I pluralismo delle scuole (non solo quindi, la scuola di Stato) garantisce la libertà di scelta educativa dei genitori e crea le condizioni perché ci sia un positivo confronto per il raggiungimento di standard di maggiore qualità. È, perciò, una opportunità che va sostenuta e promossa nell’interesse di tutti
relazione al convegno
La libertà di educare per crescere tutti,
Università del Sacro Cuore, Milano, 1 Marzo, 2007
di Charles Glenn
All’incirca duemilacinquecento anni fa, Platone mostrò ne La Repubblica che essere veramente liberi, per un uomo o una donna, nel possesso delle virtù della moderazione, del coraggio e della saggezza, richiede una educazione lunga e accurata – ed anche a volte dolorosa finalizzata alla ricerca ed alla conoscenza del Bene divino.
Nella visione elitaria di Platone, una tale educazione e una tale libertà sono alla portata di pochi soggetti, estremamente selezionati che, soli, possono essere educati a rifiutare i miopi pregiudizi dei loro concittadini.
In una società libera e democratica verso la quale sono indirizzati i nostri sforzi, in Italia e negli Stati Uniti, l’educazione possiede un compito ancora più nobile, vale a dire quello di fornire ad ogni cittadino l’ampiezza di conoscenza e gli strumenti di giudizio in grado di assicurare non solo il governo individuale di sé, ma anche il governo condiviso che e l’essenza del sistema democratico
Confessiamo subito di essere molto lontani dal raggiungere un tale risultato, sia a livello individuale che a livello sociale collettivo, e che purtroppo nella cultura contemporanea sono molto più numerosi gli elementi contrari ad una vera educazione, che tengono intrappolata la maggior parte dei nostri concittadini nella caverna delle illusioni.
Confessiamo di non aver imparato come replicare la splendida educazione che alcuni bambini e giovani fortunati ricevono nelle loro famiglie, scuole e associazioni giovanili, accessibile ad una vasta utenza. La giustizia e il benessere della democrazia Io richiedono.
Ecco perché, ovviamente, Platone insiste nel fatto che lo Stato dovrebbe educare i bambini fin dalla loro nascita, così che i genitori altolocati non possano fornire vantaggi ai propri figli. Qui, come avviene cosi spesso nei sogni degli utopisti, una giustizia immaginata richiede la soppressione della più fondamentale delle libertà. E una tale “pedagogie d’état” non solo sopprime la libertà (come è avvenuto sotto i regimi Fascista e Comunista), ma non opera efficacemente per fornire una vera educazione alla libertà.
La vera educazione si trova all’estremo opposto dell’indottrinamento, anche quando questo indottrinamento è finalizzato al raggiungimento di un qualche genere di “personalità democratica”. In un libro che ho scritto venti anni fa, e che è stato tradotto e pubblicato in Italia, faccio riferimento al “mito della scuola unica”.
Con questo titolo, non stavo facendo riferimento al fatto che la scuola statale unica non sia mai stata veramente unica, come i suoi sostenitori hanno sempre preteso. Horace Mann, spesso definito “il padre della scuola statale americana” amava parlare di bambini provenienti da famiglie ricche e povere seduti insieme al medesimo banco di scuola, diventando amici per la vita, ma di fatto è successo molto raramente, sia in Nord America che ancor meno in Europa.
Nei cinquanta paesi del mondo di cui mi sono occupato e sui quali ho scritto, i genitori con risorse ed influenza hanno sempre trovato strade per dare ai propri figli una educazione diversa da quella fornita ai loro concittadini poveri; questo e stato tanto vero nei sistemi socialisti, quanto in quelli basati sul libero mercato.
Né, tuttavia, le scuole gestite dallo Stato sono state necessariamente più democratiche e socialmente integrate delle scuole gestite privatamente. Negli Stati Uniti, per esempio, e senza sussidi statali, le scuole private in tutte le regioni del Paese hanno un livello più alto di integrazione razziale rispetto alle scuole statali.
La ragione? La frequenza alla maggior parte delle scuole statali dipende dal luogo dì residenza e riflette l’economia degli alloggi, laddove le scuole private di solito hanno un bacino d’utenza più ampio. Tra l’altro, lo scorso settembre si è tenuta una conferenza internazionale a Lisbona sul tema delle scuole private e della giustizia sociale, organizzato dall’OIDEL.
