Il «Jihad» nel pensiero islamico contemporaneo

La Civiltà Cattolica n.3791

7 giugno 2008

 di Giovanni Sale s.j.

In questi ultimi anni, soprattutto dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, il termine. jihad, attraverso l’uso martellante fattone dai media, è entrato a far parte del linguaggio quotidiano e dell’universo immaginario. Per gli occidentali esso è sinonimo di guerra totale, illimitata, senza regole nei più genera paure ancestrali, ricordi di un passato segnato dalla contrapposizione e dalla violenza. Jihad, al pari di altri termini che provengono da un contesto religioso, ha un significato poliedrico, fluttuante, legato alle vicende politico-religiose che ne hanno accompagnato la diffusione.

Letteralmente, in arabo, significa «sforzo»; nel contesto del Corano, invece, assume il significato di «darsi da fare», «impegnarsi» per la religione, per la causa di Dio. La complessità del termine non sorprende se si considera la centralità che esso ha sempre avuto nel pensiero religioso musulmano e il lungo arco di tempo durante il quale è stato usato.

In ogni caso non è facile determinare in modo univoco il significato dì jihad; in generale possiamo dire che esso è stato sempre oggetto di interpretazioni diverse e spesso divergenti da parte di scuole religiose o di differenti orientamenti confessionali. Il profeta Maometto non dichiarò mai esplicitamente un jihad; tuttavia le numerose battaglie che intraprese contro gli infedeli rappresentarono il prototipo del jihad perfetto.

La lunga storia delle conquiste islamiche non ci aiuta a capire che cosa sia propriamente il jihad: infatti quelle più importanti (VII e VIII secolo) soltanto successivamente furono reinterpretate secondo tale concetto; di fatto non sappiamo come fossero percepite dai musulmani di quei tempi. Lo stesso discorso vale per le guerre successive, combattute per lo più contro altri musulmani.

Possiamo dire che esistono due modi differenti di intendere il jihad: uno più rigorista, ricalcato sulle fonti antiche e, in particolare, sui testi coranici; l’altro più liberale e «modernista», che interpreta tale concetto sulla base di categorie moderne. Secondo questa seconda tendenza (definita anche irenica), il jihad è totalmente pacifico e indica il combattimento spirituale del fedele per adeguare la propria vita ai precetti religiosi. Tale definizione vanta precedenti importanti tra le fonti classiche, in particolare quelle di tendenza mistica; oggi è fatta propria da gran parte degli intellettuali islamici che vivono in Occidente o che insegnano nelle università occidentali.

Gli islamici che invece interpretano il jihad alla luce della tradizione classica, associandolo quindi all’idea della guerra, ne mettono in evidenza l’elemento sia difensivo sia offensivo, ambedue orientati alla proclamazione della verità dell’islàm e alla purificazione dell‘umma musulmana.

Va sottolineato, però, che per la maggior parte dei teorici del jihad esso dev’essere dichiarato in modo legittimo dall’autorità competente: vale a dire dal capo supremo della comunità religiosa e in relazione a una questione ritenuta di importanza vitale per l’intera comunità musulmana. Quando esistono tali condizioni, il jihad per i fedeli musulmani ha valore quasi assoluto e rientra nella categoria di «guerra giusta».

Tale posizione non è, però, oggi accolta dai fondamentalisti radicali. In ogni caso, per comprendere il significato di jihad è necessario analizzare i testi islamici. In questo articolo faremo riferimento soltanto alle opere e al pensiero dei maggiori pensatori e ideologi islamici del XX secolo e di quelli contemporanei, rimandando per il periodo classico ad altri interventi pubblicati sulla nostra rivista (1).

Il «jihad» spirituale o irenico

Già nei primi decenni del Novecento nei maggiori centri del pensiero musulmano in Egitto, India, Pakistan, alcuni intellettuali o giuristi «modernisti» cercarono di reinterpretare secondo categorie moderne, comprensibili anche a persone non di fede islamica, la tradizionale nozione di jihad. In particolare, in Egitto Muhammad Abduh e il suo discepolo Rashid Rida già nei primi anni del Novecento elaborarono, facendo anche riferimento alla tradizione, nuovi approcci interpretativi al concetto di jihad, come risulta chiaramente dalle loro fatwa.

Essi conferirono un carattere prettamente spirituale a tale nozione, anche se la loro dottrina non va confusa con quella elaborata nei secoli precedenti dai mistici sufi, conosciuta come «grande jihad». Per Abduh e Rida il jihad va inteso soprattutto come proclamazione della verità, come diritto inalienabile dei musulmani ad annunciare la dottrina del Profeta. L’unica forma di guerra consentita, secondo loro, è quella difensiva, nel caso, cioè, che i «veri credenti» vengano attaccati dagli infedeli.

