L’ultimo viaggio di Tocqueville. L’enciclica itinerante di Benedetto XVI sugli Stati Uniti (1)

Benedetto_XVI_Usadi Massimo Introvigne

Nel 1831 il magistrato e studioso di scienza politica francese visconte Alexis de Tocqueville (1805-1859) si reca negli Stati Uniti per studiarne il sistema penitenziario. Finirà per osservare in modo approfondito le istituzioni politiche e religiose del Paese, e per pubblicare al suo ritorno in Francia, nel 1835 e nel 1840, i due volumi (ciascuno dei quali consta nella prima edizione di due tomi) La democrazia in America, uno dei primi saggi che affrontano in modo articolato la questione della specificità americana e che ha una grande influenza sulla scienza sociologica nascente (Tocqueville 1835-1840).

A differenza di Tocqueville, Benedetto XVI – che si è recato negli Stati Uniti dal 15 al 21 aprile 2008 – non è andato in America per la prima volta. C’era stato più volte prima dell’elezione al soglio pontificio, e tra la cerchia d’intellettuali che considera suoi amici diversi sono americani.

Tuttavia, è molto significativo che Benedetto XVI abbia citato ripetutamente il viaggio di Tocqueville, e che – a differenza di quanto avevano fatto altri Papi che avevano visitato gli Stati Uniti – i suoi interventi non siano stati solo pronunciati in America ma abbiano avuto l’America come tema, con l’eccezione del discorso del 18 aprile all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, che ha comprensibilmente affrontato questioni relative alla stessa ONU.

Gli Stati Uniti non sono un Paese qualunque. Dal punto di vista demografico, politico, economico, culturale e anche religioso hanno – come Tocqueville intuiva in modo preveggente, e come oggi è ovvio a chiunque – un’importanza decisiva per le sorti del mondo. L’insegnamento del Papa sullo stato della società e delle istituzioni religiose negli Stati Uniti ha dunque a sua volta un’importanza tutta particolare.

Nei discorsi che Benedetto XVI ha pronunciato nel suo memorabile viaggio, che costituiscono un’autentica «enciclica itinerante» sull’America, emergono tre temi: una valutazione (sostanzialmente positiva) di quello che storici e sociologi – tutti appunto più o meno debitori a Tocqueville – definiscono l’esperimento americano; una rassegna e una denuncia dei pericoli che insidiano l’esperimento americano nel XXI secolo (e che per certi versi erano presenti come rischi e ambiguità fin dalle sue origini); un’indicazione di quali misure potrebbero essere prese per resistere a questi pericoli e tornare allo spirito autentico e migliore dell’esperimento da cui nasce la nazione americana.

Questi tre insegnamenti di Benedetto XVI hanno come sfondo culturale due dibattiti oggi molto vivaci sul ruolo della religione nella storia e nella cultura degli Stati Uniti, di cui certamente tengono conto.

1. La religione e l’America: due dibattiti 

Le premesse teoriche per il giudizio sull’esperimento americano di Benedetto XVI sono contenute in due testi molto importanti, precedenti al viaggio negli Stati Uniti: il fondamentale discorso natalizio del 2005 dedicato alla modernità (Benedetto XVI 2005) e l’enciclica Spe salvi (Benedetto XVI 2007).

Nel discorso del 2005 il Pontefice distingue due diversi modelli di modernità, che hanno la loro espressione politica rispettivamente nella Rivoluzione americana e nella Rivoluzione francese, notando come «la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese» (Benedetto XVI 2005).

L’esperimento americano delle origini è stato descritto in due modi diversi. Dal momento che la posta in gioco del dibattito storiografico non è soltanto accademica, ma è culturale e politica, la discussione è particolarmente accesa (Meacham 2006). Secondo una prima descrizione, che corrisponde sostanzialmente a quella ottocentesca di Tocqueville, il modello americano si basa su valori condivisi il cui fondamento non è cercato nella teologia di una specifica denominazione cristiana ma nei principi che si ritiene le diverse comunità cristiane abbiano in comune.

Alle origini degli Stati Uniti ci sono infatti comunità minoritarie (protestanti e talora anche cattoliche) che nei Paesi d’origine – principalmente il Regno Unito – sono discriminate per la loro fede, e danno quindi un grande valore alla libertà religiosa. Pertanto, mettono al centro del sistema giuridico della nuova nazione la separazione dello Stato da una Chiesa ufficiale dominante.

Tuttavia la separazione dello Stato dalla Chiesa nella Rivoluzione americana non assume lo stesso significato rispetto alla Rivoluzione francese. Secondo la formula sintetica della sociologa francese Danièle Hervieu-Léger, l’espressione usata, «separazione», può essere comune «ma è la nozione stessa di separazione che riveste, al di là dell’Atlantico, un significato molto diverso da quello che gli è proprio in Francia.

La separazione alla francese fu elaborata per imporre alla Chiesa cattolica di limitarsi a perseguire obiettivi strettamente spirituali, se proprio non la si poteva costringere a limitare la sua attività alle sacrestie. È stata pensata anzitutto per proteggere lo Stato contro l’espansione possibile della Chiesa. Negli Stati Uniti, invece, è la libertà delle comunità religiose che il principio di separazione intende garantire, contro qualunque invadenza dello Stato» (Hervieu-Léger 2001, 31).

