Il 10 dicembre scorso sono stati celebrati i sessantanni della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che venne adottata a Parigi nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (non senza astensioni significative). Marina Casini – docente presso l’istituto di Bioetica dell’Università cattolica di Roma nonché autrice di lucide pagine sul testamento biologico e la vicenda Englaro – ripensa i diritti originari dell’uomo, per sé medesimi recepiti nella Dichiarazione, alla luce delle nuove questioni circa la vita e la morte poste dagli sviluppi della medicina e delle biotecnologìe. Invalidati i sofismi di un certo razionalismo scientifico e confutata l’accusa di biologismo rivolta agli assertori della vita dal concepimento alla sua fine naturale, Marina Casini indica in ultimo la via regia per arginare la deriva relativistica che inquina la riflessione bioetica: essa sta nel riconoscimento del mistero della persona umana che trascende ogni sperimentazione lesiva del suo statuto ontologico, poiché, con richiamo a Benedetto XVI, l’uomo è realtà sacra.
di Maria Casini
È nota, infatti, la densità simbolica di questo documento (approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948), così come risapute sono sia le novità introdotte rispetto alle precedenti carte dei diritti, sia l’influenza esercitata sul piano dell’ordinamento giuridico internazionale e su quello degli ordinamenti dei singoli Stati. Capograssi. tuttavia, alludeva alla svolta della Dudu rispetto alla profonda crisi antropologica che negli anni immediatamente precedenti aveva gettato l’umanità «in un mondo caratterizzato dalla morte e dall’incubo» (2).
Alla base della Dudu è, infatti, l’«etica della vita», tanto che alcuni studiosi ravvisano la nascita della bioetica ante litteram nel momento della ricerca della fondazione elica dei diritti umani. D’altra parte, il legame tra la dottrina dei diritti umani inaugurata nel 1948 e la bioetica non si esaurisce nel momento originario della Dudu, ma prosegue sotto l’incalzare delle sfide lanciale ai diritti dell’uomo dalle possibilità tecnologiche, dalle scoperte scientifiche e dalle trasformazioni sociali.
In ogni caso è la questione antropologica che emerge con forza. Essa condiziona il fondamento e l’interpretazione dei diritti umani. Nello stesso tempo essa condiziona il biodiritto, che mentre va arricchendosi quanto a contenuti (come dimostra l’intensificarsi delle legislazioni, della giurisprudenza e delle numerose normative di diversa natura che intervengono sui temi della bioetica) si impone sempre di più all’attenzione generale assumendo un carattere intercontinentale.
Il diritto dopo la catastrofe
La moderna idea dei diritti umani, inaugurata dalla Dudu – in stretto collegamento con i «Processi di Norimberga» – è, in sostanza, legata non solo alla volontà di uscire dalia «morte» e dall’«incubo», ma anche alla speranza di realizzare un progetto di pace, di giustizia e di libertà per tutti gli uomini. La «morte» e l’«incubo» erano causate dalla diffusione di teorie (e conseguenti pratiche) che distinguevano tra «vite degne di vivere» e «vite non degne di vivere» (3).
La «catastrofe» fu l’esito nefasto di «una falsa, ma centrale idea dell’umanità e della vita». Un’idea per la quale «l’umanità non ha valore in sé […] quello che vale è il fine, lo scopo che i gruppi dominanti vogliono realizzare e verso il quale vogliono avviare l’individuo»; un’idea che «ha cacciato dall’animo di nostri contemporanei l’idea dell’uomo. Ha abolito in molte coscienze l’idea dell’uomo.
Vale a dire, per parlare con più chiarezza, ha tolto dall’animo di molti nostri contemporanei la persuasione che tutti gli uomini sono uomini. L’uomo non ha valore in sé, ma soltanto per quel valore che il gruppo dominante impone come imperativo e regolativo di una data società; ed in quanto partecipa di questo valore […]. Chi non partecipa è altra cosa, non ha valore di uomo, non vale come uomo […]. Ora tutto questo […] è possibile in quanto si trovano uomini che concepiscono, progettano, mettono in opera queste cose. E non si tratta di pochi uomini, ma di masse di dirigenti ed esecutori» (4).