Tale definizione di jihad si allontanava da quelle classiche che privilegiavano il momento bellico. In realtà, essa rispondeva, in quel periodo, anche a scopi apertamente apologetici: definire il jihad in senso unicamente spirituale-difensivo era un modo di replicare ai missionari cristiani, i quali accusavano l’islàm di essere una «religione della spada»: invece, secondo loro, la religione islamica aveva come obiettivo principale la convivenza pacifica con le altre credenze e intendeva lavorare per la pace tra i popoli.

Tale impostazione irenica del jihad, come ricordato, già nei primi decenni del Novecento non era condivisa da una buona parte degli ambienti islamici tradizionalisti. Le critiche mosse da più parti alle tesi di Rida erano radicali e a volte andavano al fondo del problema: se il jihad si può combattere soltanto in forma difensiva, come andrebbero interpretate le prime conquiste musulmane a partire da quelle effettuate da Maometto?

In modo ancora più ardito, da parte di altri si obiettava: esiste una qualche analogia tra il modo con cui gli imperialisti europei trattano i loro sudditi islamici e il modo in cui si comportarono nel tempo passato i musulmani invasori? Va ricordato che tali interrogativi sono abbastanza rari nella letteratura islamica sia classica sia moderna, in quanto le prime conquiste, in particolare quelle operate dal Profeta, sono considerate alla stregua di miracoli o atti prodigiosi, aventi come fine di confermare la verità dell’islàm e del Corano. Perciò raramente tali questioni furono sottoposte al vaglio critico.

Rida però nei suoi scritti risponde puntualmente a tali domande, anche se con un ragionamento un poco tortuoso, facendo riferimento alle fonti coraniche e alla storia dell’islàm. Da un lato egli afferma che le prime battaglie combattute dal Profeta erano prevalentemente difensive, poste in essere cioè per difendere contro i pagani la verità dell’islàm; dall’altro lato, invece, egli affermava, per spiegare gli attacchi offensivi condotti contro alcune popolazioni, che a quell’epoca la guerra era un comportamento piuttosto usuale tra i popoli; sicché non è possibile parlare a tale riguardo di «aggressione», nel senso moderno della parola.

Secondo Rida, perfino le guerre combattute successivamente dagli islamici contro i bizantini furono semplicemente difensive, poiché questi, a suo avviso, intendevano cacciare gli arabi dai loro territori spingendoli verso zone desertiche.

Insomma, manipolando la verità storica e interpretandola secondo le proprie esigenze dottrinali, l’intellettuale egiziano riteneva che nella maggior parte dei casi i musulmani fossero stati obbligati a combattere i popoli confinanti, perché questi impedivano ai musulmani di proclamare la verità: «I musulmani — egli scrive — usarono la forza soltanto quando si trovarono in difficoltà o quando era assolutamente necessario, poiché volevano offrire l’islàm ai popoli, e se questi avessero accettato sarebbero stati assimilati, e se rifiutavano allora prelevavano una piccola jizya […] e lasciavano loro la libertà personale, le proprietà e la loro religione» (2).

Tale interpretazione irenica del jihad, sebbene non fosse seguita dalla maggior parte dei giuristi islamici, i quali su tale materia si orientavano secondo gli insegnamenti della tradizione, ebbe un grande influsso sui nuovi movimenti di rinascita islamica, come, ad esempio, i Fratelli Musulmani e successivamente per il gruppo indo-pakistano che si ispirava al grande ideologo islamico A. al-Mawdudi.

L‘organizzazione dei Fratelli Musulmani fu fondata alla fine degli anni Venti da H. al-Banna, giovane insegnante di orientamento tradizionalista e fin dall’infanzia attratto dalla spiritualità e dalla mistica sufi. L’organizzazione sin dagli inizi si impegnò in modo militante a favorire la rinascita nel mondo arabo dell’islàm delle origini e ad incoraggiare la ripresa degli studi dei suoi testi fondamentali. Esso certamente fu uno dei movimenti che maggiormente negli anni successivi contribuì allo sviluppo dell’islàm radicale e movimentista in diversi Paesi arabi.

Nel suo libretto di propaganda al-Banna, a proposito del jihad, afferma perentoriamente che esso ha carattere strettamente difensivo e correda tale affermazione con diverse citazioni tratte dal Corano e dagli hadith (detti) tradizionali. Verso la fine del suo opuscolo, l’autore si pone la seguente domanda: «Per che cosa combattono i musulmani?».