In Francia, la separazione protegge lo Stato contro la religione, mentre negli Stati Uniti protegge la religione contro lo Stato. Di qui un plurisecolare favor per la religione, che contrasta con l’ostilità francese e che ha garantito alle religioni quel particolare sviluppo che hanno avuto negli Stati Uniti.

La seconda narrativa si muove in direzione opposta. Sottolinea le affinità tra Rivoluzione francese e Rivoluzione americana, insistendo sul fatto che molti dei protagonisti principali delle due rivoluzioni fanno parte della stessa istituzione, la massoneria.

I valori evocati dagli atti di fondazione della nazione americana non sarebbero pertanto cristiani o teisti (cioè riferiti a una nozione di Dio comune a diverse denominazioni o Chiese), ma piuttosto deisti, cioè ispirati a quella nozione di Dio vaga e indefinita, ben lontana dall’immagine cristiana di un Dio personale e provvidente, che caratterizza l’ideologia delle logge massoniche.

La «religione» degli Stati Uniti nascenti altro non sarebbe che il patrimonio filosofico della massoneria. Questa seconda narrativa delle origini americane non è recente, e ha – se si vogliono usare queste categorie – una versione «di destra» e una «di sinistra». La prima corrisponde a un certo anti-americanismo che denuncia gli Stati Uniti come un Paese intrinsecamente «anti-tradizionale», il quale non presenterebbe nessuna continuità rispetto all’Europa e alle sue radici cristiane, tanto che le stesse nozioni di un Occidente o di una Magna Europa che comprenderebbero insieme l’Europa e gli Stati Uniti sarebbero propagandistiche e spurie.

L’Europa – almeno l’Europa tradizionale, radicata nel cristianesimo – e gli Stati Uniti non starebbero dalla stessa parte. Da una parte ci sarebbero i tradizionali valori religiosi – in crisi in Europa (nonché, si aggiunge spesso, abbandonati dal mondo ebraico) ma ancora vivi nel mondo islamico e in certi ambienti dell’Estremo Oriente –, dall’altra il deismo massonico. Questa negazione dell’Occidente di solito si accompagna oggi ad atteggiamenti politici «islamofili», che detestano Israele e gli Stati Uniti come presunte manifestazioni quintessenziali dell’illuminismo massonico, e vedono nei Paesi islamici gli ultimi baluardi della Tradizione con la T maiuscola.

La versione «di sinistra» della seconda narrativa sulle origini americane propone la stessa lettura della storia, ma ne rovescia completamente la valutazione. Qui le due conclusioni secondo cui la Rivoluzione americana è semplicemente una variante «transatlantica» della Rivoluzione francese, e la sua ideologia è il deismo massonico, non sono considerate elementi negativi ma estremamente positivi. Questo ethos delle origini degli Stati Uniti – deista, massonico e laicista –meriterebbe ogni apprezzamento.

Ma l’apprezzamento non si estende agli Stati Uniti di oggi, dove una secolare invadenza delle Chiese (che, si aggiunge oggi, avrebbe raggiunto la sua massima intensità con la presidenza di George W. Bush, il quale l’avrebbe sistematicamente favorita) avrebbe rovesciato l’ethos nazionale, riscritto la storia e falsificato le vere intenzioni dei Padri fondatori, creando il mito della «nazione cristiana».

Tra l’altro, il romanziere Dan Brown annuncia fin da ora che con il seguito de Il Codice da Vinci – un best seller annunciato dedicato alla massoneria – scenderà in campo a favore della seconda narrativa delle origini americane, beninteso nella versione «di sinistra», «svelando» che i Padri fondatori non erano, come crede ingenuamente la maggioranza degli americani di oggi, uomini religiosi ma al contrario massoni miscredenti.

Il rischio è che Dan Brown stavolta seduca anche chi ama la versione «di destra» della seconda narrativa delle origini americane. Non sarebbe la prima volta. I libri un po’ provocatori della storica Catherine Albanese (1990), secondo cui la vera fede nazionale americana è una «religione della natura», condizionata dalla geografia e dai grandi spazi, e del critico letterario Harold Bloom (1992), il quale sosteneva che le denominazioni più diffuse negli Stati Uniti, comprese quelle cristiane, hanno tutte al loro interno elementi esoterici e gnostici, erano entrambi intesi a esaltare la specificità statunitense.

Ma furono facilmente letti «al contrario» da un anti-americanismo «di destra», fin troppo lieto di trovarvi una conferma della tesi secondo cui l’ethos nazionale degli Stati Uniti non è cristiano ma pagano o gnostico. Con buona pace dei fan di questi testi, tuttavia, la seconda narrativa delle origini americane, in qualunque versione, non è sostenibile storicamente.

Si fonda su una lettura schematica dell’illuminismo, della massoneria e dello stesso deismo del Settecento, unificati in un grande modello «transatlantico» che ignora le profonde differenze anzitutto fra Gran Bretagna ed Europa continentale, quindi fra Stati Uniti ed Europa in genere. L’illuminismo che si sviluppa in Gran Bretagna non è uguale all’illuminismo dell’Europa continentale.

La massoneria francese, spagnola o italiana – impegnata fin dalle sue origini in un duro scontro con la Chiesa cattolica – non è identica nel Settecento alla massoneria britannica e tanto meno a quella degli Stati Uniti. Certamente il metodo massonico in quanto tale a lungo andare corrode le pretese di verità di ogni singola religione e genera deismo, così che il giudizio della Chiesa cattolica è negativo rispetto a qualunque forma di massoneria, comprese quelle che si sviluppano in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Ma questo non è necessariamente chiaro agli albori settecenteschi in un Paese come gli Stati Uniti, dove la massoneria in molti Stati ammette i soli cristiani e richiede un’esplicita professione di fede nel Dio della Bibbia.