Dal «tremendo della crisi» antropologica il passo verso la crisi della medicina e del diritto è stato consequenziale. Le atrocità che venivano praticate nei campi di sterminio erano in gran parte sostenute da operatori della sanità e venivano utilizzate espressioni di tipo sanitario per «mascherare» quelle condotte di violenza e brutale sopraffazione. La scienza si era allontanata dalla sua funzione di servizio alla vita tramutandosi in forza distruttiva della vita umana. Nello stesso tempo la fiducia incontrastata nel diritto positivo (ius positum) come unico diritto giusto aveva raggiunto l’estremo fallimento: la sistematica eliminazione di vite umane era legale, cioè approvata e sostenuta dalla società organizzata attraverso le leggi.
Per questo, «svegliata la sua attenzione dall’accanirsi della storia sopra l’individuo, l’umanità nella sua parte più viva ha intuito la vera fonte di tutti i pericoli proprio in quella idea mortale dell’individuo come forza vuota e disponibile […] e perciò quasi per contrapposto […] ha proclamato che alla base di tutto il mondo umano […] è [.,.] l’uomo come tale con l’esigenza fondamentale di essere quello che è; e alla base della ricostruzione ha posto l’uomo come valore originario e finale con i suoi diritti fondamentali» (5).
Il «diritto dopo la catastrofe» è dunque il diritto che per garantire la giustizia non si affida esclusivamente alla norma formalmente «presentata in un modo particolarmente stabilito, prodotta secondo una regola del tutto determinata, posta secondo un metodo specifico» (6), ma si affida all’etica della vita umana come principio elementare di giustizia sostanziale che la norma positiva deve rispettare.
«Non c’è che da reintegrare nell’ordine giuridico la vita umana in tutto il suo effettivo contenuto […]. Perciò l’unico possibile fondamento a un ordine, che voglia essere ordinamento di vita e non di morte, è nient’altro che questa intima costituzione della vita; rispettare la vita come è, con le leggi, le esigenze, i fini, le condizioni che sono sue. lasciare che la vita viva e svolga secondo le profonde leggi che fanno la sua verità. Ma rispettare la vita significa, per dirla in termini semplici, fare in modo che la vita sia vita per tutti» (7).
Di qui la Dichiarazione universale del 1948 che fonda i diritti dell’uomo sulla dignità umana, nel cui riconoscimento sta l’energia morale per costruire un nuovo ordine mondiale basato sulla pace, sulla giustizia, sulla libertà. Rinasce il diritto naturale e si modella l’idea del bene comune come realizzazione del bene di tutti e di ciascuno a partire dal vincolo solidaristico che nasce dal riconoscimento dell’uguale dignità e fondativo di un’autentica democrazia.
II contenuto della dignità umana
II riferimento alla dignità umana viene ripetuto in tutti i documenti (Patti, Trattati, Convenzioni, Costituzioni…) successivi alla Dudu che fanno riferimento ai diritti umani. Tuttavia, anche se i testi non definiscono la dignità né ne spiegano l’origine, essi offrono alcune indicazioni assai importanti per coglierne il contenuto: la dignità non si concede, né si attribuisce, ma si «riconosce»; esprime il valore finalistico dell’uomo; è «inerente» all’essere umano; è la ragione dell’uguaglianza tra tutti gli uomini.
Essa, dunque, non dipende da una decisione, ma da una costatazione (il «riconoscimento»); indica che l’essere umano è un valore in sé, mai oggetto ma sempre soggetto, mai mezzo, ma sempre fine. Essa affonda le sue radici nel solo fatto dell’«essere» essere umano. Nella molteplicità delle differenze tra gli esseri umani, c’è un solo aspetto comune a tutti, una sorta di comune denominatore che ogni uomo possiede per il solo fatto di esistere: la comune umanità cui «inerisce» la dignità. Insomma, esistenza e dignità umana coincidono.