No, con “il mito della scuola unica” non mi stavo riferendo al fatto che essa non sia mai stata realmente unica nel senso di servire a bambini di tutte le classi sociali e gruppi etnici. Stavo usando il termine “mito” nel senso di una idea forte che ha condizionato quel che noi pensiamo riguardo all’insegnamento.
L’idea forte su cui io ho scritto venti anni fa è che lo Stato dovrebbe usare la scuola per modellare i suoi cittadini, per raggiungere quel che Guizot nel 1830 chiamò “un governo sicuro delle menti”. Si tratta di un’idea proposta da Rousseau in Du contrai social, e ha costituito il cuore del programma educativo Giacobino durante la fase radicale della Rivoluzione Francese.
È stato il programma dei Bolscevichi in Russia, dei Nazionalsocialisti in Germania, e dei regimi comunisti nell’Europa Centrale e nell’Europa dell’Est. Matti, sarebbe giusto dire che una caratteristica distintiva di ogni regime totalitario – al contrario rispetto ai regimi meramente autoritari – è quella di modellare le menti e i cuori dei giovani attraverso un monopolio statale dell’insegnamento come delle organizzazioni giovanili e degli altri strumenti d’influenza sulle coscienze.
Uno dei contributi della Chiesa Cattolica (e lo dico da Protestante) alla libertà nel corso del ventesimo secolo è stata l’insistenza, laddove possibile, nel mantenere le proprie istituzioni educative lontane dalle ambizioni totalitarie dello Stato.
È per questa ragione che l’indottrinamento di Stato non ha raggiunto la perfezione nell’Italia fascista, in Spagna, in Francia o nella Polonia comunista, come ha fatto invece in Germania o in Russia. Ovviamente, non tutti coloro che sostengono l’unica scuola di Stato hanno ambizioni totalitarie.
Spesso si tratta di riformisti sociali con buone intenzioni, o politici preoccupati di costruire un senso di unità nazionale, che vedono le scuole come uno strumento ideale di politica pubblica per trasformare “dei contadini in francesi” o per “fare gli italiani”.
Nel diciannovesimo secolo, queste ambizioni di solito non si allargavano al raggiungimento di un cambiamento sociale o economico, a opportunità allargate e più eque; le finalità più comunemente erano l’operare un cambiamento di mentalità e comportamento della gente comune, al fine di condurli alla pari con quel che si credeva domandasse la modernità. “Illuminismo del popolo” (volksverlichting) fu lo slogan che ha ispirato e guidato questi sforzi nei Paesi Bassi e in altri paesi, inclusa, sebbene piuttosto in ritardo, l’Italia.
Ne II mito della scuola unica ho descritto tali sforzi in Francia, nei Paesi Bassi, e negli Stati Uniti nel diciannovesimo secolo, e la resistenza che questi hanno sollevato da parte di molti genitori e Chiese, che non volevano cedere il loro ruolo nella formazione della gioventù. Ho descritto quel che ho chiamato “il trionfo della scuola unica” e poi, negli ultimi decenni, “la scuola unica messa in dubbio”. Per la traduzione italiana, ho aggiunto un capitolo sullo sviluppo parallelo in Italia.
Ho scritto questo libro venti anni fa, e sebbene io creda che abbia ancora valore come narrazione storica, il mio pensiero riguardo questi argomenti ha naturalmente subito un grande sviluppo negli anni successivi. Questo sviluppo è stato suscitato non solo da ulteriori ampie ricerche, ma forse più significativamente dall’opportunità che ho avuto di partecipare ed imparare dai dibattiti sulla politica educativa in molti paesi, inclusa l’Italia.
Dirò qualcosa riguardo a come questo riesame ha condizionato il mio pensiero sul ruolo delle scuole in tempo di cambiamento culturale, come questo può influire sulla politica educativa, e quali siano le implicazioni per le scuole statali.
Cambiamento culturale
Nel mio resoconto storico, ho definito il conflitto forse troppo semplicemente come un conflitto tra lo Stato da una parte e i genitori e i gruppi religiosi dall’altra. La mia narrazione non ha tenuto sufficientemente conto dei cambiamenti in ambito culturale; sebbene io abbia sviluppato una discussione ampia delle idee in cambiamento riguardo all’educazione, non ho mostrato come una cultura in sviluppo abbia creato nuovi modi per concepire la natura umana e perciò i fini dell’educazione.