Con l’eccezione di alcuni singoli personaggi, che non a caso erano stati in Europa e avevano frequentato la massoneria francese, dall’affiliazione massonica di molti Padri fondatori della nazione americana non si può dunque immediatamente dedurre che fossero ostili alla religione o anticristiani. Naturalmente, non erano neppure tutti buoni cristiani, né nella vita privata né nell’ortodossia delle loro idee religiose (come vorrebbe una vulgata contemporanea diffusa nel mondo protestante conservatore americano, che reagisce giustamente alla «seconda narrativa» ma esagera e va al di là di quanto può essere storicamente provato).

Piuttosto, professavano una varietà di accostamenti alla religione e inseguivano una «lingua comune» tra le varie denominazioni protestanti (ancorché fra gli stessi Padri fondatori ci fossero anche alcuni cattolici, che non erano affatto massoni, il più illustre e devoto dei quali, Charles Carroll, 1737-1832, è curiosamente presentato come massone nel film del 2004 della Walt Disney Il mistero dei templari, che ha come sfondo le stesse vicende storiche del romanzo annunciato di Dan Brown, ma almeno si presenta come pura opera di fantasia e non intende trasmettere tesi ideologiche).

Lo stesso deismo che influenza certamente alcuni Padri fondatori come George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826) e John Adams (1735-1826), non è – come ha mostrato da ultimo lo storico delle religioni David L. Holmes (2006) – identico al deismo francese, né a quello del loro compatriota Thomas Paine (1737-1809), che cerca d’importare le idee francesi negli Stati Uniti.

È piuttosto un’ostilità alla Chiesa episcopaliana, che svolge nella Virginia da dove provengono un ruolo di Chiesa di Stato che ricorda loro la persecuzione delle minoranze in Inghilterra: un’ostilità che si manifesta nel sostegno a idee eterodosse alla moda, tra cui la negazione della Trinità e della verginità di Maria.

Ma questa eterodossia non implica necessariamente una fuoriuscita dal cristianesimo, e tanto meno dalla religione in genere. Del resto, questi cosiddetti deisti americani sulla questione della religione devono interagire, al momento della preparazione delle carte fondamentali della nazione americana, con cristiani ortodossi come Samuel Adams (1722-1803), il cui contributo ai documenti di fondazione è decisivo, John Jay (1745-1829) e Patrick Henry (1736-1799).

Nella loro grande maggioranza i fondatori della nazione americana vogliono dunque dare vita a un esperimento dove la separazione dello Stato da ogni singola Chiesa e dalla sua ortodossia non sia però separazione dello Stato da una costellazione di valori morali, il cui fondamento religioso – pure diversamente costruito da ciascuno dei Padri fondatori – è esplicitamente riconosciuto (Holmes 2006).

Naturalmente, questo esperimento non è privo di un rovescio di medaglia. L’enfasi sulla libertà di religione (che ha radici storiche ben precise) diventa facilmente enfasi sulle scelte individuali, con conseguente rischio d’individualismo e di «privatizzazione» della religione.

Ne è testimone l’estrema frammentazione del protestantesimo statunitense in centinaia, poi migliaia di denominazioni diverse. L’individualismo domina del resto l’intero ethos americano: la sua concezione della democrazia, della cultura, della società, della religione, fin dal mito dell’uomo della Frontiera che lotta da solo contro tutti e da solo si costruisce il suo destino.

Questo ha portato nella storia della nazione americana vantaggi nella ferma resistenza a ogni seduzione e ideologia autoritaria (il comunismo, per esempio, non ha mai messo vere radici negli Stati Uniti, se non in qualche dipartimento universitario). Ma ha portato anche evidenti svantaggi.

Tuttavia, non si devono neppure sottovalutare i pregi della libertà religiosa. Sul punto, non si può non fare cenno a un secondo dibattito, che è al cuore della sociologia delle religioni contemporanea. Il sociologo luterano austriaco, emigrato negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, Peter Ludwig Berger, ha offerto negli anni 1960 una delle più autorevoli formulazioni (non l’unica) della teoria cosiddetta «classica» della secolarizzazione.

In The Sacred Canopy (La sacra volta), pubblicato per la prima volta nel 1967, Berger sostiene che la democrazia e la libertà religiosa nel lungo periodo portano fatalmente con loro il declino della religione. Mentre in un tipico paesino austriaco dell’epoca in cui il sociologo era giovane c’era un solo campanile, quello della parrocchia cattolica, in un paesino americano degli anni 1960 ce ne sono una decina, che corrispondono alle chiese cattolica, episcopaliana, luterana, riformata, battista, metodista, pentecostale, e così via.

Secondo Berger la presenza di molte religioni non induce il fedele a credere che siano tutte portatrici di verità, ma al contrario che le loro proposte siano tutte poco plausibili. Non potendo avere tutte ragione, hanno tutte torto. Il pluralismo religioso erode le strutture di plausibilità della religione (Berger 1967).

Si può dire che il cosiddetto «nuovo paradigma» nella sociologia delle religioni – cioè una teoria sociologica che contesta le teorie classiche della secolarizzazione – nasca negli Stati Uniti negli anni 1970 per criticare la tesi di Berger (anche se in seguito estenderà la sua critica ad altre formulazioni, diverse da quella di Berger, della tesi relativa alla secolarizzazione).