E risponde: «Dio non ha obbligato i musulmani aljibad né come strumento di aggressione, né come veicolo dei loro desideri personali, bensì per proteggere la proclamazione dell’islàm, come garanzia di pace, e come strumento per realizzare la grande missione del cui fardello si sono fatti carico i musulmani; ossia la missione di gui­dare il popolo nella verità e nella pace» (3).

Allo stesso tempo, però, egli mette in guardia i musulmani dal lasciarsi fuorviare dalle false dottrine (come quelle propagate dagli occidentali) e di essere sempre pronti a combattere per l’islàm, ma avverte, citando il Corano: «Se [i nemici di Dio] preferiscono la pace, anche tu preferiscila. E confida in Dio».

Il maggior rappresentante di questa tendenza fu però il pensatore indo-pakistano al-Mawdudi, a cui si deve l’elaborazione di gran parte del quadro teorico della reviviscenza musulmana della seconda metà del XX secolo. Il suo libro sul jihad, intitolato Al-Jt-hadfi al-islam, contribuì in quegli anni a propagare all’interno del mondo islamico una concezione irenica della «guerra santa»; su questo trattato inoltre si formò un’intera generazione di islamisti radicali.

Al-Mawdudi nel suo scritto innanzitutto critica con pungente ironia le più comuni raffigurazioni occidentali del jihad (considerato come guerra aggressiva e brutale) poste in circolazione da missionari cristiani allo scopo — scrive l’autore — di creare divisione all’interno della comunità islamica e rendere più dura l’occupazione delle grandi potenze coloniali.

Per l’ideologo indopakistano il jihad è insieme annuncio della vera religione di Allah e impegno civile per creare un mondo più giusto e vivibile. «Che cosa abbiamo a che fare, signori, con il combattimento? — egli scrive — Siamo semplici missionari che proclamano, e invitiamo il popolo alla religione di Allah, la religione della sicurezza e della pace. […] che cosa abbiamo a che fare con il combattimento con la spada? Dio proibisce qualsiasi rapporto con la spada! Salvo quello di proteggerci quando qualcuno ci attacca» (4).

Secondo la prospettiva di al-Mawdudi, insomma, combattere il jihad significa farsi carico della causa di Dio, opporsi alla tirannia dell’uomo sull’uomo, liberandolo da ogni ingiustizia e ridandogli il posto che gli compete nella creazione. Insomma il jihad è soprattutto lotta di liberazione, lotta per la giustizia, lotta per la pace universale. Da questo punto di vista è diritto e insieme responsabilità dei musulmani denunciare e combattere la corruzione e le storture dell’attuale sistema sociale, segnato dalla violenza, dall’egoismo e dalla disuguaglianza.

Al-Mawdudi invita tutti i musulmani a impegnarsi in questa lotta per cambiare e migliorare il mondo: per far questo è però necessario instaurare innanzitutto lo Stato islamico e applicare interamente la legge coranica, voluta da Dio per il bene di tutti gli uomini.

Tale concezione del jihad, come detto, si discosta profondamente dalla dottrina classica e da ciò che generalmente era insegnato nelle scuole coraniche. Di fatto, è stato notato, nel testo di al-Mawdudi non sono mai presi in considerazione i versetti coranici normalmente associati dalla letteratura classica al jihad e soltanto vagamente si fa riferimento alle vicende della storia politica e militare musulmana: egli preferisce portare avanti il suo discorso su un piano eminentemente teorico, partendo da alcuni presupposti di carattere ideologico, ispirati per lo più alle dottrine socialiste, o pseudomarxiste, molto in voga in quegli anni anche tra gli intellettuali islamici, per poi arrivare alle conseguenze di cui si è detto: l’instaurazione cioè dello Stato islamico.

Nel suo scritto anche al-Mawdudi si occupa della questione disputata sulla natura delle conquiste islamiche dei primi secoli. Se il jihad, egli si chiede, è essenzialmente difensivo come si spiegano le grandi conquiste musulmane dei primi secoli? Esse avevano lo scopo di soggiogare altri popoli al dominio dei capi islamici? A tale proposito l’autore imposta il suo discorso sulla base di due criteri: la percezione che della guerra avevano i non musulmani e, al contrario, gli obiettivi che i musulmani attraverso questa intendevano raggiungere.

Egli ammette che i non musulmani considerarono all’inizio i nuovi conquistatori come «imperialisti», poiché subivano il dominio dei nuovi padroni, ma, quando questi cessarono di combatterli e di molestarli, «fu loro chiaro l’intento dei musulmani e la ragione per cui erano usciti dalla loro patria.

