Il non riconoscimento del volto umano del concepito. Quali conseguenze?

ecografia_concepitopubblicato su “Il Foglio” del 24 febbraio 2008.

Sudio della dott.ssa Cinzia Baccaglini  tratto dall’appendice del libro “Storia dell’aborto”, di Francesco Agnoli, edito da Fede E Cultura nel febbraio 2008

Quando nel dolore si hanno compagni
che lo condividono
l’animo umano può superare
molte sofferenze.
Re Lear – Shakespeare

La possibilità di riflettere sul tema della sofferenza post abortiva è tema così delicato, così importante, così sconosciuto e con il quale non è facile confrontarsi senza avere paura di dire troppo o troppo poco e in maniera sufficientemente chiara né con le persone comuni né purtroppo con tanti colleghi psicologi-psichiatri, senza che essi partano da tutta una serie di pregiudizi che fanno riferimento ad ideologie.L’antidoto a questo, è l’esperienza clinica vicino alle persone che non hanno riconosciuto il volto umano  del concepito.

Sono una psicologa clinica e di comunità con un indirizzo bio-psico-sociale attenta all’unità inscindibile della persona e non credo che l’uomo possa essere tagliato a fettine ma che, invece, si relazioni con il mondo che gli sta intorno in maniera globale e che certe settorializzazioni, di moda oggi, possano essere eventualmente utili solo a fini didattico-metodologici.

Alcune parole sono parole chiave per capire ed addentrarsi nelle conseguenze della sofferenza postabortiva. Il titolo contiene la negazione del riconoscimento dell’essere umano concepito, riconoscimento significa l’azione del ravvisare-individuare una persona conosciuta, significa identificare, distinguere, esaminare con attenzione, ispezionare, ammettere, dichiarare, confessare, ma ancora accettare come legittimo, approvare pubblicamente e ufficialmente, ammettere di essere debitore a qualcuno di qualcosa.

In ambito strettamente tecnico psicologico è uno degli aspetti della memoria e della conoscenza consistente nell’avvertire consapevolmente che un oggetto o una situazione nel nostro caso di una persona, seppur piccola e invisibile a occhio nudo, sono già noti.

Riconoscere non significa inventare dal nulla ma aprire gli occhi su una realtà che già c’è, si dovrebbe riconoscere pertanto con maggiore evidenza e chiarezza ciò che più mi è simile e più dovrebbe essere naturale riconoscere come uguale portatore di dignità, qualsiasi appartenente alla famiglia umana, quindi il “cucciolo d’uomo”

.Questa consapevolezza è determinata dal fatto che credo che il concepito sia refero , cioè portatore di un senso e di un significato di per sé per il solo fatto che esiste. Il non riconoscere è quindi il non accogliere, ancora di più, il respingere. [1]

Volto umano: l’importanza del volto umano è a prima vista la sua sostanziale differenza dal muso degli animali, è la caratteristica per la quale riconosciamo la diversità delle persone che ci circondano, è la capacità di cogliere emozioni, sentimenti, pensieri dagli sguardi che esso irradia che è peculiare dell’essere umano.

E’ la possibilità biologica di esprimere anche nel silenzio, pertanto anche nel grembo della madre, la meraviglia dell’essere al mondo. E’ il mezzo più facile per il riconoscimento di un ‘Tu’, di un altro diverso da me.

Chi dice ‘Tu’, non ha mai un qualcosa per oggetto. Poiché dove è qualcosa è un altro qualcosa; ogni Esso confina con un altro Esso, e un Esso esiste solo in quanto è limitato da un altro. Ma dove si dice ‘Tu’ non vi è mai un qualcosa .Chi dice ‘Tu’ non ha mai un qualcosa . Ma sta nella relazione. Quando io sto di fronte a un uomo come al mio ‘Tu’, e gli dico la parola base io-Tu , egli non è una cosa fra le cose e non è fatto di cose. [2]

Concepire: dal latino significa prendere insieme, accogliere in sé ma ancora sentir nascere in sé, accogliere nell’animo, provare, nutrire ma allo stesso tempo questa parola viene utilizzata anche per l’aspetto del pensiero che si riferisce all’ideare, immaginare. Questo dovrebbe far riflettere sia per quanto riguarda il rapporto fra il pensiero e l’azione, sia perché volenti o nolenti, un figlio concepito è sempre pensato anche se non voluto in quel momento.

