di Claudio Siniscalchi
Per riprendere il titolo di un altro libro che ha avuto un forte impatto nel dibattito culturale statunitense, il nuovo anti-cattolicesimo galoppa irrefrenabile. L’autore del saggio, lo storico delle religioni Philip Jenkins, dal titolo “The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice” (2003), anch’egli scrutava nel cinema (e nei media) un puntello essenziale della retorica anti-cattolica.
Medved denunciava la tendenza in film spettacolarmente violenti, come l’esaltazione da oscar del serial killer de “Il silenzio degli innocenti” (1991) di Jonathan Demme. Jenkins invece affrontava film di chiarissima ispirazione anti-cattolica, da “L’ultima tentazione di Cristo” (1989) di Martin Scorsese a “Stigmate” di Rupert Wainwright (1999), senza dimenticare “Il Padrino III” (1990) di Francis Ford Coppola.
Ma c’è un filone del recente cinema americano che si inserisce in questa tendenza, pur non dichiarando apertamente gli intenti. È il genere del film storico, meglio se aiutato dagli effetti speciali. Una sorta di aggiornamento dell’ultimo genere del cinema classico hollywoodiano, il kolossal biblico e greco-romano degli anni cinquanta-sessanta
Il “Boewulf” di Robert Zemeckis ne è il più recente esempio. Ma appartengono al medesimo filone altri film di grande successo quali “300” (2006) di Zack Snyder, “Il gladiatore” (2000) e “Le crociate” di Ridley Scott, “King Arthur” (2004) di Antoine Fuqua, “Troy” (2004) di Wolfgang Petersen, “Alexander” (2004) di Oliver Stone.
Alcuni di questi film, non a torto, sono stati classificati come chiaro esempio di cinema della “sicurezza nazionale”. Lo studioso francese Jean-Michel Valantin vi ha dedicato un saggio di notevole interesse “Hollywood, il Pentagono e Washington (Fazi, 2005). Ma è solo una faccia, e neppure la più significativa, del problema.
Nel recente filone storico la produzione hollywoodiana, ovviamente, si preoccupa di fare affari. Tutti i film citati sono costosissime operazioni finanziarie. Ma, come è sempre stato sin dai tempi della nascita del cinema classico americano, basato sulla forza trainante della produzione, oltre ai soldi è bene non trascurare gli aspetti ideologici.
Può piacere o meno, ma questi film vanno inseriti nello schema dello “scontro di civiltà”, poiché rappresentano sempre una civilizzazione superiore (nella quale si riflette la civiltà americana) in lotta contro un mondo impegnato a combatterla e, se possibile, a trascinarla nelle tenebre.
Non avendo una storia lunga e variegata nella quale pescare, le produzioni hollywoodiane da sempre hanno cercato nel passato europeo soggetti ed idee. Classico riferimento può essere considerato “Giovanna d’Arco” (1948) di Victor Fleming, interpretato da Ingrid Bergman.
Se paragoniamo questo film con “Boewulf” salta immediatamente agli occhi il cambiamento. Mentre il cinema classico finiva per inquadrare le sue storie nell’orizzonte valoriale cristiano, il cinema postmoderno contemporaneo le inquadra in un orizzonte pagano. In “Boewulf” come in “300”, ci vengono mostrati popoli guerrieri ma felici, appagati in ogni loro soddisfazione carnale, e soprattutto liberi.
Con il divino hanno un rapporto prettamente pagano. Popoli, e soprattutto eroi, protagonisti di storie antiche, il cui significato etico si trasfigura nell’universo moderno. In altre parole la società di “Boewulf” è distante dalla nostra nell’ambientazione, ma non lo è certo nel significato comportamentale.
Il film di Zemeckis si apre con un esplicito invito del re a trascorrere una notte sessualmente allegra, favorita dal divino idromele. Il regnante prima di Boewulf, e quello che verrà dopo di lui, non riescono a sfuggire alla seduzione del male, con in quale metaforicamente si accoppiano. Quindi la storia è un ciclico ritorno, dove il male e il bene sono la faccia di una stessa medaglia: il drago distruttore nasce dall’eroe che lo sconfigge.
Il vecchio re quando vede negli occhi della giovane moglie accendersi il desiderio per l’osannato Boewulf che ha sconfitto il male, capisce che è tempo di andare, e si lancia nel vuoto vedendo compiuta la sua avventura e inutile la sua presenza terrena. E alla donna che ha visto nel maschio più giovane toccherà la sorte di essere rimpiazzata nel letto da una fanciulla. Non ne farà un dramma. Un conto è il sesso, altro è l’amore. Boewulf non smetterà di amarla, ma preferirà dormire con la ragazza.
In questi film, e specialmente nel “Boewulf”, il paradigma anti-cristiano si delinea piuttosto nitidamente. I modelli di società che fanno da corollario alle varie storie raccontate, spazianti dal nord-europeo medioevale antico alla Sparta di Re Leonida, dall’epoca delle Crociate alla Roma imperiale, dai racconti mitici di Re Artù a quelli della guerra di Troia, sono tutti modelli dove il cristianesimo non ha nessun fondamento, dove il precorso dell’anima non ha nessun senso, dove la speranza ha un senso solamente umano e mai divino (San Paolo ricorda come i pagani non avendo la speranza siano disperati).
Hollywood ha sempre interpretato la storia (della propria nazione come dell’Occidente) piegandola alle esigenze del momento. Storicamente ben sappiamo che il fondamento dell’Occidente sta nel cristianesimo, e la libertà, come la democrazia e il capitalismo, si sono nutrite dell’esperienza cristiana. Eppure guardando il “Boewulf” o “300” vediamo ridotte in scala fumettistica (nel senso migliore del termine) le idee di Nietzsche sul senso dell’eroe, sui limiti dell’umanità, sulla concezione ciclica del tempo e della storia (propria dell’uomo postmoderno), sul fardello della religione. E soprattutto vediamo visualizzata la sua retorica anti-cristiana: semplificata ma chiara.
Il cinema non anticipa mai i flussi sociali. Può farlo, ma nelle nicchie, come accade all’avanguardia; non nei prodotti di largo consumo. Il cinema arriva con opere esemplari a mettere in scena e creare consenso a problematiche già largamente diffuse e metabolizzate nella società. I film che abbiamo citato sono successivi alla “rivoluzione culturale” americana verificatasi negli anni ottanta, con il trionfo del postmodernismo relativista e l’affermazione di un paradigma culturale definitivo “terapeutico”, o del “risentimento”, o del “piagnisteo”.
Nel decennio dominato dal carisma conservatore di Ronald Reagan si verificò la frantumazione dell’ordine borghese e la vittoria della cultura radicale, causa dell’inarrestabile processo di “desocializzazione”, di cui l’opposizione al cristianesimo è l’asse centrale. La neo-conservatrice Gertrude Himmelfarb nel polemico saggio “One Nation, Two Cultures” (1999) inquadrò, ancora negli entusiasmi per il reaganismo, questa evidente rottura.
Una nazione e due culture. La prima borghese, largamente minoritaria; l’altra radicale, sempre più forte, anti-cristiana e impegnata nella costruzione di un nuovo paganesimo in grado di assurgere ad Olimpo della società del benessere e dell’iper-consumo (una felicità naturalmente paradossale, basata solo sull’esteriorità e a scapito della felicità interiore). E questa cultura radicale, essendo diventata di massa, ha bisogno di nutrimento cinematografico. Siamo arrivati così al “Beowulf” di Robert Zemeckis. L’ultimo, in ordine di tempo, pasto visivo per l’Homus consumericus contemporaneo.