Di qui la dignità «uguale»: essa è dunque qualcosa di così elevato che non consente graduazioni e comparazioni. Non ci può essere un «più» o un «meno» di dignità, perché essa esprime l’eccellenza nel valore, anzi, l’eccellenza suprema che indica anche una diversità rispetto a tutto il resto della natura. Si può ritenere che «il riconoscimento del valore degli animali e dei vegetali è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo»? Naturalmente anche gli animali e le piante meritano rispetto, ma la dignità umana implica qualcosa di assoluto (8).
Per questo, la dignità nel suo nucleo essenziale è sinonimo di «diritto alla vita» e di «persona»: il diritto alla vita è la prima espressione della dignità umana e ogni essere umano è sempre persona (9).
Se la dignità è uguale, essa esprime dunque una realtà a un tempo straordinariamente grande e misteriosa: grande, perché avvertita come necessaria per assicurare legittimità agli Stati e dare speranza ai loro progetti di pace, di giustizia, di libertà; misteriosa, perché non afferrabile dai sensi, non quantificabile, non sperimentabile né tangibile materialmente, eppure capace di affermare il primato dell’essere sull’avere e sull’apparire.
Essa rinvia dunque a un «oltre», a una dimensione trascendente dell’uomo visibile con lo «sguardo della mente» che riconosce al di là delle diverse apparenze un’uguale sostanza. Non è pertanto scorretto definire la moderna idea dei diritti umani «religione civile» o «religione laica». Del resto, una sensibilità religiosa – pur senza riferimenti a un Essere Supremo – è dimostrata dall’uso della parola «fede». Al punto n. 5 del preambolo si legge, infatti: «I popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana».
Il contenuto della dignità umana è reso evidente dal cammino intrapreso per abolire la pena di morte, la cui tappa più recente è la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che ha approvato la moratoria universale contro la pena di morte (18 dicembre 2007). Nel dibattito su tale pena estrema – che a lungo è stata la sanzione per eccellenza nei confronti di comportamenti criminosi – vengono proposti anche argomenti di carattere pratico, tra i quali i più forti a favore del divieto sembrano quelli della possibilità di errore giudiziario, dell’impossibilità dell’emenda da parte del condannato, dell’inefficacia della funzione di prevenzione generale dei reati.
Tuttavia sono immaginabili situazioni in cui la prova d’accusa è assolutamente certa, non è ragionevolmente prevedibile un cambiamento di vita del colpevole, è possibile una funzione deterrente. Tuttavia, la coscienza moderna rifiuta la pena di morte. La ragione principale è che la vita umana è una «frontiera intransitabile» (10) e che il fine non giustifica i mezzi: «L’uso della pena di morte – si legge nella risoluzione dell’Onu del 2007 – mina la dignità umana», per questo i membri dell’Assemblea generale dell’Onu si dichiarano convinti che «una moratoria sulla pena di morte contribuisca al miglioramento e al progressivo sviluppo dei diritti umani».
Una nuova questione antropologica
II continuo evocare i diritti umani nel nostro tempo rivela la straordinaria funzione pensata per essi. Purtroppo, però, a distanza di sessantenni anni, la lontananza dalla concreta attuazione degli ideali indicati nella Dichiarazione universale è evidente. Se da un lato viene sottolineata l’importanza dei diritti umani e si moltiplicano gli sforzi per classificarli, catalogarli, ampliarli, strutturarli (diritti di prima, di seconda, di terza, di quarta generazione), dall’altro assistiamo ai continui tradimenti di quanto affermato nella Dudu e nelle moderne carte dei diritti umani.
L’aspetto più drammatico non riguarda tanto – sebbene si tratti di violazioni gravissime – le violazioni de facto, quanto le violazioni de iure che – proprio perché de iure – non vengono considerate violazioni, ma «progressi» e «conquiste». Attraverso il veicolo delle leggi, le minacce alla vita umana diventano fatti organizzati, promossi e pianificati (anche a livello sanitario ed economico), assumendo i caratteri della sistematicità e della programmazione da parte della collettività, cancellando nelle coscienze il valore della vita fino a negare l’esistenza dell’uomo.