2- Quandonon vi è il riconoscimento della dignità umana del concepito.

Le situazioni nelle quali non viene riconosciuto il volto umano del concepito nella nostra società sono ormai molte, tutte partono però dal declassare il concepito dall’essere qualcuno all’essere qualcosa, quindi cosificandolo e gestendolo come un prodotto.

Questa considerazione parte da un presupposto culturale che possiamo riscontrare anche tra la gente quando all’annuncio di una gravidanza si chiede: “ma l’hai voluto, l’hai cercato?”, fino a frasi del tipo “ma non te ne bastavano due?” A livello pratico molte sono le azioni che permettono la negazione dell’essere umano concepito.

Con diverse sfumature ma con tratti comuni, molto evidenti sono però le conseguenze a livello individuale, a livello familiare, a livello sociale. Per brevità, e non scendendo nei particolari tecnici, sono da considerarsi ugualmente atti di negazione: aborto volontario, RU486, pillola del giorno dopo (Norlevo) e tutta l’insieme delle tecniche dette “contraccezione d’emergenza o post-coitale” e, non ultima, la fecondazione artificiale extracorporea, omologa o eterologa che sia.

Ciò che accomuna tutti questi atti “medicalmente assistiti” è la negazione di uno o più, nel caso della fecondazione artificiale, volti umani di concepiti con atti deliberatamente scelti anche se non sempre consapevolmente scelti.

La comunità scientifica sta discutendo se esista una sindrome post-aborto strictu senso oppure se esistano conseguenze psichiche identificate ma che non siano sempre, costantemente e immancabilmente legate fra loro. Sindrome deriva dal greco sun-dromo e significa correre insieme, designa un gruppo di sintomi o segni in rapporto costante tra loro, espressioni di una situazione patologica, psichica oppure organica.

Si dovrebbe forse distinguere tra segno, come manifestazione riscontrabile oggettivamente dal terapeuta e sintomo quale sensazione soggettiva di dolore o disagio da parte della persona. E’ certo però che la sofferenza post-abortiva è solo da pochi anni indagata e sempre nella “clandestinità” poiché non è una sofferenza che viene esplicitata chiaramente ma che solo terapeuti sensibili al problema riescono ad individuare e ricercando le cause finalizzano la cura.

E’ per questo motivo che io non credo che psicoterapeuti abortisti possano curare sindromi post-aborto, proprio per una questione di misconoscimento di ciò che è accaduto: l’uccisione di un bambino, di un figlio. Queste tecniche sono gli unici atti che io ho trovato uccidano oltre al 100%.

Nei lavori scientifici prodotti a livello mondiale si definiscono tre quadri gnoseologici:

1. La psicosi post-aborto, che insorge subito dopo l’aborto, può perdurare per oltre sei mesi ed è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica;

2. Lo stress post-aborto, insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo più lieve sinora osservato;

3. La sindrome post-abortiva :un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l’interruzione come dopo svariati anni in quanto possono rimanere a lungo latenti ,nella mia esperienza clinica anche dopo 23 anni.

Si aumenta il rischio a scadenza dei termini legali, in età adolescenziale (e qui bisognerebbe fare un sana riflessione su ciò che significa dare il Norlevo alle adolescenti), in età pre-climaterica quando si fa un bilancio della propria attività sessuale e del poco tempo riproduttivo rimasto,- dopo un lutto, dopo un’infertilità precedente (si pensi nella fecondazione artificiale), al termine di una relazione affettiva, legata ad ambivalenza decisionale (si pensi al pensiero persecutorio di questo bimbo nel dilemma della Norlevo quando non si sa se c’era o non c’era), in condizione di isolamento affettivo ma bisogna anche dire che la sindrome post-abortiva non concerne esclusivamente la mamma che ha abortito.

