Da questo totalitarismo dei desideri la democrazia si salverà solo in una «amicizia con l’imperfezione dell’umano» (Ratzinger). Intervista allo psicanalista Binasco
Luigi Amicone
La discussione sul ddl Cirinnà è sembrata a tutti gli effetti un grande e rumoroso dialogo tra sordi. D’altra parte, il cosiddetto “muro contro muro” comincia quando il testo viene sospeso in commissione e il governo Renzi compie il blitz di portarlo direttamente al voto, calpestando la procedura costituzionale, articolo 72. Ne parliamo con lo psicanalista lacaniano Mario Binasco, uno degli esperti convocati in Senato lo scorso anno durante le audizioni sulla proposta di legge in materia di unioni civili e adozioni gay.
In effetti, il Family Day ha segnato una svolta nel dibattito pubblico sulla Cirinnà. Non crede?
Il tratto comune dei commenti che hanno investito sui media la gente del Circo Massimo è proprio la negazione, il rifiuto di prendere in conto la realtà di ciò che è accaduto, a cominciare dal carattere incredibilmente disarmato, non aggressivo e pacifico della gente presente e del desiderio di legame umano che esprimeva. Quella gente semplicemente c’era, e non doveva esserci: per questo si deve dire di loro tutto il male possibile, perché non sono interlocutori ma fuorilegge politici. Da qui l’odio riversato su di loro da quegli stessi che accusano loro di “hate speech”. Ma non c’è da restare stupiti.
Perché?
Perché la realtà non deve più essere un riferimento e non deve interessare a nessuno: contano solo quell’insieme di deliri di negazione chiamati “politicamente corretto”. Due esempi tra tanti: per quarant’anni ci siamo sentiti ripetere che al mondo eravamo troppi, che era criminale mettere al mondo figli, che saremmo morti di fame, eccetera. Un tabù totale, solo la Fondazione Agnelli ha potuto dire che c’era un problema demografico, che oggi appare tragico eppure ancora velato nei media. Un altro esempio attuale è la totale afasia e paralisi del pensiero di fronte all’islamismo politico chiaramente incombente: eppure, chi di noi avrebbe mai immaginato di trovarsi a guardar decapitare cristiani in televisione?
Perché questa “paralisi del pensiero”?
Negare la realtà non aiuta certo il pensiero. Il meccanismo dominante è quello descritto da Ratzinger nel 1986 in una strepitosa e lucida serie di saggi sulla Chiesa e la politica, dove si interroga su ciò che minaccia la democrazia e può portare alla sua negazione. Dice Ratzinger che «anzitutto c’è l’incapacità di fare amicizia con l’imperfezione delle cose umane»: per questa incapacità, lui dice, «il desiderio di assoluto nella storia è il nemico del bene che è nella storia», è «una rêverie», un sogno a occhi aperti «che scaturisce dalla noia per ciò che esiste…». «Il mondo perfetto… non esiste. La sua continua aspettativa è la minaccia più seria che incomba su di noi… perché di qui nasce fatalmente l’onirismo anarchico. (…) È necessario riapprendere il coraggio di ammettere l’imperfezione e il continuo stato di pericolo delle cose umane». «Immorale è quell’apparente moralismo che mira ad accontentarsi solo del perfetto». E poi l’elemento diagnostico più importante: «L’idea che tutta la storia passata è stata storia della non libertà, ma che finalmente ora o tra poco si potrà o si dovrà costituire la società giusta, è un’idea oggi diffusa», nella quale «in una strana maniera ritorna la mistica del Reich».
Parole grosse da un uomo così mite. Ci spieghi.
Noti: ogni volta che si introduce un nuovo diritto, lo si propone come un guadagno di libertà per qualcuno, ma nello stesso tempo lo si afferma come un diritto assoluto ed eterno che è lì da sempre (anche se mai pensato prima), un diritto che è un dovere imperativo riconoscere: così, in un sol colpo tutti ci troviamo in fuorigioco, criminalizzati come complici di una lesione della libertà, quindi se solo chiediamo tempo per pensare, siamo già degni dei peggiori epiteti. Non contano gli argomenti di realtà, c’è solo un imperativo: reintrodurre la libertà nella storia che appunto è sempre storia della non libertà. È un meccanismo diabolico.
Scusi, ma perché dovremmo fare amicizia con l’imperfezione? E perché sarebbe immorale accontentarsi solo del perfetto? “Accontentarsi” ha un senso negativo, di solito significa rinunciare al perfetto. Ma il perfetto non dovrebbe essere proprio il culmine della moralità?