Non ho mostrato come, negli ultimi decenni, la secolarizzazione della cultura nelle società occidentali abbia reso sempre più difficile anche solo parlare di questi argomenti.
Alla fine del diciannovesimo e in gran parte del ventesimo secolo, erano ben definite le posizioni circa i fini dell’educazione; laddove i Cattolici e i Protestanti ne sostenevano uno e i secolari un altro, spesso usando per lo più il medesimo vocabolario per esprimere fini molto differenti.
Cosi Ferdinando Buisson ha scritto di Une foi laique e John Dewey è autore di A Common Faith a fondamento di quella che a volte viene descritta come la “sacra missione” della scuola statale. Oggi, tuttavia, il significato di un tale vocabolario, indicando i propositi più profondi dell’educazione, non è più disponibile per la maggior parte degli educatori.
Gli studenti del dottorato cui io insegno, sono per lo più studenti o direttori scolastici con molti anni di esperienza; sono insegnanti intelligenti, rispettabili e impegnati. La maggior parte di loro, tuttavia, trova difficile formulare una concezione della natura umana che possa servire come fondamento per una vera educazione.
Hanno molte conoscenze riguardo all’istruzione e a come rendere questa più efficace, ma non hanno riflettuto abbastanza – ne la cultura americana li ha aiutati a riflettere – riguardo all’educazione. Alla fine di un seminario per nuovi studenti dottorandi, ho chiesto loro di scrivere sul tipo di educazione necessaria per promuovere lo sviluppo umano: la maggior parte di essi l’ha trovato eccessivamente difficile.
Analogamente, un amico americano che insegna agli insegnanti in una università statale mi ha raccontato recentemente di aver rivolto ai suoi studenti la prima domanda del Catechismo di Westminister: “Qual è il fine principale dell’Uomo?”. Non si aspettava che dessero la risposta del Catechismo, ma che riflettessero su quale genere di essere umano essi desiderano che i loro studenti diventino crescendo, e quindi su cosa essi, in quanto insegnanti, possono fare per incoraggiare e indirizzare tale crescita. Come me, è stato per lo più deluso.
La conclusione – e io credo che questo sia vero in Europa come in Nord America – è che anche quelle scuole che istruiscono in modo ragionevolmente efficace, come misurato dal PISA ed altri programmi di verifica internazionale, spesso non educano adeguatamente. Non essendo in grado di educare, tradiscono sia i loro studenti che le nostre società. E, non essendo in grado di educare, sono anche tipicamente meno efficaci nell’istruire, specialmente quei bambini e giovani che sono a rischio di fallimento educativo.
Il problema, io penso, è che il prevalente scientismo non ci fornisce un vocabolario e dei contesti concettuali che ci permettano di pensare in termini di una natura umana stabile. Siamo cosi consapevoli degli influssi genetici, dello sviluppo e delle influenze culturali su ciascuno di noi, che abbiamo difficoltà nell’identificare cosa sia umano in modo distintivo, e perciò degno di rispetto e incoraggiamento. Snidiamo incessantemente le ultime tecniche e tecnologie per istruire, ma queste non ci possono dire come e perché educare.
Diverse tradizioni religiose forniscono le risorse per riflettere su perché e come dovremmo educare, e sono stati pubblicati testi importanti negli ultimi decenni in Italia, negli Stati Uniti ed altrove, che delineano e riformulano queste tradizioni.
Sfortunatamente, ho l’impressione che anche nelle scuole che sono esplicitamente religiose gli insegnanti spesso abbiano una piccola coscienza di come la loro istruzione e il loro rapporto con gli studenti debba delinearsi sulla base di tale riflessione. E molto più facile per gli insegnanti di queste scuole semplicemente adottare le aspettative prevalenti nella cultura più diffusa nell’approccio al loro lavoro.
C’è anche il pericolo, come avverte Luisa Ribolzi, “che le famiglie cattoliche considerino la scelta di una scuola di ispirazione cattolica come un punto di arrivo delegandole passivamente il compito di educare i propri figli”. Mettere una targhetta su una scuola, sia essa “Cattolica” o “Montessori”, o qualsiasi altra, non basta a fornire a tale scuola una caratteristica distintiva.