Conseguenze per chi ?

Quando si parla delle conseguenze psichiche dell’aborto si pensa solo alla donna, che da adesso in poi chiamerò sempre mamma, in quanto, come è stato dimostrato recentemente dal momento del concepimento, la madre subisce alcune modificazioni a lungo termine proprio dalla persona del figlio e, indirettamente anche del padre del bambino.

Si sa che dall’embrione alla madre passano un’infinità di messaggi attraverso sostanze chimiche quali ormoni, citochine, linfochine, neurotrasmettitori ecc. Tali informazioni servono a far adattare l’organismo della madre alla presenza del nuovo essere. In più è stato riscontrato che l’embrione manda anche cellule staminali che, grazie alla tolleranza immunitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il midollo spinale materno, da cui non si separano più. Anzi, da cui nascono linfociti per tutto il resto della vita della mamma, sia in caso di parto, spontaneo o cesareo sia in caso di aborto, spontaneo o volontario.

Pertanto dal concepimento si è madri per sempre. Ma la mamma non è l’unica a subirne le conseguenze bensì anche il padre del bambino e/o partner della madre, gli altri figli già in vita, quelli successivi e scampati, i nonni e gli operatori sanitari, quindi se ci pensiamo bene l’intera società.

Si dovrebbe fare un lungo discorso sulla differenza tra il bisogno e desiderio di maternità e sui  pensieri collegati ad una gravidanza e non necessariamente un figlio. Nel senso che spesso la gravidanza è la prova dell’efficienza dell’essere donna, dell’essere feconda, si resta incinta come modo di diventare più femminili, più mature, più adulte.

La base stessa della sindrome post-abortiva si situa al livello della percezione soggettiva del tutto esatta dei fatti, cioè dell’aborto subìto. In altri termini: la donna risente l’aborto come il fatto d’aver ucciso il proprio figlio in modo cosciente e premeditato. Il fatto che l’esecutore sia stato un medico accresce l’orrore dell’accaduto.

Come abbiamo visto prima, la percezione di una complicità da parte della donna è di importanza capitale per tentare di capire cosa avviene nella coscienza della donna che ha abortito. Partendo da questi fatti è chiaro che la sindrome post-abortiva costituisce per la donna una prova ben più terribile della perdita di un bambino per un aborto spontaneo ed anche di un bambino che muore dopo la nascita. La ragione sta nel fatto che questa consapevolezza è risentita fortemente da ogni donna che abortisce.

Nessuna crede nel proprio intimo d’aver eliminato con l’aborto solo “un piccolo mucchio di cellule”, come viene definito su una certa stampa femminile poco scrupolosa di rappresentare i fatti come stanno.

Ogni donna sa che abortendo uccide. E che uccide il proprio figlio. E che lo fa in modo lucido e premeditato. L’elemento di panico di fronte alle proprie responsabilità, davanti al proprio avvenire, talvolta cambiato radicalmente a causa di questo concepimento non desiderato, è solo un aspetto drammatico supplementare, benchè contingente, in questa prova.

Le conseguenze per la donna colpita da questa sindrome terribile sono lì a testimoniare la gravità.

Secondo l’Elliot institute for social sciences research : il 90% di queste donne soffre di danni psichici nella stima di sé; il 50% inizia o aumenta il consumo di bevande alcoliche e/o quello di droga; il 60% è soggetto a idee di suicidio; il 28% ammette di aver persino provato fisicamente a suicidarsi; il 20% soffre gravemente di sintomi del tipo stress post-traumatico; il 50% soffre dello stesso in modo meno grave; il 52% soffre di risentimento e persino di odio verso quelle persone che le hanno spinte a compiere l’aborto.