Il riferimento è a tutti quei tentativi di introdurre tra i diritti umani fondamentali pretese-istanze che offendono profondamente la radice stessa della Dichiarazione universale, perché teorizzano come giusta, in nome della libertà individuale, la soppressione dell’uomo e la discriminazione tra diverse categorie di esseri umani (11).
Scollegati dall’ordine dell’essere, i diritti umani divengono strumenti della volontà individuale volti a soddisfare pretese-istanze, presentate come «nuovi diritti civili», avanzate proprio sul terreno delle nuove frontiere della scienza e della medicina (alle quali si chiede assistenza) e nell’ambito sociale, politico e legislativo (cui si chiede il riconoscimento pubblico mediante la legge).
Che al fondo vi sia ancora una volta la questione antropologica risulta anche dalla tendenza a collegare la titolarità dei diritti a entità impersonali («diritti della scienza») o a esseri appartenenti al mondo animale («diritti degli animali»; «diritti umani degli animali»).
In una prospettiva relativista i diritti umani divengono volubili e variabili regole pragmatiche di funzionamento della società, dipendenti dal consenso della maggioranza espresso secondo certe forme e procedure: ciò che oggi è considerato diritto fondamentale domani potrebbe non esserlo più. Questo approccio consensuale-procedurale ai diritti dell’uomo oscura il contenuto della dignità, distrugge il collegamento tra dignità e uguaglianza, non valuta il senso della «inerenza» della dignità all’essere umano come tale.
La questione fondamentale è perciò quella antropologica: occorre dare solidità e verità ai diritti umani sottraendoli alla deriva che giunge persino a utilizzarli contro l’uomo. In questo senso la riflessione nell’ambito della bioetica offre una straordinaria occasione per rifondare sull’uomo i diritti dell’uomo. L’umanità che incontra la bioetica è, infatti, la più fragile strutturalmente e socialmente a rischio della più aspra emarginazione, quella autorizzata dalla legge. Il campo della bioetica si può considerare, dunque, il campo della «verità sull’uomo». Questo spiega perché la questione antropologica nel campo della bioetica riguarda profondamente l’intera dottrina dei diritti dell’uomo a partire dal suo fondamento.
Di fronte alla vita, strutturalmente fragile
Cerchiamo allora di comprendere l’altezza della sfida nei campi in cui attualmente è particolarmente intensa la cosiddetta questione antropologica: l’ambito della vita che inizia, che è devastata dalla disabilità o da una malattia inguaribile, che volge al tramonto.
Nel campo della vita nascente, la sfida antropologica dei diritti umani passa attraverso due situazioni: quella della gravidanza e quella della procreazione artificiale in vitro. In entrambi i casi è in gioco il diritto alla vita del concepito, ma diversa è l’intensità della sua aggressione. La particolarissima situazione della gravidanza (un essere umano che vive e cresce dentro un altro essere umano) ha reso facilmente eludibile la risposta alla domanda sull’identità del concepito e, sebbene l’aborto legale costituisca un gravissimo ed evidente vulnus, nei Paesi dove esso è legittimato l’atteggiamento prevalente può essere sintetizzato con la parola «tolleranza»: in generale l’aborto volontario è considerato un fatto negativo («dramma», «trauma») e sono lodate le donne che, nonostante le difficoltà, portano a termine la gestazione.
La procreazione artificiale in vitro (Pma), nel momento stesso in cui ha reso possibile «vedere» il concepito al di fuori del grembo femminile, ha offerto molteplici possibilità manipolatorie degli embrioni umani che implicano in numerosi casi la loro soppressione premeditata, al punto di decidere di generare embrioni umani sapendo di esporli alla morte o a danni (generazione di embrioni «soprannumeraria che poi diventano «residui», «superflui», «eccedenti»; congelamento come prassi che accompagna le tecniche di Pma), in vista di un uso letale (sperimentazione distruttiva) o al fine di «eliminarli» se ritenuti «difettosi» (diagnosi genetica pre-impianto).