Il mese prossimo, come passo verso la considerazione di questo vuoto concettuale, terremo una conferenza alla Boston University con una serie di gruppi di discussione in ciascuno dei quali un rappresentante di scuole Cattoliche, Evangeliche Protestanti, Ebree ed Islamiche rifletterà su cosa si stia cercando di ottenere come educatori.
In che modo essi offrono ai loro studenti un ben fondato apprezzamento delle proprie tradizioni religiose mentre li preparano a vivere in una società pluralistica, sulla base del rispetto per coloro che nutrono convinzioni differenti? In qualche modo, poi, il cambiamento culturale ha svuotato del suo significato la storica rivalità tra scuole statali e scuole religiose. Perché discutere sul diritto dei genitori di soddisfare la propria coscienza mandando i propri figli in una scuola cattolica se tale scuola non riflette, in ogni aspetto della sua istruzione e vita comune, una particolare consapevolezza del “fine principale dell’Uomo”?
E, ovviamente, ciò depone a favore dell’urgenza di chiarire quel che noi pensiamo di dover fare quando educhiamo, e di far questo sulla base dì una matura riflessione circa la natura umana e su come questa fiorisca. Platone ci ricorda che il bene più alto per un uomo o una donna non deriva dal successo mondano o dal consenso, ma dal raggiungimento di un’anima in cui le virtù siano equilibrate.
L’insegnamento e l’esempio di Gesù radicalizzano ulteriormente questa considerazione della fioritura umana, mostrando che può essere perfezionata nella mortificazione. Ma la strumentalizzazione dell’insegnamento – e veramente anche della personalità umana – nel nostro tempo ha reso difficile pensare ad una reale educazione, e ancor più realizzarla.
La sfida della politica statale
II mio libro descriveva un periodo in cui il ruolo dello Stato era quello di estendere la fruibilità dell’istruzione a tutti i livelli della popolazione e ad ogni comunità, se pur piccola e impoverita. Questo scopo era stato perseguito essenzialmente per ragioni civiche, per creare l’unità nazionale, e per diffondere nuove abitudini e atteggiamenti che erano considerati essenziali per il progresso economico.
Come scrisse Massimo D’Azeglio cento-cinquanta anni fa, “purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani!”. Oltre al suo ruolo riguardante l’istruzione, poi, la scuola aveva un ruolo educativo che era molto più importante del diffondere semplicemente una alfabetizzazione, della quale la maggior parte della popolazione faceva un uso minimo nella propria vita quotidiana.
Era lo Stato che definiva i propositi educativi delle sue scuole, laddove la Chiesa Cattolica e i suoi ordini di insegnanti definiva i propositi educativi delle scuole Cattoliche, come i gruppi Protestanti facevano per le proprie scuole. Sebbene gli obbiettivi in fatto di istruzione delle scuole secolari statati e delle scuole religiose non statali fossero largamente simili, i loro obiettivi educativi erano divergenti, e questo portò ad un grande conflitto, soprattutto perché le elites secolari vedevano la Chiesa Cattolica come un pericoloso rivale.
I tempi sono cambiati. Oggi, pochi leaders politici ritengono che la Chiesa Cattolica sia una minaccia per il governo repubblicano e la libertà di pensiero e di fatto, il suo ruolo di critica dei regimi totalitari ha reso chiaro che è vero proprio il contrario. E neppure la Chiesa Cattolica reclama, come ha fatto in passato, un diritto a prendersi carico dell’educazione di ogni bambino battezzato. Oggi, la Chiesa sostiene il diritto e il dovere da parte dei genitori di prendere decisioni a vantaggio dei propri figli e, sebbene spesso a malincuore, i leaders politici stanno riconoscendo questo diritto.
Non è necessario raccontare qui il progresso regolare del riconoscimento nella legislazione internazionale, negli ultimi decenni, del diritto dei genitori di scegliere le scuole da far frequentare ai propri figli. Questo è reso esplicito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948), nel Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (1966), ed altri accordi internazionali.