Il professor David Fergusson, ricercatore della Christchurch School of Medicine in Nuova Zelanda, ha svolto uno studio in cui voleva dimostrare che l’aborto non comporta alcuna conseguenza psicologica. Ma si è sorpreso nello scoprire che le donne che hanno avuto un aborto avevano una probabilità 1,5 volte superiore di sviluppare malattie mentali, e 2 o 3 superiore di diventare tossicodipendenti o di fare abuso di alcol.

Fergusson ha seguito un campione di 500 donne dalla nascita all’età d 25 anni. “Quelle che hanno abortito avevano elevate probabilità di sviluppare successivamente problemi di salute mentale, tra cui la depressione (aumento del 46%), l’ansia, comportamenti suicidi e tossicodipendenza”, afferma lo studio pubblicato nel Journal of Child Psychiatry and Psychology.

L’aborto è in effetti responsabile di una serie di fenomeni gravi: l’aumento del 160% nei tassi di suicidio negli Stati Uniti nel 2001, secondo l’Archives of Women’s Mental Health; aumento del 225% nei tassi di suicidio in Gran Bretagna nel 1997, secondo il British Medical Journal; aumento del 546% nei tassi di suicidio in Finlandia nel 1997, secondo gli Acta Obstetrica et Gynecologica Scandinavica.

In definitiva, la media degli aumenti nell’incidenza del suicidio riportati da questi tre studi è del 310%! Gli alti tassi di suicidio successivi all’aborto contraddice chiaramente l’idea che porre fine alla gravidanza possa essere una scelta più sicura rispetto a quella di dare alla luce il bambino.

Lo studio più autorevole sui legami tra ricovero psichiatrico e aborto rivela che nei quattro anni successivi ad una gravidanza, le donne che abortiscono ricorrono alla psichiatrica da due a quattro di più rispetto alle donne che portano avanti la gravidanza. Un altro studio rivela che anche quattro anni dopo aver abortito, i tassi di ricorso alla psichiatria rimangono del 67% più alti rispetto alle donne che non hanno abortito.

Secondo l’Archives of Women’s Mental Health, nel 2001, le donne che hanno abortito risultano aver sviluppato in maggior misura reazioni di aggiustamento, psicosi depressive e disturbi neurologici e bipolari. Anche il rischio di depressione o psicosi post parto per le nascite desiderate è maggiore per le donne che avevano precedentemente abortito.

Per una media di otto anni successivi all’aborto, le donne sposate hanno dimostrato una propensione a cadere in depressione clinica del 138% superiore rispetto alle corrispondenti donne che avevano portato avanti la loro gravidanza indesiderata. Questo, secondo il British Medical Journal del 19 gennaio del 2002.

Riguardo il problema dell’alcol e della tossicodipendenza, le donne che hanno abortito risultano essere 4,5 volte più portate ad affrontare il loro contrasto e dolore interiore in questo modo. E questo dato si basa solo su quelle donne la cui dipendenza da alcol o dalle droghe è resa nota. Non sono invece considerate tutte quelle donne che ogni sera si bevono i loro bicchieri di vino pensando che ciò sia semplicemente un modo per rilassarsi.

Questo aspetto è stato riportato dall’American Journal of Drug and Alcohol Abuse, nel 2000. Le conclusioni del primo studio di lungo termine condotto dal dr. Vincent Rue riportano abbondanti dati sui disturbi da stress post traumatico.Dalle statistiche relative agli Stati Uniti risulta che: il 55% di coloro che hanno abortito afferma di avere incubi e di essere ossessionato dall’aborto; il 73% afferma di avere dei flashback; il 58% delle donne afferma di avere pensieri suicidi e di riferirli direttamente all’aborto; il 68% rivela di essere scontenta di se stessa; il 79% si sente in colpa e afferma di essere incapace di perdonarsi; il 63% ha timori per future gravidanze e dell’idea di diventare genitore; il 49% non si sente a proprio agio vicino ai neonati; il 67% si descrive“sentimentalmente insensibile”.