Il «nuovo paradigma» oppone all’analisi qualitativa di Berger un dato quantitativo: se la tesi del sociologo austriaco fosse vera, negli Stati Uniti – dove il pluralismo religioso è maggiore – le chiese dovrebbero essere vuote, mentre dovrebbero essere piene in Europa, dove in molti Paesi la religione maggioritaria gode di una posizione quasi monopolistica.

Dal momento che è vero il contrario, la teoria di Berger non può essere corretta. Il «nuovo paradigma», che è elaborato da sociologi che hanno quasi tutti compiuto studi di economia, utilizza la metafora di un «mercato religioso» dove agiscono «aziende religiose» in competizione fra loro per affermare che questo mercato non si comporta diversamente da altri mercati di beni e di servizi, tanto più vivaci quanto più sono caratterizzati dal libero mercato e dalla concorrenza.

Il monopolista s’impigrisce e alla fine non promuove più il prodotto, con la conseguenza che il mercato si deprime. Al contrario, se prodotti analoghi sono venduti da diverse aziende concorrenti, ciascuna è spinta a darsi da fare e il mercato di quei prodotti si espande. Così i sociologi del «nuovo paradigma», pur lasciando ampio spazio a eccezioni individuali, ci presentano tutti la figura paradigmatica del pastore delle «Chiese di Stato» del Nord Europa – tipicamente, il pastore luterano danese – il cui stipendio corre a prescindere dal numero di fedeli che raduna, e che fatalmente s’impigrisce in assenza di concorrenza, paragonandolo sfavorevolmente al medio ministro di culto di una congregazione americana di provincia che, dovendo competere con i pastori di una dozzina di altre denominazioni, deve continuamente inventarsi qualcosa per rendere la sua proposta più originale e attraente di quella della concorrenza.

Il risultato è esattamente il contrario di quello che si potrebbe prevedere applicando la tesi di Berger: il pluralismo religioso degli Stati Uniti porta in chiesa ogni domenica più o meno dieci volte il numero di fedeli che riesce a raccogliere il monopolio della Chiesa di Stato danese (Stark e Introvigne 2003).

Rispetto ai primi momenti di questo dibattito, molta acqua è passata sotto i ponti della sociologia delle religioni. C’è un «secondo Berger» che si è trasformato in severo critico del «primo Berger» e di The Sacred Canopy, e oggi afferma che la sua analisi era al massimo valida per alcuni Paesi dell’Europa Occidentale mentre, se la s’intende come una regola assoluta e universale, la tesi secondo cui il venire meno della protezione dello Stato e il pluralismo religioso generano una diminuzione della pratica religiosa era semplicemente sbagliata (Berger 1999, annunciato con un coraggioso senso autocritico da Berger 1996, 1997).

Benedetto XVI fa cenno alla tesi secondo cui la religione di Stato genera disaffezione nei confronti della religione nell’enciclica Spe salvi del 2007, a proposito non degli Stati Uniti ma dell’Impero romano, dove – alla vigilia dell’irruzione del cristianesimo – la religione pagana è decaduta, e i suoi riti sono celebrati stancamente da funzionari stipendiati, senza vera partecipazione popolare.

Il Papa usa precisamente nella Spe salvi l’espressione «religione di Stato» (Benedetto XVI 2007, n. 5), rilevandone la debolezza. Il mito della religione classica a Roma, afferma Benedetto XVI, «aveva perso la sua credibilità» (ibidem) e la religione romana «si era sclerotizzata in semplice cerimoniale» (ibidem). La religione di Stato a causa della protezione delle autorità non è forte (come pensava il primo Berger) ma al contrario perde credibilità. L’epopea della religione negli Stati Uniti conferma in modo evidente questa tesi.

2. L’esperimento americano: «un modello fondamentale e positivo»

Fin dal primo scambio di battute con i giornalisti sull’aereo che lo porta negli Stati Uniti, Benedetto XVI sceglie, fra le due narrative delle origini americane, quella che riconosce nell’esperimento americano una radice prevalente religiosa e cristiana piuttosto che massonica e deista.

«Quanto trovo io affascinante negli Stati Uniti – afferma il Pontefice – è che hanno incominciato con un concetto positivo di laicità, perché questo nuovo popolo era composto da comunità e persone che erano fuggite dalle Chiese di Stato e volevano avere uno Stato laico, secolare che aprisse possibilità a tutte le confessioni, per tutte le forme di esercizio religioso.

Così è nato uno Stato volutamente laico: erano contrari ad una Chiesa di Stato. Ma laico doveva essere lo Stato proprio per amore della religione nella sua autenticità, che può essere vissuta solo liberamente. E così troviamo questo insieme di uno Stato volutamente e decisamente laico, ma proprio per una volontà religiosa, per dare autenticità alla religione. E sappiamo che Alexis de Tocqueville, studiando l’America, ha visto che le istituzioni laiche vivono con un consenso morale di fatto che esiste tra i cittadini.

Questo mi sembra un modello fondamentale e positivo» (Benedetto XVI 2008a). Dunque, a differenza di quella francese, la laicità americana non nasce contro la religione ma al contrario «per amore della religione». Lo ribadisce Benedetto XVI ai vescovi degli Stati Uniti, con parole che costituiscono un ripudio esplicito della tesi «transatlantica» secondo cui le separazioni fra Stato e Chiesa negli Stati Uniti e in Europa sarebbero semplicemente due varianti di un modello fondamentalmente unitario.