Dopo di che si resero conto del carattere totalmente rivoluzionario della visione che essi desiderano diffondere propagandando il loro sistema di credenza ai quattro angoli del mondo» (5). Per cui, aggiunge al-Mawdudi, i primi conquistatori musulmani non possono essere tacciati di colonialismo o di imperialismo, come lo sono invece le potenze coloniali del XX secolo, in quanto loro scopo primario era annunciare le credenze dell’islàm e la libertà.

«Jibad» difensivo e «jihad» combattente

Con il successivo sviluppo dell’islàm radicale in diversi Paesi arabi, e in particolare in Egitto, compaiono, a partire dagli anni Sessanta, nuove interprelazioni del jihad orientate non più su posizioni ìreniche, ma piuttosto militanti e tendenzialmente combattive. La personalità più significativa da questo punto di vista è l’egiziano Sayyid Qutb, che, a pieno titolo, può essere considerato il fondatore del movimento islamico radicale.

Egli proveniva da un ambiente laico e da giovane studente aveva lavorato come critico letterario. Nel 1949 si recò negli Stati Uniti, dove visse alcuni anni: tale esperienza modificò completamente il suo modo di pensare, facendogli riscoprire le proprie radici islamiche. Ritornato in patria prese contatto con i Fratelli Musulmani e nel giro di pochi anni divenne il principale teorico del movimento.

Come gran parte degli islamisti radicali, sotto il regime di Nasser fu più volte condannato a lunghe pene detentive. Si è detto, infatti, che l’esperienza del carcere fu l’incudine dove si forgiò l’islàm radicale in Egitto (6).

Qutb scrisse buona parte dei suoi testi e commentali durante gli anni di prigionia. Nel 1965 fu scarcerato e nuovamente arrestato quando diede alle stampe la sua opera più importante, Pietre miliari sulla via, considerata dall’autorità governativa sovversiva e antistatale. Incolpato ingiustamente di aver attentato alla vita del presidente Nasser, fu condannato a morte nel 1966 e giustiziato. Per la maggior parte dei Fratelli musulmani divenne un martire della verità, e le sue opere ebbero grande diffusione tra gli islamici radicali.

Nel suo testo fondamentale egli afferma che, a eccezione dell’islàm, tutte le grandi ideologie del XX secolo hanno fallito i loro obiettivi. Denuncia però che il vero islàm è stato tradito dai responsabili degli Stati e dalle élites attualmente al potere, ma ritiene che esso viva ancora nel cuore dei credenti. È dunque necessario, afferma, che i musulmani facciano rinascere l’islàm e combattano «la barbarie» attuale, come a suo tempo fece il profeta Maometto.

Egli invita i musulmani a ritornare all’islàm delle origini, epurandolo da tutte le escrescenze e le contaminazioni moderne, volute per lo più da interessi di parte. La sua dottrina sul jihad si fonda sui versetti coranici di carattere bellico e sulla storia musulmana delle origini. Secondo Qutb, il jihad è un «programma progressivo» che passa da uno stadio a un altro in modo razionale.

Con questo egli intende dire che sulla base delle prescrizioni coraniche c’è un divenire, uno sviluppo logico, che accompagna la progressione del. jihad, per cui si va dalla proclamazione pacifica della verità alla guerra su scala limitata, per difendere i musulmani minacciali o per vendicare i torti subiti, fino alla stadio finale della guerra illimitata. Insomma, per Qutb, il jihad ha due facce simmetriche: una difensiva e l’altra aggressiva.

Egli, circa quest’ultimo aspetto, aggiunge che, sebbene il jihad possa essere offensivo, non è però mai coercitivo negli obiettivi che intende perseguire. In sostanza esso è lo strumento mediante il quale i musulmani garantiscono che la proclamazione del messaggio dell’islàm sia ascoltato, sbarazzando il mondo da strutture e poteri che ostacolano la proclamazione pacifica della verità, «il Jihad— egli scrive — è necessario per la proclamazione, poiché i suoi obiettivi sono annunciare la liberazione dell’uomo in modo che affronti la realtà presente con strumenti equipollenti in ogni aspetto, e non basta una proclamazione di carattere ipotetico o teorico, siano le terre islamiche sicure o minacciate dai popoli limitrofi».