Da molti altri studi ed esperienze cliniche si comprende che per molte donne l’emergere di disfunzioni sessuali, di disordini alimentari, di un aumento del consumo di tabacco, di attacchi di panico e di ansia, o di relazioni conflittuali, è un dato costante che consegue all’esperienza dell’aborto.

Come società, sappiamo discutere dell’aborto in quanto problematica politica, ma non sappiamo parlarne ad un livello intimo e personale. Non vi è alcun obbligo sociale che imponga di affrontare la questione dell’aborto, tanto che tutti cerchiamo di ignorare il problema.Uno dei motivi per cui non vogliamo parlare del dolore delle donne e degli uomini che hanno vissuto l’esperienza dell’aborto è che, come società, siamo profondamente turbati dalla questione.

La comparsa di disturbi organici a seguito di questo stato di trauma psicologico è anche difficile da quantificare, ma molte donne soffrono di disturbi ginecologici dopo l’aborto. Fra questi l’amenorrea (cessazione della mestruazione) prolungata, dolori persistenti ai seni. Tali disturbi, che possono trascinarsi per anni, non si spiegano solo con l’aspetto chirurgico dell’intervento, poiché esistono anche secondariamente ad aborti non chirurgici ma chimici.

Secondo il prestigioso Journal of the national cancer institute (n.1-2- 1995) ‘l’aborto è un fattore di rischio per il cancro al seno: la probabilità di contrarre un tumore della mammella è del 50% maggiore per le donne che ne hanno subito uno’. L’articolo illustra i risultati di uno studio condotto su 1800 donne dal Fred Hutchinson cancer research center di Seattle. E’ lo studio più ampio mai realizzato alla ricerca di un eventuale legame tra aborto e tumore.

L’èquipe, guidata dall’epidemiologa Janet Daling, ha accertato che il rischio di cancro al seno è più elevato nelle adolescenti a di sotto dei 18 anni che abortiscono entro il terzo mese di gravidanza. Non solo, ma per queste donne arriva all’800 % prima del 45esimo anno. Nessuno secondo lo studio è in grado di spiegare come mai le donne che portano a termine una gravidanza prima dei 30 anni, risultano statisticamente più protette contro questo tipo di tumore.

Un’ ipotesi vuole che le cellule che nascono in occasione del rapido sviluppo del seno durante le prime fasi della gravidanza, siano particolarmente esposte al rischio di diventare maligne se gli ormoni prodotti in seguito non le portano a completa maturazione, non le rendono meno vulnerabili. Ovviamente se la gravidanza viene interrotta, le cellule immature sono più esposte alla trasformazione in cellule tumorali.

Cosa che non avviene nel caso di aborti spontanei. Queste donne subiscono pure, molto frequentemente, diversi sintomi di relegazione nel loro subcosciente dell’aborto subito. Si sforzano di compensare il loro rimorso, più o meno ammesso attraverso un’attività vicariante; gettandosi in pieno nelle loro occupazione, rese sempre più trepidanti allo scopo di non dover pensare ancora…

Spesso queste donne non mettono in relazione i loro disturbi psichici con l’aborto subìto. Ciò non facilita il lavoro del medico consultato per sintomi a prima vista molto disparati. Si è ben lungi dai luoghi comuni ripresi incessantemente dalla stampa favorevole all’aborto. Avere il coraggio di dire che le donne dopo l’aborto sono sollevate rappresenta una subdola disinformazione.

Infatti, se il problema a volte grave che crea un concepimento inatteso e indesiderato sembra “risolto” con l’uccisione del bambino dichiarato indesiderato e indesiderabile, d’altra parte la vita della donna continua. L’idea di omicidio del proprio bambino rimane scolpita nella memoria.

Noi tutti pensiamo all’aborto come a un fatto privato, una decisione che la donna assume in prima persona su di sé, e si delega l’uomo in una posizione marginale nel processo decisionale, comunque non determinante (Dogliotti, 1995).

Molte delle decisioni vengono prese senza che il partner sappia o con un suo atteggiamento pilatesco, ma per il vissuto del padre non è indifferente se è stato coinvolto o no, cioè se ha dovuto cedere alla decisione della sua compagna. Il sentimento dominante sarà quello di una profonda impotenza di fronte alla decisione della madre.