«Ritengo significativo – sottolinea invece il Papa – il fatto che qui in America, a differenza di molti luoghi in Europa, la mentalità secolare non si è posta come intrinsecamente opposta alla religione. All’interno del contesto della separazione fra Chiesa e Stato, la società americana è sempre stata segnata da un fondamentale rispetto della religione e del suo ruolo pubblico» (Benedetto XVI 2008d).

Benedetto XVI ne trae due conseguenze. La prima riguarda il ruolo fondamentale della libertà religiosa nell’esperimento americano. La libertà di religione non è un aspetto secondario, un diritto fra i tanti: si situa alle origini e al cuore stesso dell’America.

«Gli americani hanno sempre apprezzato la possibilità di render culto liberamente e in conformità con la loro coscienza. Alexis de Tocqueville, lo storico francese e osservatore delle cose americane, era affascinato da questo aspetto della Nazione. Egli ha sottolineato che questo è un paese in cui la religione e la libertà sono “intimamente legate” nel contribuire ad una democrazia stabile che favorisca le virtù sociali e la partecipazione alla vita comunitaria di tutti i suoi cittadini» (Benedetto XVI 2008g).

«Tutti i credenti hanno qui trovato la libertà di adorare Dio secondo i dettami della loro coscienza, essendo al tempo stesso accettati come parte di una confederazione nella quale ogni individuo ed ogni gruppo può far udire la propria voce» (Benedetto XVI 2008b).

La libertà di religione ha permesso anche ai cattolici, superate alcune iniziali discriminazioni, di partecipare pienamente alla vita culturale, sociale e politica degli Stati Uniti. «In questa terra di libertà religiosa i cattolici hanno trovato non soltanto la libertà di praticare la propria fede ma anche di partecipare pienamente alla vita civile, recando con sé le proprie convinzioni morali nella pubblica arena, cooperando con i vicini nel forgiare una vibrante società democratica» (Benedetto XVI 2008o).

L’esperienza della libertà religiosa, che è la premessa di ogni altra libertà, ha un intrinseco valore morale e ha conferito agli Stati Uniti un ruolo speciale nei confronti d’immigrati che spesso di questa libertà non riuscivano a godere nei Paesi d’origine. «Il rispetto per la libertà di religione è profondamente radicato nella coscienza americana, un dato di fatto che ha contribuito a far sì che questo Paese attraesse generazioni di immigranti alla ricerca di una casa dove poter liberamente rendere culto a Dio secondo i propri convincimenti religiosi» (Benedetto XVI, 2008c).

«Sin dagli inizi, essi hanno aperto le porte agli affaticati, ai poveri, alle “masse che si accalcavano alla ricerca di respirare nella libertà” (cfr Sonetto inciso sulla Statua della Libertà)» (Benedetto XVI 2008c).

Da ultimo, quest’apertura ha portato negli Stati Uniti molti emigrati cattolici di lingua spagnola, a proposito dei quali – mentre si rallegra del contributo che danno alla Chiesa cattolica americana – Benedetto XVI svolge peraltro un’importante considerazione generale in tema di emigrazione, la cui portata va molto al di là degli Stati Uniti.

«La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine» (Benedetto XVI 2008a).

Insieme, il clima creato dalla libertà religiosa e il ripudio della nozione di «religione di Stato» hanno in effetti secondo il Papa (come hanno concluso i sociologi) portato a una particolare fioritura, non solo privata ma anche pubblica, della religione. «L’America è anche una terra di grande fede. La vostra gente è ben conosciuta per il fervore religioso ed è fiera di appartenere ad una comunità orante. Ha fiducia in Dio e non esita ad introdurre nei discorsi pubblici ragioni morali radicate nella fede biblica» (Benedetto XVI 2008c).

Porre la libertà religiosa al centro del diritto e della politica ha avuto anche una conseguenza più profonda. L’ordine morale riconosciuto dalla Costituzione americana – contro i sostenitori della «seconda narrativa» delle origini americane – non è semplicemente fondato su un appello alla ragione, ma su valori la cui fonte è esplicitamente identificata dai Padri fondatori in un Dio creatore.

Un brano del discorso pronunciato alla Casa Bianca ha suscitato, al riguardo, grande impressione e costituisce sia un’evidente scelta di campo fra le due narrative delle origini americane, sia una manifestazione di consapevolezza relativa al fatto che questa scelta non riguarda una questione meramente accademica ma ha conseguenze culturali e politiche cruciali per l’America del XXI secolo.

«Sin dagli albori della Repubblica – afferma a Washington Benedetto XVI – la ricerca di libertà dell’America è stata guidata dal convincimento che i principi che governano la vita politica e sociale sono intimamente collegati con un ordine morale, basato sulla signoria di Dio Creatore. Gli estensori dei documenti costitutivi di questa Nazione si basarono su tale convinzione, quando proclamarono la “verità evidente per se stessa” che tutti gli uomini sono creati eguali e dotati di inalienabili diritti, fondati sulla legge di natura e sul Dio di questa natura.

Il cammino della storia americana evidenzia le difficoltà, le lotte e la grande determinazione intellettuale e morale che sono state necessarie per formare una società che incorporasse fedelmente tali nobili principi. Lungo quel processo, che ha plasmato l’anima della Nazione, le credenze religiose furono un’ispirazione costante e una forza orientatrice, come ad esempio nella lotta contro la schiavitù e nel movimento per i diritti civili.

