo in nome del Concilio, critichiamo tutti gli altri in nome del Concilio, ma siamo incoerenti quando non riusciamo a leggere questi segni dei tempi», ha concluso mons. Ranjith. (J. M. M.)