Più recentemente, è stato sempre più riconosciuto che il diritto dei genitori dì decidere circa l’istruzione dei propri figli è privo di significato se i genitori poveri non possono esercitare questo potere; senza il sostegno del governo, è un diritto vano. Una risoluzione sulla Libertà di Educazione nella Comunità Europea, adottata dal Parlamento Europeo nel 1984 afferma che “il diritto e la libertà di insegnamento implica l’obbligo degli Stati membri di rendere possibile l’esercizio pratico di tale diritto, incluso l’aspetto economico, e di concedere ai centri la sovvenzione pubblica per l’esercizio della loro missione, e il compimento dei loro obblighi in condizioni uguali a quelle di coloro che si servono dei corrispondenti centri pubblici.
“Gli Stati Uniti e l’Italia hanno sfortunatamente tardato rispetto alle altre democrazie Occidentali nel dare riconoscimento pratico a quel che serve per dare la possibilità ai genitori di esercitare i! loro diritto di scelta scolastica senza che questo abbia a che vedere con le loro condizioni economiche.
Secondo un altro punto di vista, che riguarda la capacità delle scuole di dar espressione ai propri progetti educativi specifici, ci sono differenze tra i nostri paesi che sono molto più apparenti che reali: si tratta della decentralizzazione nel processo decisionale riguardante la scuola.
Sebbene negli Stati Uniti ci siano circa cinquecento distretti scolastici locali con autonomia significativa, in Italia c’era fino a poco tempo fa, un singolo sistema nazionale come in Francia. Come Luisa Ribolzi ha scritto recentemente, “La recente riforma dell’articolo V della Costituzione rischia di sostituire al monopolio statale venti monopoli regionali, ma all’interno di una medesima logica”. Anche una ulteriore decentralizzazione a livello municipale come negli Stati Uniti – non può raggiungere l’obiettivo della sussidiarietà. Le singole scuole pubbliche negli Stati Uniti nella maggior parte dei casi non godono di reale autonomia.
Quello che un nuovo importante rapporto italiano intitolato Sussidiarietà ed Educazione definisce “sussidiarietà verticale” – essenzialmente decentralizzazione – può incrementare l’efficienza di diversi servizi, ma solo la “sussidiarietà orizzontale”, secondo la quale le istituzioni della società civile sono totalmente finalizzate ad una struttura di responsabilità pubblica, può adeguatamente incentivare la “cura umana degli esseri umani”.
L’autonomia esiste realmente solo se coloro che sono impegnati nella singola scuola hanno la libertà di dedicare i! proprio progetto educativo. Questo significa che gli educatori professionali, i genitori e, nel migliore dei casi, il consiglio di controllo proteggono gli interessi di lungo termine della scuola e l’integrità della sua missione, non il governo ufficiale.
Questo non è per dire che lo Stato o la Regione o la Municipalità non abbiano un ruolo legittimo ed importante. La funzione fondamentale del governo in una società libera e quella di garantire la giustizia, ma in modo tale da stabilire le minori riduzioni possibili della libertà. La giustizia richiede che ciascun bambino riceva una educazione di qualità adeguata, perciò il governo ha il diritto di esercitare la supervisione sulla qualità della scuola.
La giustizia richiede che il benessere delle famiglie non limiti l’accesso dei propri figli all’insegnamento, o il diritto dei genitori di scegliere tra le scuole, perciò il governo dovrebbe fornire le sovvenzioni per tale accesso e per queste scelte. La sussidiarietà, rettamente intesa, rinforza le funzioni del governo ai diversi livelli conferendogli quel che è il suo ruolo appropriato, rafforza la società civile sostenendone le istituzioni volontarie in quello che esclusivamente esse fanno bene, cioè la cura umana degli esseri umani.
Scuole statali ed educazione
Un tempo, le scuole si occupavano dei cuori dei loro studenti tanto quanto delle loro menti. Negli ultimi decenni, così come le altre istituzioni nella società sono diventate meno capaci di promuovere lo sviluppo del carattere e le virtù civiche e personali, c’è stata anche una ritirata da parte delle scuole statali e di molte scuole non statali da una disposizione ad occuparsi di una tale educazione.
