Non possiamo cambiare la legge. Ma almeno non rinunciamo a chiamare le cose con il loro nome
di Clementina Isimbaldi
Medicina e Persona
Oggi non ci sono le condizioni politico-culturali per un rispetto della vita. Al punto da farci temere, in caso di una riformulazione della 194, una legge peggiorativa.Però, se lo Stato è uno Stato che si rispetti, civile, una legge siffatta ha un suo ruolo se ottiene un decremento del numero di aborti. Ovvero se contrasta la soppressione della vita e rimuove le cause che conducono all’aborto (articolo 1). Ma non sembra che l’applicazione della 194 sia stata espressione di questa preoccupazione. Sinora, almeno, non lo è stata.
Gli articoli 2 e 5 (quelli sui consultori) non sono mai stati applicati. E ancora: dopo i primi novanta giorni di gravidanza, la madre può abortire solo se «la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna» (articolo 6). Mai applicato. Inoltre: la legge prevede che quando il bambino è portatore di malformazioni, se questo comporta rischio per la salute psichica della madre, si possa procedere all’aborto terapeutico (che però terapeutico non è, bensì è eugenetico). Dunque, chiediamo che la 194 sia rispettata e applicata.
«Per abolire una legge o per cambiarla radicalmente si deve prima lavorare a quella cultura che è alla base della 194» (Betori, Il Messaggero, 5 settembre 2007). Siamo impegnati in questo lavoro. Che potrebbe comportare anche secoli. Ma vale la pena. Se proprio si deve “fare il tagliando” alla 194, magari tramite “Linee Guida”, facciamolo. Ma non rinunciamo a chiamare le cose con il loro nome.