Nel caso della Pma l’atteggiamento di incoraggiamento di fronte al desiderio del figlio e all’immagine di una coppia con un bel neonato sano in braccio arriva a occultare la distruzione di diversi altri piccolissimi figli generati in provetta, al punto da ritenere «dramma» il divieto di distruggere quelli ritenuti portatori di anomalie genetiche.
La sfida emerge in modo esplicito: il riconoscimento della dignità umana «inerente» e «uguale» in un essere umano che sembra un minuscolo «puntino», esige un più elevato impegno della razionalità umana e dell’idea dei diritti dell’uomo.
Il livello più alto della sfida si pone in modo ultimativo nel campo della ricerca mediante l’impiego di cellule staminali al fine di guarire gravi e diffuse malattie neurodegenerative fino a ora non sanabili. A prescindere dall’argomento secondo cui le ricerche più promettenti riguardano le cellule staminali provenienti da tessuti adulti o dal cordone ombelicale e trascurando le notizie circa l’indimostrata funzione terapeutica delle cellule staminali embrionali, resta comunque l’interrogativo di fondo. È giusto uccidere embrioni umani (generati ad hoc, «avanzati» da un «progetto parentale», donati) nelle primissime fasi della loro vita per estrarre cellule allo scopo di salvare (o di tentare di salvare) la vita e la salute di malati adulti?
Se quanto viene distrutto fosse una cosa, l’atteggiamento conseguente sarebbe il dovere – non solo giuridico, ma anche morale – di utilizzarlo per il nobile fine di guarire degli esseri umani. Viceversa, se gli embrioni umani sono esseri umani «a pieno titolo» – come ha riconosciuto anche il Comitato Nazionale per la Bioetica (12) -, allora la loro destinazione alla scienza è il primo passo di una deriva terribile. La sfida, dunque, può essere vinta soltanto accogliendo in un contesto saldo l’idea dei diritti umani e riconoscendo perciò, senza prudenze diplomatiche, il concepito come un soggetto. È in gioco il significato di fine e non di mezzo di ogni singolo essere umano.
Sull’altro versante, quello del «morire», minacce non meno gravi incombono anche sui malati inguaribili, sui soggetti che si trovano in quella situazione di «devastante disabilità» chiamata «stato vegetativo» e sui morenti. L’attuale contesto sociale e culturale rende particolarmente difficile affrontare la sofferenza e acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l’anticipare la morte al momento ritenuto più «opportuno». Le difficoltà della sfida in questo campo si collocano nella complessità e nell’intreccio dei valori e delle questioni in gioco.
Le problematiche di fine vita sono infatti caratterizzate da un ingorgo semantico e concettuale che può rendere particolarmente arduo il discernimento delle situazioni. Le difficoltà aumentano se consideriamo che nel dibattito attuale il criterio del discernimento è dato dalla «scelta» (attuale o anticipata) del soggetto in ordine alla «sua» vita.
È stato scritto che la possibilità di decidere autonomamente se esistere o non esistere è il fondamento di ogni altra libertà. La questione antropologica anche su questo fronte lancia la sfida altissima dell’uguale dignità della vita umana, tuttavia il criterio dell’autodeterminazione secondo cui ciascuno decide per sé che cosa sia la dignità e quando di conseguenza sia «opportuno» morire, impone un supplemento di riflessione.
A parte la questione ben più impegnativa del significato, dei presupposti e del contenuto della libertà autentica, tale riflessione investe soprattutto il contesto relazionale e sociale in cui matura la «scelta di morire». A fronte della richiesta (attuale o anticipata) del singolo di anticipare la morte (sia in modo «attivo», sia rifiutando trattamenti proporzionati e ordinari), quale dev’essere la risposta della società alla luce della moderna idea dei diritti umani?
