Matrimoni tra cristiani e islamici: il romanticismo non è un sostituto per la prudenza, e i richiami all’amore non bastano a superare una differenza culturale che si rivela nella maggior parte dei casi insormontabile.
di Massimo Introvigne
La disponibilità all’aiuto in tutti i casi concreti non significa che la Chiesa non segnali con realismo i rischi. Del resto, su questo punto la posizione dei vescovi italiani non è lontana da quella di un combattivo apologista dell’islam come Tariq Ramadan, il quale usa parole piuttosto severe nei confronti di quei musulmani che sposano un coniuge cristiano con una buona dose di superficialità, andando incontro nella maggior parte dei casi a un inevitabile fallimento.
Il problema è anzitutto teologico. La nozione del matrimonio non è la stessa nel cristianesimo e nell’islam.
Il diritto islamico – sia pure con precisazioni e limitazioni – ammette la poligamia, e permette al marito di ripudiare la moglie semplicemente dichiarandolo, mentre la donna per divorziare deve passare attraverso un tribunale. Una musulmana non può sposare un uomo di un’altra religione; un musulmano può sposare una cristiana o un’ebrea ma dev’essere chiaramente stipulato che i figli saranno educati nella religione islamica.
L’idea soggiacente è che il matrimonio non è, come per i cristiani, anzitutto un’istituzione di diritto naturale, per quanto elevata da Gesù Cristo alla dignità di sacramento. Per l’islam il matrimonio è un contratto rigorosamente normato dal Corano e dal diritto islamico, e l’idea che un musulmano sia coinvolto in un legame matrimoniale meramente “naturale”, non regolato dalla sua religione, non ha senso.
Quando questa mentalità entra in contatto con il diritto occidentale iniziano i problemi. Per cominciare, in Italia una donna ha diritto di sposare chi vuole, prescindendo dalla religione. Ma una donna musulmana che non sia cittadina italiana in pratica avrà molte difficoltà a sposare un non musulmano.
Il suo consolato, nella maggior parte dei casi, le negherà il nulla osta matrimoniale. Se il fidanzato italiano non ha una forte identità cristiana si presenterà al consolato per una “falsa” conversione all’islam, che dimenticherà poco dopo il matrimonio, salvo però esporsi a un’accusa di apostasia ove dovesse tornare alla pratica del cristianesimo.
In mancanza di conversione dello sposo più o meno fasulla, ci sono oggi sentenze dei nostri tribunali che permettono a donne musulmane straniere di sposarsi in Italia anche senza il nulla osta del Paese di origine. Ma per il loro Paese questo matrimonio è illecito, e se tornano in patria le conseguenze possono essere molto serie.
In realtà, in Italia sono più spesso donne cristiane a sposare immigrati musulmani. Non mancano casi di poligamia, i più gravi, perché il matrimonio poligamo per la legge italiana non esiste e la seconda (o terza, o quarta) moglie potrà essere ripudiata senza godere di alcuna tutela giuridica.
La Chiesa sa però che anche i matrimoni misti monogamici spesso falliscono. L’uomo musulmano ha difficoltà a rinunciare all’idea del ripudio facile, evidentemente incompatibile con la nozione cattolica di matrimonio, e certamente non accetta che nel percorso educativo ai figli sia proposto il cristianesimo.
Ha ragione – per una volta – Tariq Ramadan: il romanticismo non è un sostituto per la prudenza, e i richiami all’amore non bastano a superare una differenza culturale che si rivela nella maggior parte dei casi insormontabile.