Noti che Ratzinger non dice “tollerare” l’imperfezione, ma proprio “fare amicizia con”. Questo è decisivo. L’imperfezione delle cose umane non è un accidente che è possibile eliminare: è impossibile per le cose umane essere perfette. Questa impossibilità di perfezione è l’uomo stesso, e se non facciamo amicizia con essa non facciamo amicizia con l’umano. Solo questa amicizia può far convivere le persone in un modo decente, e far convivere ciascuno con se stesso, perché l’imperfezione che non sopportiamo negli altri è la proiezione dell’imperfezione che non sopportiamo in noi stessi. Perciò Ratzinger dice che è pura immoralità voler eliminare l’imperfezione in nome del perfetto. Così si vede dove sta il vero moralismo assassino.
Cosa c’entra la psicanalisi con tutto ciò?
Senza amicizia con l’imperfezione delle cose umane, come sarebbe possibile la psicanalisi? Per Lacan è stato un fatto di carità incredibile che Freud abbia attribuito a ciascuno un inconscio: e sì che l’inconscio è considerato causa dei sintomi e dei problemi che uno porta dall’analista. La cura psicanalitica esiste proprio per questo desiderio di fare amicizia con ciò che non va nella vita, desiderio di sapere come è fatto, di dargli voce, di prenderlo sul serio invece di cercare di eliminarlo o di renderlo mai avvenuto. È solo così che il desiderio dell’analista può incontrare e interpretare il desiderio del soggetto, rendendogli non impossibile assumerlo in un modo più umano.
Se permette un filo di ironia, l’analisi in questo senso è un concentrato di opere di misericordia. La misericordia è inconcepibile al di fuori di questa amicizia con l’imperfezione, sarebbe un moralismo devastante che non fa i conti con ciò che è impossibile all’uomo nella sua vita. La psicanalisi è una via che permette di assumere questa impossibilità e di farne una risorsa per vivere umanamente.
Per Lacan il discorso capitalistico (come antropologia e biopolitica, non come semplice economia di mercato) rigetta dal suo programma questa impossibilità (nel gergo analitico: “castrazione”). Che cosa rigetta? La constatazione che la felicità umana è legata a condizioni impossibili – il che non vuol dire che non accadano, ma appunto sono avvenimenti e non sono effetti di un programma né tecnico né politico. L’impossibile è il reale, dice Lacan, e dunque l’essere umano stesso è qualcosa di impossibile, è impastato di impossibile. In un altro linguaggio si può dire che è un miracolo ambulante. Per questo, chi vuole prendere sul serio l’essere umano deve prendere sul serio questa impossibilità strutturale.
Al contrario, oggi proprio la felicità da possibile è diventata necessaria. Ribattezzata benessere e poi salute, è diventata un diritto.
È così, per questo i problemi reali e strutturali della vita umana sono diventati illeciti, antigiuridici. Questo permette di capire meglio un apparente paradosso o contraddizione: se la noia di ciò che esiste, il desiderio di qualcosa d’altro o di felicità è ciò che motiva l’immaginazione e poi la richiesta di nuovi modi di vita (nella sessualità, nel diritto, eccetera), come si può andare contro il desiderio, se pensiamo che il desiderio sia l’essere stesso dell’uomo? Metaforicamente parliamo dei desideri come di bisogni. Ma strutturalmente il desiderio umano è molto diverso dal bisogno, non è come un sacco vuoto più o meno grande che gli oggetti del desiderio devono riempire (casomai è come un aspirapolvere).
“Protect Me From What I Want”. Proteggimi da ciò che desidero. Non è interessante che un analista delle piattaforme digitali e Big Data, il coreano Byung-Chul Han, abbia posto in esergo al suo ultimo saggio (Psicopolitica) il titolo di una canzone del complesso rock Placebo?
Il desiderio genera angoscia perché porta al di là di te stesso: non funziona da sé solo, ma si mette in moto sempre attraverso la domanda rivolta all’Altro (fin da neonati), vuole agganciarsi al desiderio dell’Altro che ti precede e che ti dà consistenza. Il soggetto chiede all’Altro di riconoscere il suo desiderio e insieme di interpretarlo, di dargli una forma perseguibile. È lì che si infila, come fattore inizialmente decisivo, il tipo di desiderio che l’Altro esercita nei tuoi confronti. E quando questo è un desiderio di morte? O di distruzione? O di ridurti a un oggetto che supporti i suoi godimenti secondo le sue fantasie? O che tu esista solo per riuscire dove l’Altro ha fallito? O un desiderio di negazione della realtà (sessuale, anche), un desiderio di dormire? In quali imprese (o in quali inerzie, cedimenti, tradimenti) ti può portare il desiderio dell’Altro al quale è agganciato il tuo?