La valutazione del singolo circa la dignità della sua vita come si misura con la valutazione degli altri? Per rispondere proviamo a pensare se nella valutazione sociale vi è differenza tra la scelta di morire del giovane sano, bello, ricco e intelligente e la stessa scelta del malato inguaribile o del gravemente disabile.
Alcuni sostenitori della legalizzazione dell’eutanasia e del testamento biologico non negano l’esistenza del diritto alla vita, neppure negano in via generale il principio di indisponibilità della vita umana, né vogliono cancellare completamente la fattispecie delittuosa dell’«omicidio del consenziente».
Essi affermano, però, che in presenza di una malattia inguaribile, di una condizione di pesante disabilità irrecuperabile, o in caso di perdita di coscienza e di «vita di relazione», la vita diventa disponibile e il soggetto può decidere (nel contesto della situazione reale o, anteriormente, al di fuori di essa) di morire (mediante la richiesta al medico di «fare», di «non fare») col conforto della legge, cioè dell’espressione più importante della società organizzata.
Qual è, dunque, l’elemento che differenzia la decisione – avanzata al cospetto di terzi ai quali si chiede collaborazione anche semplicemente nel senso di «non fare nulla» – di morire del.giovane sano e di belle speranze rispetto alla stessa decisione del malato o del gravemente disabile? Perché solo nel secondo caso viene invocata la libertà e il «diritto di disporre di sé stessi» è ritenuto meritevole di protezione legislativa?
È evidente che l’elemento differenziale va ricercato nella diversa valutazione che viene data sulla vita non tanto da parte del soggetto stesso, quanto da parte degli altri (13). Mentre nel primo caso la vita non merita di essere eliminata perché è ritenuta un «valore», nel secondo lo merita perché non «vale» più niente.
Nel primo caso alla valutazione del singolo («La mia vita non vale niente, non ha senso, ho perso ogni dignità») si sovrappone la contrapposta valutazione degli altri, della società («Non ti permetto di farla finita: la tua vita è importante»); nel secondo caso alla valutazione del singolo («In questa situazione la mia vita non ha senso, non ha alcun valore, sono inutile, sono un peso»), non si contrappone una diversa valutazione della società, ma – specialmente in presenza di una legge che lo permette – vi è un avallo se non addirittura una «spinta» verso la conclusione di «farla finita».
In tal modo, però, si introduce quella violazione del principio di uguaglianza già incontrata sul versante della vita nascente, e si recide la radice di ogni autentico legame tra gli uomini. Questo, infatti si fonda sul riconoscimento di una dignità «uguale» e «inerente» a ogni essere umano: se il singolo ritiene che la sua vita non sia «più degna», è l’altro (gli altri, la società) che dovrebbe, nonostante tutto, continuare a riconoscerne il valore.
Recidere questo elementare vincolo significa negare un minimo comune denominatore tra tutti gli uomini, impoverire le relazioni interpersonali e modellare una società come insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, senza solidi legami reciproci.
La sfida della ragione
L’accusa di «biologismo» mossa nei confronti della difesa della vita umana allo stadio embrionale, della vita umana fortemente disabile, gravemente malata o prossima alla morte, è frutto dell’incomprensione per ciò che in realtà riguarda la più alta e limpida espressione dei principio di uguaglianza.
Tale incomprensione va di pari passo con la rinuncia a quella sete di conoscenza che è propria della ragione o, peggio, porta ad abdicare alla ragione stessa e a usarla per costruire l’inganno. La convivenza umana subisce le conseguenze più vistose di questo smarrimento della ragione.