Anche nel nostro tempo, particolarmente nei momenti di crisi, gli Americani continuano a trovare la propria energia nell’aderire a questo patrimonio di condivisi ideali ed aspirazioni» (Benedetto XVI 2008b). Nella storia americana «la democrazia può fiorire soltanto, come i vostri Padri fondatori ben sapevano, quando i leader politici e quanti essi rappresentano sono guidati dalla verità e portano la saggezza, generata dal principio morale, nelle decisioni che riguardano la vita e il futuro della Nazione» (Benedetto XVI 2008b).

Ai «Padri fondatori» è dunque attribuita un’esplicita consapevolezza e volontà di fondare i diritti garantiti dalla Costituzione americana non solo sulla «legge di natura» ma «sul Dio di questa natura», di radicare l’«ordine morale» sul saldo fondamento della «signoria di Dio creatore». Per Benedetto XVI non ci sono dubbi: «terra di libertà religiosa», l’America è nello stesso tempo una «terra di grande fede», nel cui discorso pubblico sono presenti «ragioni morali radicate nella fede biblica».

Benedetto XVI non usa l’espressione Christian nation, non solo perché controversa fra gli storici con riferimento ai documenti di fondazione, ma anche perché in una serie di gesti e incontri ha voluto riconoscere il contributo alla storia americana di gruppi religiosi non cristiani, in primo luogo della comunità ebraica. Ma il giudizio è chiaro, ed è sia di fatto (i Padri fondatori intendevano fondare la nazione su un «Dio creatore» e sulla «fede biblica», che è cosa diversa dal deismo illuminista come comunemente lo s’intende) sia di valore: il modello americano è «fondamentale e positivo».

3. Ombre di una luce: i rischi del modello americano 

Il giudizio positivo di Benedetto XVI sull’esperimento americano non è privo di sfumature, che rimandano a questioni fondamentali in materia di rapporto fra pluralismo e verità. Come Benedetto XVI aveva sottolineato nel citato discorso natalizio del 2005 sulla modernità (Benedetto XVI 2005), altra è la valutazione moralmente positiva della libertà religiosa come clima in cui solo, immune da costrizioni dello Stato, l’atto di fede può maturare in modo libero; altra è la constatazione storica e sociologica secondo cui in un clima di libertà religiosa di cui gli Stati Uniti offrono un esempio la religione fiorisce; altro ancora è invece il giudizio dottrinale sulla frammentazione della religione in innumerevoli religioni e del cristianesimo in migliaia di Chiese, comunità e denominazioni.

Su questa frammentazione il giudizio della Chiesa e del Pontefice non può essere positivo. Per chi non è relativista la verità su Dio, su Gesù Cristo e sulla Chiesa è una, e il fatto che non tutti la condividano – se può essere spiegato sul piano storico e sociologico – non è però ultimamente motivo di gioia, ma di sofferenza.

Nel viaggio americano si ha un’eco degli sforzi di Benedetto XVI per chiarire in senso non relativistico l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II e in particolare della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, alla cui elaborazione diede un significativo contributo il teologo statunitense John Courtney Murray, S.J. (1904-1967): il valore della libertà religiosa e la pretesa della Chiesa cattolica di porsi come unica via ordinaria alla salvezza possono e devono essere proclamate insieme (cfr. Cantoni 1995).

Si situa qui il durus sermo dell’incontro ecumenico tenuto a New York, dove Benedetto XVI denuncia i «segni molesti di frammentazione» (Benedetto XVI 2008l) e contesta l’idea secondo cui ciascuno farebbe bene, fra centinaia di comunità cristiane che esistono negli Stati Uniti, a scegliere quella che ritiene più consona alla sua esperienza personale, magari andandola a cercare fra le tante comunità «non denominazionali», un nuovo fenomeno che sottolinea precisamente l’esperienza a scapito della dottrina.

La religione, così, rischia di essere «confinata al regno mutevole della ”esperienza personale”. L’accettazione di questa erronea linea di pensiero porterebbe i Cristiani a concludere che nella presentazione della fede cristiana non è necessario sottolineare la verità oggettiva, perché non si deve che seguire la propria coscienza e scegliere quella comunità che meglio incontra i propri gusti personali.

Il risultato è riscontrabile nella continua proliferazione di comunità che sovente evitano strutture istituzionali e minimizzano l’importanza per la vita cristiana del contenuto dottrinale. Anche all’interno del movimento ecumenico i Cristiani possono mostrarsi riluttanti ad asserire il ruolo della dottrina per timore che esso possa soltanto esacerbare piuttosto che curare le ferite della divisione» (ibidem). Ma questo, più che vero ecumenismo, è relativismo.

Quello che vale per il dialogo ecumenico fra cristiani, vale per il dialogo interreligioso con i non cristiani. Anche qui «nel nostro tentativo di scoprire i punti di comunanza, forse abbiamo evitato la responsabilità di discutere le nostre differenze con calma e chiarezza» (Benedetto XVI 2008g). Mentre «il più importante obiettivo del dialogo interreligioso richiede una chiara esposizione delle nostre rispettive dottrine religiose» (ibidem). È necessario il dialogo, ma è ancora più necessario tenere ferma la bussola in direzione della verità.