Questo causerà frizioni intollerabili nella loro vita di coppia, portandoli spesso ad una separazione. E anche un senso di colpevolezza per non aver potuto impedire l’aborto. E, da ultimo, un senso di perdita di responsabilità, perché comunque il ‘padre’ non ha più niente da dire nel campo del concepimento e della salvaguardia del bimbo prima della nascita.

Se l’aborto viene fatto alla presenza delle difficoltà a rendersi coppia relazionalmente ed emotivamente, se questa decisione intacca il ‘narcisismo di coppia’, se dopo l’aborto la mamma si chiude a riccio rivendicando attraverso l’isolamento l’essere stata costretta perché non aiutata o al contrario affermando che era solo affare suo aumentano esponenzialmente questi sentimenti.

Un aspetto molto importante è se il padre si vive come maschio che trasmette il cognome, che porta avanti la generazione, se  sente il ruolo del figlio come trasmettitore familiare che non ha potuto realizzare, qui spesso accade l’implosione della famiglia. Quando si parla di sofferenza postabortiva spesso si parla solo delle donne e a questi uomini chi ci pensa?

Vi sono pochi studi riguardanti gli altri figli già in vita e quelli successivi all’aborto. Su questo argomento viene incontro solo l’esperienza clinica, ma è abbastanza facile immaginare cosa deve pensare un figlio dei propri genitori quando viene a sapere che uno dei suoi fratelli o sorelle è stato ucciso da un medico su domanda esplicita della loro madre, con il consenso del padre.

Il sintomo prevalente in questi bambini è un grande senso di insicurezza; una perdita di fiducia, accompagnata, talvolta, da senso di paura, d’avversione e persino di odio verso i genitori giudicati capaci di uccidere anche loro, dal momento che hanno osato uccidere un fratello o una sorella.

I bimbi sanno che è successo qualcosa, che qualcuno è morto perché sono vivi loro , lo capiscono dall’ansia della madre se sono figli successivi, dai pianti nascosti se precedenti, capiscono che parte della responsabilità è loro, loro creavano problemi o sono nati per rimpiazzare, spesso infatti donne che hanno abortito cercano subito un altro bambino.

Si sono evidenziati per i bimbi nati dopo un aborto aumenti di aggressività, abusi sessuali, abbandoni e queste fantasie di abbandono ci sono anche nei bimbi nati prima .Altro tipo di fantasia è quella di avere altri genitori. Spesso le domande che fanno sono molto semplici, dirette ma tragiche tipo : ‘Perché io sì e lui no? Potevo esserci io al suo posto’.

A volte gli elementi arcaici della relazione primaria con la madre influenzano i sopravvissuti fino al punto estremo ‘ non ho mai chiesto di venire al mondo, siete stati voi a mettermici quindi non è stata una libera scelta mia, l’unica cosa che mi resta da fare per riconquistare la mia autonomia è farmi fuori, suicidarmi, perdermi’ .

Un’altra riflessione da fare è a questo punto sull’aumento dei suicidi infantili e adolescenziali, gli abusi sessuali, l’aumento di giovani che si drogano, che si sballano e che non a caso si dice hanno perso il ‘senso della vita’. (Sindrome del sopravvissuto e la sindrome di Caino)

E, infine, anche gli altri membri della famiglia, e in modo particolare i nonni. Questi ultimi vedono la discendenza più lontana, i loro nipotini uccisi dai loro stessi figli. Quando si vede l’affetto particolare che molti nonni hanno per i loro nipoti, non occorre essere psicologo per rendersi conto di cosa devono sentire nel proprio intimo i nonni di un bambino abortito.

Ma c’è un altro aspetto che da psicologa mi preoccupa : sempre più nella mia esperienza clinica dove c’è una mamma che uccide il proprio figlio c’è una nonna materna che ha fatto la stessa cosa con un figlio/a , quindi con una sorella o fratello della mamma.

