Intervista a Massimo Introvigne
di Emanuele Rebuffini
Al centro della riflessione troviamo il discorso di Ratisbona pronunciato da Benedetto XVI il 12 settembre 2006: un discorso programmatico da cui lasciarsi guidare per riscoprire quelle radici cristiane negate dal relativismo e dal laicismo, da quel processo che il Papa chiama “deellenizzazione”, ovvero la negazione del patrimonio greco come parte integrante della fede cristiana. Per il Pontefice l’Europa “sembra essere stanca, sembra volersi congedare dalla storia”. Una stanchezza metafisica di chi non ha più un’identità, di chi, di fronte a un’aggressione esterna, si sente svuotato da ogni energia perché non trova più i motivi per resistere.
Perché considera così importante il discorso di Ratisbona?
Intanto non è il discorso del Papa sull’Islam come lo hanno presentato tutti i media, con una certa irresponsabilità, finendo per accendere gli animi degli ultrafondamentalisti, con la conseguente scia di omicidi e chiese incendiate. Solo due pagine sono dedicate all’Islam e una ventina all’Europa e all’Occidente. Tuttavia quelle due dense pagine, insieme agli interventi a Castel Gandolfo con gli ambasciatori dei Paesi islamici e durante il viaggio in Turchia, hanno permesso a Benedetto XVI di costruire un suo specifico Magistero sull’Islam.
Per capire l’approccio bisogna partire dalla scelta di attirare l’attenzione su un testo particolare che è il dialogo tra l’imperatore bizantino Manuele Il Paleologo con un anonimo saggio persiano. Un libro molto raro, che il cardinale Federico Borromeo ritrovò in modo avventuroso e portò a Milano alla Biblioteca ambrosiana dove tuttora è custodito. Un testo mai pubblicato nella sua integralità.
Nel 1931 l’imperatore viene invitato ad Ankara dal Sultano per una partita di caccia. Non amando la caccia e le feste del Sultano si trova un’occupazione alternativa e organizza una disputa pubblica sui meriti rispettivi del Cristianesimo e dell’Islam con un saggio persiano. L’imperatore e il saggio sono consapevoli che se uno argomenta dal Vangelo e l’altro argomenta dal Corano si potranno avere due monologhi e non un dialogo. E allora decidono di argomentare dalla ragione. Ed è questo il punto che ha attirato l’attenzione di Benedetto XVI.
Però alla fine il dialogo non approda a nulla…
Il dialogo non va da nessuna parte perché quando l’imperatore e il musulmano dicono “ragione” non dicono la stessa cosa. Questo è il cuore del dialogo: la nozione di “ragione”. Una delle frasi più importanti della disputa è la tesi del saggio secondo cui Dio non è limitato dalle proprie azioni precedenti, quindi bisogna diffidare della ragione che non può mai enunciare principi e conclusioni certe e permanenti.
I musulmani disputavano se il principio di causalità fosse blasfemo, perché la nozione di Dio nell’Islam del XIV secolo è quella di un Dio che non ha creato il mondo secondo ragione, ma lo crea continuamente e può cambiare le leggi naturali non occasionalmente (come nel caso dei miracoli), ma sistematicamente. Se facciamo cadere una pietra questa cade sempre verso il basso? Niente affatto, perché se Dio ha voluto che fino a oggi le pietre dovessero cadere verso il basso non ci dà nessuna garanzia che in questo momento Dio non abbia cambiato idea.
Il principio di causalità limita la libertà sovrana e assoluta di Dio e dunque è bestemmia. Quindi, secondo il saggio persiano, possiamo solo dire che probabilmente la pietra cadrà verso il basso a meno che Dio non abbia cambiato idea. Ragionando così non è possibile fare scienza, perché questa presuppone la conoscenza di leggi universali. Un Dio capriccioso non ci permette di conoscere la verità. Se per il saggio musulmano l’uomo è sommamente incerto, visto che Dio può cambiare le cose quando e come vuole, per l’imperatore cristiano l’uomo secondo la ragione è in grado di conoscere con certezza molte cose.
A che conclusione porta il dialogo?