Il cambiamento delle definizioni e dei concetti per un esclusivo atto d’imperio dei padroni dell’informazione è un espediente tanto frequente quanto efficace per obnubilare la ragione. Così l’aborto è divenuto «interruzione volontaria della gravidanza» e la madre semplicemente «donna»; la fecondazione artificiale «procreazione medicalmente assistita»; il farmaco che si assume appositamente per distruggere il concepito nell’arco di 72 ore da un rapporto «non protetto» viene chiamato «contraccezione di emergenza»; le politiche internazionali volte a promuovere sterilizzazione, contraccezione, aborto, vengono chiamate «salute riproduttiva» e «diritti sessuali e riproduttivi»; la clonazione di embrioni umani al fine di usarli sapendo di distruggerli a scopo «terapeutico», viene chiamata semplicemente «clonazione terapeutica»; l’essere umano nella fase più giovane della sua esistenza viene chiamato (pre-embrione», «corpo embrioide», «ootide», «prezigote»; la diagnosi genetica pre-impianto volta a selezionare eugeneticamente gli embrioni «difettosi» o ritenuti tali viene presentata come «terapeutica»; l’omicidio del malato inguaribile o del disabile irrecuperabile consenziente diviene un «atto di pietà» e atto di «rispetto del diritto di autodeterminazione»; il rifiuto della vita e il rifiuto di vivere una responsabilità verso l’altro vengono interpretati come «rifiuto delle cure»; l’eutanasia è circoscritta alla sola dimensione «attiva» e «tecnica», come se la deliberata e diretta anticipazione della morte non potesse avvenire anche per omissione e non avesse la logica di eliminare sofferenza e sofferente; l’accanimento terapeutico – il cui rifiuto esprime l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte – è interpretato in chiave esclusivamente soggettivistica (è «accanimento» qualsiasi intervento che «eccede» la volontà individuale del paziente) e/o in chiave discriminatoria (è «accanimento» ogni trattamento ritenuto inutile rispetto a una situazione in cui si ritiene che la dignità umana sia ormai compromessa per la perdita «irreversibile» di funzioni importanti).
Per recuperare l’uso della ragione occorre chiamare le cose con il loro nome, rifiutare e smascherare l’inganno, assecondare la sete di conoscenza della realtà. Qui il discorso tocca la questione antropologica e il fondamento dei diritti umani. La sete di conoscenza della realtà umana sa affidarsi non solo alla visibilità fisica, alla sperimentabilità materiale e tangibile, alla conoscenza data dai sensi e dai sentimenti, ma si appella a una fonte conoscitiva diversa che va oltre le apparenze.
La sfida della ragione sta nella sua capacità di «vedere» oltre il «visibile». La ragione come «sguardo della mente» è la capacità di «cogliere» un «oltre» al di là di ciò che «si tocca» e «si sente». La sfida della ragione è suprema proprio di fronte alla vita che inizia, che soffre e che muore, perché è chiamata a quello sguardo (non irrazionale, ma iperrazionale) capace di vedere nell’embrione umano la stessa dignità del bambino di tre anni e nel malato inguaribile, nel disabile grave o nell’anziano in declino psico-fisico, la stessa dignità del sano e del giovane aitante.
Si tratta di passare dal fenomeno (I’«uomo-materia» colto dalla vista dei sensi) al fondamento (l’«uomo-mistero» colto dalla vista della mente), quel fondamento necessario per rinsaldare la moderna idea dei diritti umani.
Uguaglianza & solidarietà
La forza espansiva del principio di uguaglianza ha raggiunto il suo traguardo nella proclamazione dei diritti dell’uomo, e si è manifestata nel senso che non può esistere differenza tra il concetto naturalistico-biologico e il concetto giuridico di essere umano: è uomo ogni «essere vivente appartenente alla specie umana».
Di fronte agli stimoli della scienza, della tecnologia, delle trasformazioni sociali si può provare a riprendere la tesi di Giorgio La Pira secondo cui «le fondamentali forze che danno moto e finalità alla storia non sono quelle constatabili e visibili della superficie, sono quelle invisibili del profondo: forze invisibili analoghe alle correnti che muovono gli abissi degli oceani» (14). Ora, può dirsi che tra le «forze invisibili del profondo» sia presente un moto storico che rende sempre più evidente, comprensibile, esigente la dignità umana.