Egli, inoltre, ritiene il jihad parte integrante della struttura dell’islàm stesso, anche se è molto attento a non confondere il jihad offensivo con la guerra ordinaria: «I1 jihad islamico è una realtà in sé e non ha alcuna relazione con la guerra moderna: né per le sue motivazioni, né per la conduzione. Le motivazioni del jihad affondano le radici nell’essenza stessa dell’islàm, nel suo vero ruolo nel mondo e negli altissimi princìpi che Dio ha dettato»  (7)

Per alcuni aspetti Qutb si avvicina al pensiero di al-Mawdudi, soprattutto quando parla di jihad nel senso di proclamazione della verità di Dio e di liberazione integrale dell’uomo: temi questi molto presenti nella letteratura politica di quegli anni. Altri aspetti invece connessi tradizionalmente al pensiero jihadista, come, ad esempio, l’ampliamento del territorio dell’islàm e la difesa dei suoi confini, non sembrano interessare molto il nostro autore.

Forse, è stato detto, poiché risultava difficile o impossibile definire con certezza i confini reali della umma musulmana, considerato anche il fatto che alcuni Governi musulmani, secondo il pensatore egiziano erano da considerarsi apostati e quindi fuori della comunione islamica. In quegli anni per i musulmani radicali, la questione più urgente non era la difesa dei confini dell’islàm, quanto la proclamazione dell’islàm puro, non contaminato da costumi e da mentalità occidentali. Questo spiega perché fino agli anni Settanta il problema di Israele non fosse ritenuto dagli islamisti radicali un problema grave e urgente, come avvenne invece nei decenni successivi.

Gli anni Ottanta e Novanta furono gli anni dell’affermazione a livello transnazionale dell’islamismo radicale, non più circoscritto a piccoli gruppi di intellettuali o combattenti per la fede, ma divenuto ormai movimento di opinione capace di mobilitare parte delle masse popolari arabe, orientandole verso la causa islamista. Il primo Paese a scegliere la soluzione rivoluzionaria per l’instaurazione di uno Stato integralmente islamico fu l’Iran, che fungeva in quegli anni da punto di riferimento del movimento islamico internazionale, in ambito sia sciita sia sunnita.

Tale mutamento fu dovuto, almeno in parte, al fallimento della cosiddetta politica di modernizzazione, ispirata a modelli occidentali, portata avanti, a partire dagli anni Cinquanta, da leader che in modo autoritario avevano imposto una sorta di laicismo di Stato e in buona parte disatteso le promesse di riscatto sociale degli strati più deboli della popolazione, sulle quali si era fondata per diversi anni la propaganda di regime.

L’intrinseca debolezza di questi sistemi si manifestò con evidenza nella guerra dei 6 giorni combattuta nel giugno del 1967 tra Israele e gli Stati arabi limitrofi — Egitto, Giordania e Siria — e conclusasi con la sconfitta degli eserciti arabi e con l’occupazione da parte del piccolo Stato di Israele di varie porzioni di territorio arabo.

Tale guerra fu la causa della cosiddetta «infelicità araba» (8); essa di fatto mostrò l’intrinseca inconsistenza di tali regimi autoritari e la loro incapacità di rispondere alle aspettative di chi fino ad allora li aveva appoggiati.

Secondo molti musulmani, era chiaro che bisognava cambiare rotta e ridare nuova forza e nuove idealità alla causa nazionale araba; per gli islamici radicali, al contrario, bisognava abbattere tali regimi atei e corrotti e rifondare lo Stato sulla sharia. Quando poi il presidente egiziano Sadat negli anni 1977-79 intavolò negoziati di pace con Israele per recuperare i territori occupati, egli fu accusato dai fondamentalisti di tradire la causa araba e divenne l’obiettivo principale della loro propaganda politica. Sadat, come è noto, fu assassinato da un gruppo di Fratelli Musulmani il 6 ottobre 1981.

Subito dopo l’assassinio, la polizia, durante una perquisizione effettuata nelle sedi e nelle abitazioni di alcuni capi islamici, trovò un importante documento di propaganda politica intitolato «II dovere trascurato», scritto da M. al-Salam Farag, pubblicato successivamente. Il contenuto di questo documento è di somma importanza per constatare i cambiamenti verificatisi all’interno del movimento fondamentalista islamico a 15 anni dalla morte del loro primo ideologo, Sayyid Qutb.

In questo testo il tema déljthad occupa un posto preminente. Mentre per Qutb il jihad era un proclama di liberazione di carattere palingenetico, diretto al mondo intero, per Farag, invece, è lo strumento che nel prossimo futuro permetterà ai musulmani di dominare il mondo e di ristabilire il califfato, abolito da M. Kemal Atatùrk nel 1924. Farag nel suo scritto affronta direttamente le questioni cruciali concernenti l’islamismo radicale; nel far questo, a differenza dei suoi predecessori, egli non è minimamente condizionato da suggestioni ideologiche di matrice occidentale, quali il marxismo e il socialismo.