La preoccupazione per le controversie, la preoccupazione di apparire come indottrinatori, l’incertezza su come affrontare la diversità, hanno portato ad un vuoto nella funzione educativa della scuola. Ciò significa forse che le scuole a carattere religioso devono venire alle prese affrontare tali questioni, ma le scuole statali – per il principio di neutralità – devono ignorarle? Ovviamente no! La vera educazione è una responsabilità tanto delle scuole statali quanto di quelle pubbliche, sebbene per le scuole statali può essere materia di particolare difficoltà.
Il mio resoconto storico ne II mito della scuola unica, registra molti esempi dei tentativi da parte dello Stato di imporre una pedagogie d’état tramite le scuole nel tentativo di “fare i cittadini” secondo un modello approvato. Quello a cui io non ho prestato sufficiente attenzione in questo resoconto è il progressivo abbandono di questo sforzo da parte delle scuole statali nelle democrazie occidentali.
Negli Stati Uniti, per esempio, “l’educazione civica” è stata per lo più sostituita dallo studio dei problemi sociali, con poco del vecchio orientamento normativo finalizzato a “fare i cittadini” da una popolazione costantemente diversificata dalla nuova immigrazione.
Non ci sono dubbi riguardo al fatto che la vecchia educazione civica era limitatamente didattica e nazionalistica, e certamente è un bene per i giovani imparare di più sul mondo e prendere in considerazione soluzioni differenti per i problemi attuali. Ma è andato perso qualcosa di prezioso, una consapevolezza che ci sia qualcosa di più da imparare e di cui fare vera esperienza nella scuola, che definisce cosa significa essere Americani – o Italiani.
La concezione di “multiculturalismo” prevalente trent’anni fa (quando molti degli insegnanti di oggi frequentavano loro stessi la scuola) era estremamente incerta nel dare giudizi di valore o nell’affermare la superiorità di uno qualsiasi degli aspetti della cultura dominante. Si trattava di un impulso generoso, ma ha lasciato l’educazione in una confusione concettuale.
Questa confusione è stata sfortunata ma non disastrosa trent’anni fa; è chiaro oggi che le sue conseguenze sono molto serie. Da quando le scuole – come in Italia – iscrivono un numero crescente di bambini immigrati, spesso provenienti da culture non occidentali, trovano difficile trasmettere un messaggio chiaro e persuasivo circa la natura delle nostre società e su come parteciparvi pienamente.
Spesso sembra che il messaggio comunicato a questi bambini sia per lo più una richiesta di scuse per i modi in cui le nonne occidentali per una vita personale e sociale si differenziano da quelle dei loro paesi di origine. Non sorprende il fatto che molti di questi bambini diventino confusi ed incerti su cosa ci si aspetti da loro.
Sforzi periodici sono stati compiuti da parte dei governi (per esempio la Francia negli anni ottanta, l’Inghilterra oggi) per stabilire un corso di studi che affermi le norme della società ospite, ma è evidente che questi sforzi in grande misura falliscono perché l’esperienza quotidiana dei bambini immigrati è di una scuola che è essa stessa confusa circa la natura e le condizioni di partecipazione ad essa, ancor più della società.
Quel che ne consegue è che ogni scuola, comprese le scuole statali, dovrebbe cercare di sviluppare una cultura forte fondata su idee chiaramente trasmesse circa la natura umana e cosa sia necessario per la sua fioritura, ed elaborate localmente nei dettagli dell’istruzione e di tutti gli aspetti della vita condivisa della comunità scolastica. Le scuole non dovrebbero semplicemente rispecchiare le norme più diffuse nella società, meno che mai quelle descritte dai media e sempre più spesso acriticamente accettate dai giovani.
È compito della scuola rappresentare un’alternativa forte e contrastando all’interpretazione della realtà, soprattutto offrendo agli studenti un modello alternativo di pari cultura, con l’esempio di adulti che sostengano il loro sviluppo alla vita adulta con vite virtuose e fiorenti.
La sociologa Luisa Ribolzi ha indicato il “diritto/dovere delle comunità funzionali a occuparsi della formazione”. Lo Stato moderno, insisteva Rousseau, non è una tale comunità funzionale, perciò non può educare i cittadini. Le vere comunità funzionali, spiega la Ribolzi, “si basano sul senso di appartenenza, a volte legato al territorio, a volte, sempre più spesso, delocalizzata, e definita dal riferimento ad un sistema di valori e modelli culturali comuni.” Sono tali comunità, create nelle e intorno alle scuole, che possono veramente educare.