Questo moto ha già liberato dalla sottomissione intere categorie di esseri umani e ha affermato i diritti degli stranieri, degli schiavi, dei neri, degli indios, delle donne, dei bambini. E stato più lungo e meno facile di quanto l’evidenza suppone. Oggi il principio di non discriminazione in nome dell’uguale dignità dì ogni essere umano dev’essere riconosciuto nell’ambito delle diverse età e condizioni di una medesima esistenza umana con riferimento alle fasi apparentemente marginali. Se il nucleo della laicità consiste nel riconoscimento dell’uguale dignità di ogni essere umano, l’evoluzione culturale di cui stiamo parlando chiede di essere dispiegata fino alle sue ultime conseguenze.
Modernamente, in quanto finalizzato alla difesa della uguale dignità di tutti, il marchio, il timbro della giuridicità, è l’uomo debole: dal principio di uguaglianza nella dignità scaturisce quello di solidarietà. «Chi fa appello al diritto? Chi non può difendersi da solo, chi ha bisogno di una forza supplementare, chi è oppresso e subisce ingiustizia, chi è debole. Ultimamente il diritto è la forza dei deboli. I forti, gli autorevoli, possono difendersi da soli; se sono giusti, possono far valere la giustizia da soli. I piccoli, no. Hanno bisogno del diritto per difendersi dalle ingiustizie dei forti e degli autorevoli» (15).
È colui che non conta, che è incapace di affermarsi da solo nel suo uguale valore, che fa appello al diritto. La legge non è il comando del più forte, ma la forza prestata al più debole. Lo Stato è tale non perché è la più complessa organizzazione umana, ma perché si pone come il forte difensore dei deboli. Tanto più inquietante, perciò, è la questione dell’embrione umano, cosi come del soggetto in «stato vegetativo», o di chi è devastato da una malattia inguaribile: sono situazioni in cui l’uomo incarna un’estrema debolezza e povertà umana.
«Lo sguardo sull’altro decide la mia umanità»
Come rifondare dunque sull’uomo i diritti dell’uomo rendendo «intransitabile» la «frontiera della vita umana»? La via è quella di collocare la dignità umana all’interno di un «mistero» che trascende la dimensione sperimentabile dell’esistenza rendendola inviolabile: res sacra homo. Si tratta di un «mistero» percepibile con la forza della mente pensante e della coscienza ragionante di chi osserva.
Ecco perché Benedetto XVI, quando era cardinale, in un celebre discorso del 1987 tenuto in occasione di un Convegno promosso dal Movimento per la Vita su Il diritto alla vita e l’Europa ha sottolineato che «lo sguardo che porto sull’altro decide della mia umanità. […] L’altro è custode della mia dignità. […] Questo sguardo sull’altro custodisce la verità e la dignità dell’uomo: l’uomo ne ha bisogno per essere se stesso e non smarrire la sua identità nel mondo delle cose» (16).
Come ricordato, secondo la loro stessa storia e la loro logica i diritti dell’uomo arrivano a toccare il mistero attraverso un metodo induttivo che parte dall’esperienza del dolore. L’esperienza e il postulato rimandano – con sensibilità religiosa – a un mondo in cui l’uomo è sottratto al regno delle cose e vale di più. Su questa strada l’antropologia cristiana – che dimostra la dignità umana deducendola dall’amore di Dio Padre, Creatore e Salvatore -ha facile modo di introdursi e offrire così alla società civile il proprio contributo per affrancare i diritti dell’uomo da logiche dimentiche dell’uguale dignità inerente a tutti e a ciascuno.
Se la radice della dignità umana sta nella trascendenza dell’uomo, la questione antropologica può essere il mirabile luogo dell’incontro tra la fede e ragione. L’estrema povertà e fragilità dell’essere umano «nei momenti più emblematici dell’esistenza, quali sono il nascere e il morire» (17), mette così alla prova decisiva i moderni ordinamenti giuridici e la complessa organizzazione statale nella solidità delle fondamenta e nell’ autenticità degli obiettivi
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1 G Capograssi. La Dichiarazione universale dei difilli dell ‘uomo e il suo significato, in Opere di Giuseppe Capograssi, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 37-50.