Per lui, ìl jihad è un imperativo di carattere globale indirizzato alla conversione del mondo intero alla dottrina del Corano. Su questa materia, Farag, a differenza di Qutb, non ammette l’idea di una libera scelta da parte delle persone tra islàm e miscredenza; anzi egli intende combattere direttamente la miscredenza, considerata un’offesa al comandamento di Dio. Dopo la conquista di tutti i popoli all’islàm, questa sarà la sola religione praticata dall’umanità.

Per Farag, il trionfo definitivo dell’islàm è oggetto di profezia, e ai musulmani non resta altro che realizzarla. Il suo giudizio sul presente è tagliente e incisivo: «Oggi — egli scrive — i musulmani vivono in Stati governati da apostati in base a leggi che non si fondano sulla sharia. L’imperativo dei musulmani è creare uno Stato musulmano; nessun altro obiettivo può distrarre i credenti da questa missione».

Neppure il problema di Israele deve distrarre i veri musulmani dal loro obiettivo primario: è più importante, egli dice, combattere il nemico vicino (il regime degli apostati) che il nemico lontano (Israele e Stati Uniti). Infatti, «si verserebbe sangue musulmano per ottenere tale vittoria. Occorre domandarsi se questa vittoria risponderebbe agli interessi di uno Stato islamico o, piuttosto, a quelli di un governo miscredente […].

Tali governi sfrutterebbero a proprio vantaggio la concezione nazionalistica dei veri musulmani […]. Il combattimento deve avvenire sotto la bandiera dell’isiàm e al comando di una dirigenza islamica» (9). Soltanto la ripresa del jihad su scala globale secondo lo stile antico, sostiene Farag, è capace di ridare prestigio e forza al mondo islamico, oggi asservito per colpa dei suoi governanti miscredenti agli interessi dell’Occidente.

Infatti la ragione principale «del degrado, dell’umiliazione, della divisione e della frammentazione che affliggono oggi il mondo islamico» è dovuta soprattutto all’abbandono del jihad come mezzo di liberazione e di propagazione «della vera fede».

Da questo punto di vista Farag si appropria dell’intero versante bellico della storia e della dottrina religiosa islamica, ignorando volutamente qualsiasi elemento della tradizione che non si muova in tale direzione, come, ad esempio, la concezione del jihad in senso mistico-spirituale (o «grande jihad»), che egli definisce come un semplice diversivo rispetto all’impegno tassativo per ogni credente di combattere fattivamente per la fede (10).

Da quanto detto risulta evidente che Farag è certamente l’autore più radicale in tema di jihad; anzi con lui nasce un diverso tipo di consapevolezza sulla funzione politico-religiosa della «guerra santa», che avrà una grande influenza sul radicalismo islamico degli anni successivi.

La dottrina contemporanea sul «jihad»

La dottrina sul jihad ha avuto un nuovo e imprevisto sviluppo negli ultimi tempi caratterizzandosi in alcuni casi in senso antigovernativo e in altri, come nel caso di al-Qaeda, come attacco globale rivolto ai presunti nemici dell’islàm, in particolare agli Stati arabi filo-occidentali, considerati traditori della causa islamica, a Israele e agli Stati Uniti. Ma di questo qui non ci occupiamo.

Negli ultimi decenni sono stati scritti in materia di jihad numerosi libri, i quali fondamentalmente si muovono nel solco dei due filoni di pensiero precedentemente analizzati: quello del jihad irenico (o difensivo), teso soprattutto alla proclamazione delle verità religiose, e quello del jihad combattente o aggressivo, avente come fine la restaurazione del vero islàm e l’acquisizione di nuovi territori alla umma musulmana.

Uno dei maggiori esponenti contemporanei della prima tendenza è il siriano M. Sa’id al-Buti. Per questi il jihad è soprattutto uno strumento di proclamazione del vero islàm; inoltre, pur non escludendo del tutto l’elemento bellico, gli assegna una funzione prevalentemente difensiva: «È divenuto assiomatico che la responsabilità di sorvegliare e difendere questi due patrimoni [il territorio e la società] non può essere assolta dal jihad pacifico […]. È un compito che può essere svolto unicamente ricacciando gli aggressori, respingendoli e impedendo qualsiasi danno possano arrecare» (11).