L’attenzione tutta particolare all’impegno individuale nella vita religiosa americana non comporta dunque solo vantaggi, ma anche problemi. Il rischio è quello di una privatizzazione della religione, che ha diverse dimensioni. «Occorre resistere ad ogni tendenza a considerare la religione come un fatto privato» (Benedetto XVI 2008c); «nel cristianesimo non vi può essere posto per una religione puramente privata» (Benedetto XVI 2008d): «nella misura in cui la religione diventa un affare puramente privato, essa perde la sua stessa anima» (ibidem).

Questa tendenza si declina, rispettivamente, nella separazione fra libertà e verità, da cui deriva la costruzione individualistica di un senso morale, di un cristianesimo – e anche di un cattolicesimo – privati, in cui ciascuno sceglie le dottrine che più gli sono gradite e rifiuta le altre; in una separazione fra fede e cultura, fra sfera privata e sfera pubblica e sociale della fede; e nell’esclusione della religione dalla vita pubblica che è invece conseguenza di un atteggiamento prevaricatore da parte di un nuovo laicismo anticlericale e intollerante.

a) Separazione fra libertà e verità

Il primo rischio nasce da una nozione errata di libertà, separata dalla verità e quindi dalla responsabilità. «Noi osserviamo con ansia che la nozione di libertà viene distorta. La libertà non è facoltà di disimpegno da; è facoltà di impegno per – una partecipazione all’Essere stesso.

Di conseguenza, l’autentica libertà non può mai essere raggiunta nell’allontanamento da Dio. Una simile scelta significherebbe ultimamente trascurare la genuina verità di cui abbisogniamo per capire noi stessi» (Benedetto XVI 2008f). Il problema riguarda non solo la Chiesa ma «la società in generale» (ibidem).

«Quando nulla aldilà dell’individuo è riconosciuto come definitivo, il criterio ultimo di giudizio diventa l’io e la soddisfazione dei desideri immediati dell’individuo. L’obiettività e la prospettiva, che derivano soltanto dal riconoscimento dell’essenziale dimensione trascendente della persona umana, possono andare perdute. All’interno di un simile orizzonte relativistico gli scopi dell’educazione vengono inevitabilmente ridotti. Lentamente si afferma un abbassamento dei livelli. Osserviamo oggi una certa timidezza di fronte alla categoria del bene e un’inconsulta caccia di novità in passerella come realizzazione della libertà. Siamo testimoni della convinzione che ogni esperienza sia di uguale valore e della riluttanza ad ammettere imperfezioni ed errori» (ibidem).

Certo, «l’importanza fondamentale della libertà deve essere rigorosamente salvaguardata. Non è quindi sorprendente che numerosi individui e gruppi rivendichino ad alta voce in pubblico la loro libertà. Ma la libertà è un valore delicato. Può essere fraintesa o usata male così da non condurre alla felicità che tutti da essa ci aspettiamo, ma verso uno scenario buio di manipolazione, nel quale la nostra comprensione di noi stessi e del mondo si fa confusa o viene addirittura distorta da quanti hanno un loro progetto nascosto. Avete notato quanto spesso la rivendicazione della libertà viene fatta, senza mai fare riferimento alla verità della persona umana? C’è chi oggi asserisce che il rispetto della libertà del singolo renda ingiusto cercare la verità, compresa la verità su che cosa sia bene. In alcuni ambienti il parlare di verità viene considerato fonte di discussioni o di divisioni e quindi da riservarsi piuttosto alla sfera privata. E al posto della verità – o meglio, della sua assenza – si è diffusa l’idea che, dando valore indiscriminatamente a tutto, si assicura la libertà e si libera la coscienza. È ciò che chiamiamo relativismo. Ma che scopo ha una “libertà” che, ignorando la verità, insegue ciò che è falso o ingiusto?» (Benedetto XVI 2008n).

Al contrario, un’autentica «difesa della libertà chiama a coltivare la virtù, l’autodisciplina, il sacrificio per il bene comune» (Benedetto XVI 2008b). Come insegnava Giovanni Paolo II, «in un mondo senza verità, la libertà perde il proprio fondamento» (ibidem).

La nozione errata di libertà è penetrata anche nella Chiesa cattolica. Benedetto XVI lo ricorda negli Stati Uniti a quarant’anni dalla contestazione pubblica e clamorosa dell’enciclica Humanae vitae del 1968 di Paolo VI (1897-1978), quando tanti teologi e docenti di istituzioni cattoliche americane cominciarono a contestare apertamente l’insegnamento del Papa e a proporsi come «magistero parallelo», causando confusione e smarrimento nei fedeli.

«Una delle grandi delusioni che seguirono il Concilio Vaticano II […] penso sia stata per tutti noi l’esperienza di divisione» all’interno della Chiesa (Benedetto XVI 2008m). «Lungi dall’approccio cattolico del “pensare con la Chiesa” ogni persona crede di avere un diritto di individuare e di scegliere» (Benedetto XVI 2008d), fino allo «scandalo dato da cattolici che promuovono un presunto diritto all’aborto» (ibidem). «Tanti battezzati, invece di agire come lievito spirituale del mondo, sono inclini ad abbracciare atteggiamenti contrari alla volontà del Vangelo» (Benedetto XVI 2008e).

Anche nella Chiesa cattolica degli Stati Uniti, come nella società americana in genere – ed è questo l’altro volto, meno attraente, dell’individualismo che è al cuore dell’esperimento statunitense – molti considerano l’insieme delle verità e delle dottrine come un grande plateau de fromages, dove ciascuno potrebbe scegliere quello che è più conforme al proprio gusto personale.