Il saggio giunge a concludere che la prova della superiorità dell’Islam sul Cristianesimo sta nel fatto che quello musulmano è un grande esercito che vince, mentre quello bizantino è un piccolo esercito che perde. Esattamente come aveva predetto Maometto, che quindi è un vero Profeta.
Un argomento pericoloso, visto che dopo l’assedio di Vienna l’Islam comincerà ad arretrare e quindi, applicando lo stesso ragionamento, si potrebbe affermare che l’Islam è falso. A Benedetto XVI piace questo dialogo, perché dimostra che se si abbandona lo sforzo della ragione per trovare delle regole comuni (sforzo che può funzionare solo se si riconosce che la ragione è in grado di conoscere la verità) non resta che la forza delle armi.
O ha ragione chi si avvicina di più alla verità, oppure ha ragione chi picchia più duro, che ha l’esercito più grande o è meglio capace a far scoppiare le bombe. Quella del musulmano è una ragione strumentale, che prova la sua verità non attraverso un’analisi filosofica, ma attraverso il risultato, non solo scientifico ma anche militare.
Che lezione dovrebbe trarre da tutto ciò l’Occidente, in particolare nel confronto con il terrorismo di matrice islamica?
Se non accettiamo che la ragione possa conoscere la verità siamo disarmati nei confronti delle aggressioni esterne. Nel discorso che avrebbe pronunciato a La Sapienza Benedetto XVI riprende il dialogo con il filosofo Jurgen Habermas: non possiamo accettare il relativismo e l’idea che la verità non ci sia perché di fronte all’aggressione esterna che oggi si manifesta nel terrorismo non ce lo possiamo permettere.
Per Habermas la democrazia occidentale deve essere difesa con “argomenti che hanno a che fare con la verità”. Secondo i relativisti chi crede nella verità è pericoloso. Il dialogo di Ankara dimostra che non è vero: “Scoppiano le bastonate” dove non ci si è messi d’accordo prima su verità comuni e condivise. Regole comuni del convivere da trovarsi con la ragione che conosce la verità.
Tra persone che credono in cose diverse dobbiamo trovare un linguaggio comune, un comune riconoscimento di una verità, per definire le regole del gioco, la “grammatica della vita sociale”, che poi è il vecchio diritto naturale. Chi nega lascia il campo alla violenza. O nella società pluralista troviamo con la ragione regole del gioco comuni oppure vince chi picchia più forte.
Quale messaggio rivolge Benedetto XVI all’Islam?
L’Islam ad un certo punto della sua storia ebbe paura di fronte alla filosofia greca, bruciò i libri dei filosofi e dei mistici, e si irrigidì. Un trinceramento che si è protratto fino a oggi, per cui l’Islam è diventato il luogo della sola fede. Come disse Giovanni Paolo II nella Fides et ratio, l’Islam non vola perché ha un’enorme ala della fede e un’atrofica ala della ragione.
Benedetto XVI augura all’Islam di fare i conti con l’illuminismo. Che non vuol dire diventare illuministi, a differenza di quanto talora sembrano sostenere Magdi Allam e altri che ritengono che l’Islam per risolvere i suoi problemi dovrebbe passare dal fondamentalismo al razionalismo.
A Benedetto XVI non interessa tanto il dialogo all’insegna del buonismo ecclesiastico, né il dialogo con i musulmani laici né l’appello a fare fronte comune contro i laicisti. Tre sono i possibili rapporti tra fede e ragione. Due sbagliati e uno giusto. La confusione fra fede e ragione, ovvero quando la fede forte si “magia” la ragione gracile, quindi il fondamentalismo.
La separazione, quando la ragione si “mangia” la fede, quindi il laicismo. C’è una terza carta, la sana laicità, un rapporto equilibrato tra fede e ragione, che sono distinte, ma quando si incontrano collaborano. In Europa questo è avvenuto, nell’Islam no. Il vero dialogo con l’Islam deve essere rivolto a recuperare l’ala mancante, a sviluppare l’ala della ragione. La Chiesa non chiede al musulmano di diventare ateo, ma di ritrovare nella sua tradizione degli elementi di equilibrio tra fede e ragione.
(A.C. Valdera)