Forse una normalizzazione dei comportamenti culturali, forse la perdita del senso della preziosità della vita che si tramanda : se l’ha fatto mia madre perché non io? . Questo emerge anche a dispetto della conoscenza che è solo posteriore all’aborto e dove magari prima c’è stata un’azione di estrema pressione all’aborto stesso, con ricatti affettivi allucinanti. E’ come ci fosse una frattura generazionale e si può immaginare anche per altri figli e per le relazioni significative . Diventa realmente un problema di sanità mentale a livello sociale.

E il personale medico ?

Di per sé una professione che metta le proprie capacità e professionalità umane al servizio degli altri è molto esposta alla sindrome del burnout che ha come elementi principali:

1. l’esaurimento emotivo: la sensazione di essere in continua tensione, emotivamente inariditi dal rapporto con gli altri;

2. La depersonalizzazione : dare risposte negative nei confronti delle persone che ricevono la prestazione professionale, deterioramento della relazione con la persona;

3. Ridotta produttività nel lavoro: cioè la sensazione che nel lavoro a contatto con gli altri la propria competenza ed il proprio desiderio di successo stiano esaurendosi.

Esistono i presupposti perché questa sindrome si presenti più frequentemente e/o in modo più grave tra il personale sanitario, in particolare medico, che pratica l’aborto volontario per diverse motivazioni: le sfere emotive che interpella, un tipo di intervento senza cura, senza miglioramento.

Chiunque esercita la professione in funzione dello stipendio , difficilmente risentirà delle implicazioni legate a tali problematiche; se invece si agisce secondo scienza e coscienza vedendo la mamma nella sua soggettività , la contraddizione di chi ha scelto una professione che aiuta a dare la vita e si trova coinvolta nella sua negazione può emergere in tutta la sua drammaticità.

Ne può derivare un comportamento totalizzante (che ricerca l’efficientismo, disumanizzando se stessi) o estraniante( in cui attraverso l’esecuzione materiale della prestazione senza alcun coinvolgimento si disumanizzano gli altri). Sono le due strade che, in ogni settore dell’assistenza, portano alla sindrome del burn-out caratterizzata da abulia, ripetitività, demotivazione, insofferenza verso il prossimo, scarsa o nessuna gratificazione professionale. Un altro aspetto si riferisce al vissuto emotivo di impotenza di chi, obiettore di coscienza, è in questi reparti e non può far nulla per impedire questa strage giornaliera e la conseguente ghettizzazione degli obiettori stessi.

Più di 130000 aborti all’anno in Italia, 130000 mamme con conseguenze psichiche, altrettante famiglie in crisi, una crisi sociale e silenziosa.

Da quanto appena esposto è chiaro che i livelli a cui si situano queste conseguenze sono diversi: intraindividuale, relazionale di coppia, relazionale familiare, relazionale generazionale, relazionale sociale; se si considerano i macrosistemi : relazionale mondiale.

Che fare?

La sofferenza abortiva se non deve essere giudicata non deve essere nemmeno patita. La prima cosa lapalissiana da fare è dire che esiste una sofferenza post-aborto sempre e comunque che attualmente nella mia esperienza clinica sta prendendo anche la via delle dermatiti psicogene e dei disturbi alimentari come se seguisse anche l’evoluzione culturale.

Evidentemente l’aborto è irreversibile; per cui ogni terapia sarà essenzialmente riparativa e in parte. Non bisogna farsi illusioni, la cura che riesce meglio è riuscire a conviverci utilizzando questa esperienza in positivo per la vita. La morte è irreversibile. Ogni persona colpita dalla morte sa cosa voglio dire. Però è dovere di ogni persona, e ancor più di ogni medico, aiutare chi soffre nella verità.

Il dovere di consolare e di assistere psicologicamente è un obbligo perentorio alla persona, non di accettazione del fatto in sé. Ed è proprio il carattere di irreversibilità che ci costringe a considerare la prevenzione, anche nella dissuasione. L’aborto è davvero ‘mortale’ per tutte le persone che sono coinvolte.

