Prendendo spunto da una recente sentenza della Corte Costituzionale – la quale ha stabilito che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome dei figli è retaggio di una concezione patriarcale e di una tramontata potestà maritale» – i laicisti, appellandosi all’uguaglianza fra i sessi e alla parità fra i coniugi, hanno stabilito che bisogna cambiare la tradizione.
Oggi la donna che si sposa perde il proprio cognome e prende quello del marito. Ma, si obietta, se davvero ci fosse uguaglianza, nessuno dovrebbe perdere nulla. Perciò il Senato ha iniziato a discutere un disegno di legge dell’Unione secondo cui, con dichiarazione revocabile, al figlio può essere attribuito il cognome del padre oppure della madre oppure di entrambi. Se l’accordo non c’è, allora si attribuiscono i due cognomi (nel testo originario, in ordine alfabetico).
Il figlio con due cognomi può trasmetterne, a scelta, uno solo. Così l’uguaglianza è rispettata e pure la libera scelta, anche se, come ebbe a dire il ministro Bindi, «la libertà di scelta riconosciuta ai coniugi costituisce una soluzione fin troppo blanda». La questione però non si ferma lì.
Infatti, nella denominazione della famiglia, non c’è da rispettare solo il principio dell’uguaglianza ma anche quello dell’unità e unilinearità, per il quale i membri della prima e delle successive generazioni sono tutti identificati come membri della stessa famiglia.
Guardiamo prima alla sostanza. Ci si chiede: la famiglia è come un’azienda, col passare del tempo può mantenere o cambiare la ragione sociale a seconda delle convenienze, oppure è una singolarità che non cambia natura nonostante le evenienze? E gli sposi sono soci in una ditta o coniugi in un matrimonio?
Dal punto di vista giuridico, la famiglia nasce da un contratto di unione, ma sotto il profilo etico (e costituzionale) è un’unione di tipo assai particolare. Essendo «società naturale», la famiglia è come un embrione, e non a caso si usa spesso per analogia l’espressione «embrione sociale». Come nel caso dell’unione di due gameti (fecondazione) si crea un’entità terza (l’embrione, appunto), irriducibile a ciascuno di essi e perciò con diritti propri, così nell’unione di due sposi (matrimonio) si produce un’entità terza (la famiglia, esattamente), la quale supera entrambi, e perciò ha natura propria. La famiglia va oltre, sporge, sui suoi componenti; emerge per fusione, non si aggrega per addizione.
Torniamo ora dalla sostanza al nome. Se si obbliga la donna che si sposa a perdere il proprio cognome (o viceversa), si viola il principio di uguaglianza. Ma se si introduce il cognome doppio e se ne affida la trasmissione alla discrezionalità dei singoli, si rischia di violare il principio dell’unità e unilinearità della sostanza familiare.
Se il nome della famiglia è duale, è duale anche la famiglia? Se il nome allude alla cosa o la denota – e questo è il caso nostro, ché altrimenti non si sarebbe posto il problema – allora il nome duale sembra alludere proprio a una cosa duale o denotarla.
Ma una famiglia duale, a maggior ragione se di volta in volta denominata a discrezione, non è più come un embrione e forse non è più una famiglia: sono due individui sommati, ciascuno col proprio nome, non una singola entità fusa, col suo singolo nome, anche se doppio.
Nomi e simboli possono avere, e spesso hanno, conseguenze sostanziali anche non intenzionali e la legge del doppio cognome, dopo quella, tentata, dei Dico, potrebbe diventare proprio il primo passo per toccare la sostanza della famiglia. Il secondo passo consisterebbe nel dire che i diritti della famiglia sono solo quelli dei suoi membri.
Il terzo e ultimo passo sarebbe che la famiglia non esiste, ma esiste solo l’unione. «Rossi e Bianchi, sposi» come «Rossi & Bianchi, mercerie, snc». Arriveremo lì?