Pur non accettando il jihad puramente aggressivo, secondo lo stile di diversi gruppi fondamentalisti, egli non è invece contrario al cosiddetto «jihad preventivo», quando si è praticamente certi che uno o più Stati stranieri siano intenzionali a colpire la «nazione» islamica. Egli giustifica tale tipo di intervento facendo riferimento alle vicende del Profeta, il quale nei suoi ultimi anni di vita combattè contro gli ebrei e contro altre tribù arabe politeiste per prevenire un loro attacco contro la vera religione.

In ogni caso, tale interpretazione relativamente tollerante del jihad fu duramente contrastata dai fondamentalisti islamici, perché considerata eccessivamente irenica e contraria agli interessi dell’islàm; essi, fra l’altro, contestavano ad al-Buti il modo con cui egli nella sua opera Al-Jihadfi al-Islam aveva delimitato il «territorio dell’islàm», escludendone la Spagna: «Non è dunque necessario — gli veniva obiettato — per tutti i musulmani purificarla dai suoi rapaci aggressori e ritornare allo Stato islamico?».

In una successiva edizione della sua opera sul jihad egli su questo punto fa marcia indietro e afferma: «Al-Andalus [la Spagnai rimane parte del territorio dell’islàm giuridicamente, e i musulmani hanno la responsabilità, secondo i giureconsulti, di riportarla all’ovile dell’islàm. Il fatto che i musulmani abbiano trascurato questa loro responsabilità nel corso di tanti secoli non cambia di una virgola quest’obbligo» (12).

Tale considerazione, che risponde a esigenze interne di propaganda, contraddice di fatto l’idea di fondo espressa dall’autore in tema di jihad; va anche detto però che incongruenze di questo tipo non sono rare nei testi che trattano di tale delicata materia.

Le tesi di al-Buti sul jihad difensivo sono state confutate da altri autori che si muovono invece nel solco della tradizione del «jihad combattente». Tra questi ricordiamo il saudita A. al-Qadiri, esponente di spicco del gruppo degli ideologi dell’islamismo radicale. Egli ha una concezione piuttosto trionfalistica del jihad, il cui fine principale è glorificare i credenti in Allah e umiliare i miscredenti.

Secondo la sua concezione, il jihad è la lotta di Dio, per cui non c’è dubbio che, una volta proclamata, essa risulterà vittoriosa e produrrà i suoi effetti, nel senso che tutti gli infedeli, una volta vinti e sottomessi, si convertiranno in massa alla vera religione.

C’è un aspetto nel pensiero di questo ideologo radicale che è assolutamente nuovo nel panorama degli scritti sul jihad. Al-Qadiri è l’unico autore che cerchi di conciliare il jihad combattente («piccolo jihad») con lo jihad spirituale e interiore («grande jihad»). Sappiamo che quest’ultima forma di jihad fu guardata con grande sospetto dalla tradizione ortodossa (poiché essa si sviluppò in ambienti legati alla mistica sufi), anzi da molti autorevoli giuristi essa fu apertamente rigettata e la sua trattazione, anche in sede teorica, considerata fuorviante.

Secondo al-Qadiri, invece, il combattimento spirituale è parte integrante di quello militare; egli ritiene che i ripetuti insuccessi degli eserciti arabi contro Israele e contro gli invasori occidentali siano dovuti al fatto che non ci si prepara spiritualmente alla battaglia. Mentre sarebbe necessario prepararsi al jihad contro gli infedeli e gli occupanti sia sotto il profilo militare e strategico, sia soprattutto sotto il profilo spirituale.

Secondo D. Cook, uno dei maggiori studiosi della materia, l’opera più importante scritta negli ultimi tempi in materia di jihad sarebbero i tre volumi pubblicati nel 1993 dal siriano M. Khayr Haykal, intitolata, «Jihad e combattimento secondo la politica della legge rivelata» (13). L’opera tocca tutti i punti concernenti il jihad, anche quelli considerati più spinosi e dibattuti.

Haykal è l’unico tra i teorici contemporanei che affronti il delicato problema della liceità dell’uso delle armi di distruzione di massa nel jihad. Egli ne ammette l’uso, ricorrendo all’autorità delle parole del Profeta, il quale approvava il ricorso alla balestra in battaglia, nonostante l’inconsueta potenza distruttiva di tale arma: «Le due cose infatti — egli scrive — sono connesse tra loro, al di là delle notevoli differenze per quanto riguarda la dimensione del pericolo […] e ciò perché l’armamento moderno rientra nella definizione dei testi giuridici che autorizzano l’utilizzo di qualsiasi tattica o arma militare contro il nemico durante la battaglia […]. Sicché, su questa base fondamentale, è consentito l’impiego di armi contemporanee quali la bomba atomica» (14).