Ci sono persone che trovano la loro via di guarigione nel credo religioso ma c’è anche chi non crede che ha diritto di trovare degli specialisti che non misconoscano e che soprattutto riconoscano il punto di partenza di una sofferenza così subdola. Le persone che incontrano queste mamme devono stare attente ai loro vissuti poiché la mamma che ha abortito ha già vissuto l’ipocrisia di chi le stava intorno, la violenza dell’omertà, il non dover dire per paura, per rimorso e per altro, la violenza della rimozione, il non voler ricordare, il negare le conseguenze attribuendole ad altro.

Bisogna pensare a 360° gradi all’aborto, non solo al bambino, non solo alla madre, non solo agli altri a lei vicini ma anche a tutti gli embrioni chiamati sovrannumerari e quindi eliminabii in un lavandino di laboratorio prodotti dentro gli alambicchi della vita da stregoni che vorrebbero far diventare le donne mamme e che invece le rendono…, non c’è un termine in italiano per questo.

Possiamo chiamare i bimbi che perdono i genitori orfani, vedovi coloro che perdono il coniuge, ma non c’è un termine per le mamme che perdono un figlio. Pensate a quando sono più figli come nella fecondazione artificiale o nella riduzione embrionaria , anche loro non possiamo più chiamare per nome. Il lavoro delle persone coinvolte in un aborto è duro, molto duro. Devono passare la negazione di un fatto culturalmente accettato, la rabbia per il fatto di dover affrontare il problema, il mercanteggiamento con la propria coscienza per tentare di liberarsene, la depressione, il senso di colpa e di vergogna, il perdono, la riconciliazione.

Arrivare alle due ultime tappe senza aiuto esterno è impossibile e il fatto di non progredire più dalla depressione in avanti è all’origine del tasso dei suicidi e tentati suicidi in questa categoria di persone. Il lavoro da fare è molto e tutti siamo coinvolti per quello che possiamo, non possiamo più aspettare perché la catastrofe non solo demografica ma di sanità mentale è imminente.

L’agonia psicologica e spirituale conseguente all’aborto viene soffocata dalla società, ignorata dai mezzi di comunicazione, rifiutata dagli psicologi e disprezzata dai movimenti femminili. Il trauma post-aborto è una malattia grave e devastante che non dispone di portavoci celebri, che non è oggetto di film, né di programmi televisivi o talk show. (Forbidden Grief: The Unspoken Pain of Abortion”,Theresa Burke – David C. Reardon).

Non puoi impedire all’uccello del malaugurio di volare sopra la tua testa, ma puoi impedirgli di fare il nido tra i tuoi capelli. Proverbio cinese

BIBLIOGRAFIA

– Dizionario della Lingua Italiana –Garzanti
– L’Io e il Tu –Martin Buber ,pagg 6-8 Ed IRSeF Pavia 1991
– Aborto volontario, le conseguenze psichiche –Atti del convegno 8-9 Febbraio 1996 Ed. CIC
– Maternità negata. Ricerca su vissuti e atteggiamenti nell’IVG – E.Gius, D.Cavanna Ed.Giuffrè 1988
– Che ne sai dell’aborto ? – J&B. Willke Ed. CIC 1995 pagg 95-125
– La scelta di abortire. Motivazioni e sequele psichiche – G. Brera Ed Amici per la Vita 1981
– Guarire la vita – T. Mannion – Ed Gribaudi
– Ma questo è un figlio – Testimonianze di donne vittime dell’aborto –Ed . Gribaudi
– ‘Sono due le vittime dell’aborto’ – Philippe Shepens in Sì alla Vita Giugno 1995pagg43-46
– ‘C’è una correlazione tra aborto e tumore’ in Sì alla Vita Febbraio 1995 pag 44

Note

[1] Dizionario della lingua Italiana Garzanti
[2] L’Io e il Tu –Martin Buber ,pagg 6-8 Ed IRSeF Pavia 1991