Ma le scuole statali possono funzionare in questo modo, o sono obbligate ad offrire una sorta di riflessione sul minimo comun denominatore delle culture circostanti? Se devono educare piuttosto che semplicemente istruire, devono avere una cultura scolastica chiara e definita, fondata su una comprensione chiara e definita della natura umana.
Com’è possibile questo, in una società pluralistica in cui lo Stato dovrebbe rimanere neutrale tra le diverse visioni del mondo rappresentate dalla sua popolazione?
È possibile solo se le singole scuole statali hanno un grande spazio di autonomia nel delineare una cultura scolastica che rifletta le convinzioni degli insegnanti che lavorano nella scuola, e sulla base della quale i genitori scelgano la scuola per i loro figli. Ecco perché le statali “charter schools” si sono diffuse così rapidamente negli Stati Uniti, e perché modelli simili hanno trovato un tale successo in Inghilterra, Nuova Zelanda, Canada, ed altrove nel mondo di lingua Inglese.
Una Charter School è una scuola statale, approvata dallo Stato, che deve soddisfare tutti i requisiti di non discriminazione e di verifica degli studenti, ma che funziona autonomamente alle dipendenze del suo consiglio costituito da coloro che hanno fondato la scuola e da coloro che questi hanno scelto per sostituirli e portare avanti la loro visione dell’educazione. È essenziale il fatto che le Charter Schools sono libere di selezionare il proprio personale sulla base del compito e della natura caratteristiche della scuola, e perciò che ogni scuola sia in grado di conservare ed elaborare la propria particolare cultura.
Non c’è alcun elenco (graduatoria), come in Italia e nella maggior parte dei sistemi scolastici municipali americani, dal quale gli insegnanti vengono designati.
Le scuole statali possono, così come quelle non statali, avere una natura caratteristica, una cultura forte basata su valori condivisi e una concezione condivisa su quel che è necessario per la fioritura umana.
Io sto sostenendo che non solo possono, ma che devono, sviluppare una tale natura e cultura se hanno il fine di educare e non semplicemente di istruire. Le scuole che non educano possono di tatto indebolire l’educazione che i loro studenti hanno già ricevuto a casa, o in chiesa o nei gruppi giovanili.
Questa crisi delle regole, del senso della vita, che vediamo tra i giovani in ogni nazione occidentale non può essere risolta senza che le scuole – statali e non statali – si spoglino della loro diffidenza nel formare una forte cultura scolastica che fornisca ai giovani una alternativa alla degradante amoralità e al nichilismo della cultura popolare.
Una forte cultura scolastica è sempre fondata su un senso dell’esistenza diverso e caratteristico, sebbene nella realtà molte scuole con una solida cultura risultino essere molto simili. Non è l’effettiva caratterizzazione a fare la differenza, ma il fatto che le persone della scuola, gli adulti tanto quanto gli studenti e i loro genitori, sono coscientemente impegnati in un continuo sostegno nella definizione di ogni aspetto della vita scolastica fondato su un compito chiaramente compreso.
Si tratta della capacità di dire “no, non si può fare”, quanto di dire “si, lo dobbiamo fare” e di raggiungere entrambe le decisioni sulla base della concezione condivisa di quel che la scuola sta cercando di realizzare nella vita dei suoi studenti; che formi, nel tempo, il genere di cultura scolastica in grado di formare un carattere che duri tutta la vita per l’esistenza di questi studenti.
Le migliori scuole, le scuole d’elite, sia statali che non statali, hanno sempre fatto questo, ed è questo il motivo per cui i loro diplomati tornano dieci, trenta o cinquanta anni più tardi per esprimere la loro continua affezione.
La sfida per quelli di noi che si trovano in posizioni influenti è di adottare politiche che permettano ad ogni genitore, anche povero, di scegliere una scuola con un carattere distintivo. La sfida è anche quella di adottare politiche che permettano alle scuole di avere dì fatto delle caratteristiche distintive. E la sfida per quelli di noi che lavorano nelle scuole o che preparano gli insegnanti – la sfida più grande ed eccitante – è di riflettere su quel che è necessario per i nostri alunni (o gli alunni dei nostri studenti) per fiorire, sulla base di una comprensione ricca e non riduttiva della natura umana.