A tale considerazione aggiunge poi che sarebbe auspicabile che nel territorio interessato non risiedessero musulmani, condizione questa, nel nostro mondo globalizzato, difficile da realizzare. Insomma per Haykal il jihad non è una lotta incontrollata e senza limiti, anzi, facendo riferimento all’autorità dei testi antichi che egli conosce molto bene, ritiene che essa sia una forma di «guerra regolata» e che la sua regolamentazione dipenda di volta in volta dalle reali esigenze della comunità musulmana. In sostanza, la sua idea di jihad è tanto lontana da quella degli autori irenisti della prima metà del Novecento quanto vicina al pensiero degli islamisti radicali, persino a quelli di matrice al-qaedica.

A tutt’oggi è difficile prevedere se nel futuro tale orientamento radicale in tema di jihad continuerà ad essere prevalente tra i giuristi e gli intellettuali islamici. Intanto molti musulmani respingono la pretesa dei cosiddetti fondamentalisti globali di condurre un jihad contro i nemici crociati, sionisti o capitalisti, in difesa dell’islàm e per liberare il territorio dalla presenza degli infedeli. Essi ritengono che tale movimento non abbia nessuna autorità per lanciare un jihad combattente, poiché tale potere, sostengono, è prerogativa esclusiva di un capo musulmano, quale un imam o un califfo legittimo.

Al di là dell’uso attuale della nozione di jihad, non è impossibile che in un prossimo futuro essa venga interpretata in termini spirituali o escludendone la componente violenta. Del resto in alcuni settori, anche se minoritari, del mondo islamico il jihad è inteso come lotta o combattimento per il perfezionamento spirituale.

Inoltre una conseguenza dell’odierno ricorso al jihad e del modo violento e indiscriminato con cui è praticato da alcuni gruppi di fondamentalisti, in particolare da al-Qaeda, potrebbe generare un netto rifiuto di tale forma di lotta da parte della maggioranza musulmana silenziosa. Il che non sarebbe impossibile a lungo termine, anche se allo stato dei fatti non ci sono seri indizi che facciano sperare in uri cambiamento di rotta.

Note

1) Cfr G. DE ROSA, Islàm e Occidente. Un dialogo difficile ma necessario, Leumann (To) – Roma, Elledici – La Civiltà Cattolica, 2004.

2) R. RIDA, Fatwa, vol. IH, Beirut, 1970, 1.155.

3) H. al BANNA, Majmu’ at rasa’ il ai-Imam al-Shahib Hasan al-Banna’, Beirut, Dar Al Andalus, 1965,297.

4) A. AL-MAWDUDI, Al-]ihad fi ai-Isiam, Damasco, 1984, 9.

5) Ivi, 50.

6) Cfr D. COOK, Storia deljìhad. Da Maometto ai nostri giorni, Torino, Einaudi,2007, 153.

7) Sul fondamentalismo islamico si vedano: R. GUOLO, II fondamentalismo islamico, Roma – Bari, Laterza, 2002, 13 s; E KHOSROKHAVAR, I nuovi martiri di Allab. Milano, Bruno Mondadori, 2002, 3 s; M. INTROVIGNE. Fondamentalismi. I diversi volli dell’in-transigenia religiosa, Casale Monferrato (Al), Flemme, 2004; G. KEPEL, jibatl. Ascesa e declino, Milano, Carocci, 2002; B. LEWIS, La crisi dell’isiam, Milano, Mondadori, 2005; P. BRANCA, Voà dell’isiàm moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, Genova, Marietti, 1991.

8) Cfr S. KASSFFI, L’infelicità araba, Torino, Einaudi, 2006, 52; B. LEWIS, Semiti e antisemiti. Milano, Rizzoli, 2003, 228.

9) M. PAGAR, The NeglectedDuty, New York, Macmillan, 1986, 192

10) Cfr D. CdOK, Storia del jihad. Da Maometto ai nostri giorni, cit., 164.

11) M. AL-BUTI, Al-]ihad fi al-Islam, Beirut, Dar al-Fikr al-Mu’asir, 1997, 93.

12) Ivi, 271.

13) Cfr. D. COOK, Suicide attacks or «Martyrdom operations» in Contemporary jihad literature, in www.ozlanka.com/commentary/jihad.htm

14) M. K. HAYKAL, Al-Jihad wa-l-qital fi al-siyasa al-shara’iyya, vol. II, Beirut, Dar al-Barayiq, 1993, 1.352.

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