“Sicko” del regista Michael Moore “denuncia” la sanità americana e il ministro Livia Turco non perde l’occasione per criticare la pagliuzza altrui dimenticamdo la trave che opprime il sistema sanitario nazionale
di Maria Giovanna Maglie
Pesco dai resoconti di agenzie e giornali. «Consiglio di vedere “Sicko” per tre ragioni. Primo: parla della salute, della malattia e della morte, che la nostra società spesso dimentica. Secondo: in modo preciso e rigoroso, racconta cos’è un sistema sanitario governato dalle assicurazioni. Terzo: fa vedere agli italiani che tesoro è, malgrado i tanti problemi che anch’io affronto ogni giorno, il nostro sistema sanitario».
Così il ministro della Salute Livia Turco commenta l’ultima fatica del regista di «Bowling for Columbine» e «Fahrenheit 9/11», che giudica «un film importante». Il ministro, che ha visto «Sicko» in anteprima, ha voluto essere presente, a Roma, alla conferenza stampa del regista statunitense.
Per la Turco, il film, che «le è piaciuto tanto e che consiglia agli italiani», ha tre grandi meriti: «Innanzitutto affronta un tema come quello della salute e del sistema sanitario che ci fa ricordare come anche in una società futile o ricca ci siano malattie e fragilità che possono colpire tutti, anche ricchi, potenti o belli. E in questi casi tutti, poveri o ricchi, hanno bisogno di qualcuno che li curi».
Secondo merito del film, sottolinea la Turco, è di evidenziare «come le assicurazioni abbiano come unico obiettivo il profitto, che esclude chi non può pagare, ma anche seleziona la presa in carico di alcune patologie solo se non sono troppo costose. Molti cittadini non conoscono neanche come funziona un sistema basato sulle assicurazioni sanitarie. In questo film viene spiattellato brutalmente il fatto che senza soldi si può morire». Il terzo punto importante, per il ministro, è la riflessione che gli italiani potranno fare dopo aver visto «Sicko». «Spero – afferma – che si rendano conto del tesoro che hanno, il nostro Ssn».
E per questo al ministro Turco piacerebbe che fosse fatto un film sulla sanità italiana che invita «un regista, possibilmente italiano, che abbia curiosità, passione civile e senso civico, a girare una pellicola per parlare della nostra sanità e del nostro Sistema».
Con un film forse si riuscirebbe, secondo la Turco, a mostrare agli italiani la dedizione e la capacità di tanti professionisti, oltre alle tante eccellenze che il nostro Paese può vantare. «Basta con la retorica sulla malasanità – ammonisce il ministro – che ha provocato gravi danni, difficili da recuperare». L’articolo a questo punto potrebbe terminare.
Livia Turco potrebbe andare a fare il ministro di Fidel Castro, oppure arringare le plebi contro il profitto e l’imperialismo yankee. Decidete voi che giudizio si possa esprimere su un pubblico rappresentante di una nazione della Nato che si accoppia con uno dei più sgradevoli e insignificanti nemici degli Stati Uniti.
Da spettatrice può dire quel che le pare, da ministro andrebbe rimossa. Resta che in Italia «blame America first», prenditela sempre e comunque con l’America, funziona tanto bene che la seguono, consapevoli o no, praticamente tutti, magari nascondendosi dietro la qualità del cineasta.
Peccato che Moore faccia documentari, e se ricordo bene dovrebbe contare anche il rigore e l’aderenza ai fatti! Perciò, nella convinzione che non servirà a niente, vorrei spendere due parole su come veramente funzioni l’assistenza sanitaria negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti, gli ospedali pubblici forniscono gratuitamente le cure necessarie a chi non è assicurato o non ha i mezzi per pagarsele, e dal 1986, presidente Ronald Reagan, con l’Emergency medical treatment and active labor act, anche le cliniche private devono fornire gratuitamente tutte le cure di emergenza di cui dispongono a chiunque si presenti, fino al momento in cui può essere trasferito in sicurezza alle strutture pubbliche.
Questo vale anche per gli immigrati clandestini, che non pagano tasse e costano cifre folli, tanto che la Hospital association calcola che la spesa per mancati pagamenti e assistenza gratuita sia di alcuni miliardi di dollari. Solo nei quattro Stati che confinano con il Messico, le cure mediche gratuite sono oltre i 200 milioni di dollari l’anno. Molte donne arrivano da oltre confine, pronte a partorire, al costo medio di 5mila dollari a bambino. Chiunque nasca negli Stati Uniti, a differenza che da noi, è cittadino americano.
La differenza dunque sta solo nel fatto che lo Stato assiste chi non ha i mezzi per curarsi, o non può pagarsi una copertura assicurativa. Basta un impiego qualunque fisso per farsi pagare l’assicurazione dal datore di lavoro, i più abbienti se la scelgono da soli, delle migliori, e la detraggono dalle tasse. I poveri, infine, hanno un programma gratuito che si chiama «Medicaid».
Alla fine della storia rimangono 44 milioni di cittadini, il quindici per cento più o meno, che non hanno copertura assicurativa. Sono i clandestini, 15 milioni almeno, sono una frangia di irregolari che avrebbero diritto al Medicaid, ma non si iscrivono. Infine, c’è una categoria di giovani professionisti, che guadagna tra i 50mila e i 75mila dollari l’anno, ma che non ne vuole sapere di preoccuparsi del futuro, e non stipula assicurazioni anche se potrebbe. Almeno per ora.
Potrei parlarvi delle code, spaventose in Europa, e inesistenti negli States; dei feti scambiati, delle gambe sane operate, dei tanti episodi di incuria, fretta, scarsa igiene, che qua sono molto frequenti, laggiù pressoché inesistenti; potrei parlare della ricerca scientifica, iniziata quando John Kennedy disse: «La lotta al cancro deve essere al primo posto, come l’avventura nello spazio»; potrei raccontare dei bambini italiani salvati in posti benedetti come lo Sloan Kettering Center di Manhattan, le loro madri ospitate per mesi nelle residenze, senza nemmeno un dollaro di garanzia, solo la stretta di mano e la promessa che a casa si stavano raccogliendo soldi.
Ma non vorrei scuotere le certezze così dolorosamente acquisite degli italiani. Meglio andare a vedere «Sicko», meglio credere a quell’imbroglione di Michael Moore.