Torniamo alla questione della democrazia. Il Papa dice che «è ora di costruire ponti e non muri», ma non credo che Francesco sia fan di una sorta di “superdemocrazia” dove ognuno smussa gli angoli della propria fede, identità e ragione, per soddisfare il famoso editto musicale di Jovanotti…
Prima di questo è il caso di prendere atto che c’è un problema nella nostra democrazia integralista, che non siamo noi a metterla in pericolo con le nostre perplessità ed esperienze di vita, ma che è questa democrazia ad essere ormai un pericolo per le nostre vite umane. E poi non userei più categorie che erano già vecchie negli anni Sessanta e in cui è veramente impossibile riconoscersi oggi. Il “muro contro muro”: ma qui l’unico muro è quello del recinto in cui veniamo inseriti perché si faccia polpette delle nostre vite. Qui l’unica arena è il nuovo Colosseo, il tritacarne mediatico. Oggi si vede chiaro che la pratica dell’esclusione dall’“agibilità politica” si è approfondita ed estesa a tutti gli ambiti della società e della cultura: in Italia, da quando la politica è ricattata dai decisori dello spazio pubblico, e cioè i media e le burocrazie, anzitutto le magistrature; nella civiltà, da quando la politica è diventata bio-politica, come dice Foucault, cioè ha voluto includere tutti i fattori corporei, psichici ed etici della vita umana. Solo che li ha inclusi come fattori negoziabili, cioè scambiabili, commerciabili.
Quindi ciascuno può essere ammesso nello spazio pubblico solo se lascia al guardaroba qualunque suo tratto di identità vitale (affetti, pensieri, desideri, legami, insomma la verità intima della sua esistenza). Così sarà il guardiano dello spazio pubblico a dirti che cosa tu desideri davvero o che cosa ti soddisferà, e ti imporrà la sua interpretazione. Te la imporrà come si impongono le cose sul mercato, cioè “fidelizzandoti” al consumo di qualche tua “fissazione”, sganciando la verità dal reale del godimento: per questo oggi ogni cosa può funzionare come una droga, compresi il lavoro e il sesso.
Naturalmente poi ci vuole qualcuno che vigili che le persone non portino di contrabbando nello spazio pubblico qualche pretesa di verità (personale, mica universale). Questo qualcuno è l’opinione pubblica: così lo squadrismo occasionale dei gruppi rivoluzionari è diventato sempre più lo squadrismo sistematico dei media, che ormai non esitano un secondo a massacrare consapevolmente qualcuno sulla base del niente o di menzogne.
«Il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa… creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili». Questo è Pier Paolo Pasolini, anno 1975.
Di un’attualità impressionante. I media mantengono il carattere rivoluzionario dello spazio pubblico: ma la rivoluzione non è più quella marxista, è la rivoluzione antropologica del tecno-capitalismo, che rottama il soggetto, la persona, e nega “agibilità culturale” ai livelli originari della relazione che il soggetto ha con l’Altro, con la realtà, e con se stesso, tutti i livelli che non sono riducibili a contratti o a scelte arbitrarie, padronali, perché sono tutti rapporti di dipendenza. Sono quei livelli che ora diverse femministe storiche cominciano a chiamare “il soggetto non sovrano”. Ciascuno di noi sa che la sua relazione originaria con l’Altro (madre, padre…) e col proprio corpo sessuato non deriva da un contratto, ma è la relazione con quel livello reale di noi stessi da cui sorgono inconsciamente l’identificazione, il desiderio, l’angoscia, il panico, la noia, la colpa, il dono, il debito, l’amore, eccetera.
Lo spazio pubblico è sempre più simile ad un campo di concentramento, ha la stessa struttura, basta non farsi ingannare da certe apparenze quando si tratta, almeno da noi, di un campo di concentramento a tre o quattro stelle Michelin: quel che conta è la logica secondo cui funziona, non la presenza di occasioni di godimento. In esso ogni fattore della vita viene ridotto ad oggetto di godimento, e il desiderio è ridotto al desiderio di consumare, di trarre “un’emozione” come usa dire.
Per questo con Lacan e Pasolini dico che è capitalistico ed è tirannico, anche se oggi commercializza le libertà sotto l’etichetta dei “diritti”, che sono la nuova figura della merce. Provi a immaginare se dovessimo vivere giorno e notte in un supermercato o in un centro commerciale: che cosa lo distinguerebbe da un lager? Pensi a tutti gli aspetti della vita personale, intima e sociale che sarebbero mutilati di ciò che gli dà per noi il loro valore insostituibile, di legame umano: e infatti oggi la “cultura” sposata alla tecnoscienza promuove dichiaratamente il post-umano.
Siamo nella democrazia integralista, che è la sintesi paradossale, “libertaria” e “concentrazionaria” insieme, di nazismo, fascismo, comunismo sovietico e cinese: è quella che procede al grido di “niente discriminazioni!”, e se il reale (del corpo, per esempio) ti “discrimina”, allora peggio per il reale. Solo che quel reale lì è il ramo su cui sta seduto quel soggetto che sei tu.