E alle università cattoliche americane, purtroppo cuore del dissenso teologico dal 1968 a oggi, il Papa ricorda che «ogni appello al principio della libertà accademica per giustificare posizioni che contraddicono la fede e l’insegnamento della Chiesa ostacolerebbe o addirittura tradirebbe l’identità e la missione dell’Università, una missione che sta al cuore del munus docendi della Chiesa e non è in qualche modo autonoma o indipendente da essa» (Benedetto XVI 2008f).

La mancanza di unità nella Chiesa intorno alla verità e all’autorità fa da sfondo anche alla calamità inaudita e impensabile – che al Papa, dopo anni di riflessione, ancora «riesce difficile comprendere» (Benedetto XVI 2008a) e che gli causa «profonda vergogna» (Benedetto XVI 2008c) – che si è verificata con il coinvolgimento di alcuni sacerdoti cattolici in episodi di pedofilia.

Certo, il Papa ricorda che «la stragrande maggioranza dei sacerdoti e dei religiosi in America» non è coinvolta nello scandalo, di cui si tratta di valutare correttamente la «dimensione» (ibidem). Tuttavia la scelta del Papa nei discorsi americani è quella di non sottolineare gli eccessi della propaganda laicista sul tema, ma piuttosto il comportamento «gravemente immorale» di pochi sacerdoti e il fatto che la situazione sia stata «talvolta gestita in pessimo modo» anche da alcuni vescovi (ibidem).

Se la reiterata espressione di vergogna, di solidarietà con le vittime, d’impegno alla vigilanza a partire dai seminari – secondo il principio che «è più importante avere buoni sacerdoti che averne molti» (Benedetto XVI 2008a) – ha favorevolmente colpito la stampa statunitense, anche quella che si era preparata alla visita del Papa con maggiori pregiudizi, forse questa stessa stampa ha meno compreso l’invito ad analizzare anche questo dramma «in un contesto più ampio» (Benedetto XVI 2008c).

«I bambini – ha detto Benedetto XVI – hanno diritto di crescere con una sana comprensione della sessualità e il ruolo che le è proprio nelle relazioni umane. Ad essi dovrebbero essere risparmiate le manifestazioni degradanti e la volgare manipolazione della sessualità oggi così prevalente; essi hanno il diritto di essere educati negli autentici valori morali radicati nella dignità della persona umana. Ciò ci riporta alla considerazione sulla centralità della famiglia e sulla necessità di promuovere il Vangelo della vita. Che cosa significa parlare della protezione dei bimbi quando la pornografia e la violenza possono essere guardate in così tante case attraverso i mass media ampiamente disponibili oggi?» (ibidem).

b) Separazione fra fede e cultura

La privatizzazione della fede porta con sé anche il rischio che la religione, pure quando è seriamente vissuta sul piano individuale, non diventi cultura e non incida sulla società Si tratta di un rischio che Benedetto XVI aveva analizzato nell’enciclica Spe salvi su un piano insieme storico e spirituale che è richiamato, citando la stessa enciclica, nel discorso ai vescovi degli Stati Uniti.

Nell’epoca moderna «questa accentuazione dell’individualismo ha influenzato perfino la Chiesa (cfr Spe salvi, 13-15) dando origine a una spiritualità che talora sottolinea [esclusivamente] il nostro rapporto privato con Dio» (Benedetto XVI 2008c). Pure negli Stati Uniti, «anche se è vero che questo Paese è contrassegnato da un genuino spirito religioso, la sottile influenza del secolarismo può tuttavia segnare il modo in cui le persone permettono che la fede influenzi i propri comportamenti» (ibidem); mentre «solo quando la fede permea ogni aspetto della vita, i cristiani diventano davvero aperti alla potenza trasformatrice del Vangelo» (ibidem).

C’è uno specifico secolarismo americano che percorre tutta la storia degli Stati Uniti e gioca la tradizione individualistica contro la capacità della fede di farsi cultura. «Forse il tipo di secolarismo dell’America pone un problema particolare: mentre permette di credere in Dio e rispetta il ruolo pubblico della religione e delle Chiese, sottilmente tuttavia riduce la credenza religiosa al minimo comune denominatore. La fede diviene accettazione passiva che certe cose “là fuori” sono vere, ma senza rilevanza pratica per la vita quotidiana. Il risultato è una crescente separazione della fede dalla vita: il vivere “come se Dio non esistesse”. Ciò è aggravato da un approccio individualistico ed eclettico alla fede e alla religione» (Benedetto XVI 2008d).

La fede non può rimanere estranea al dibattito pubblico, tanto più in un momento in cui i valori non negoziabili in tema di vita, famiglia ed educazione – tante volte indicati come prioritari da Benedetto XVI – sono messi in pericolo. «Negli Stati Uniti, come altrove, vi sono attualmente molte leggi già in vigore o in discussione che suscitano preoccupazione dal punto di vista della moralità» (Benedetto XVI 2008c). I vescovi sono pertanto «chiamati anche a partecipare allo scambio di idee nella pubblica arena, per aiutare a modellare atteggiamenti culturali adeguati» (ibidem), tanto più che «non si deve dare per scontato che tutti i cittadini cattolici pensino secondo l’insegnamento della Chiesa circa le questioni etiche fondamentali di oggi» (ibidem).

Né il problema si limita alle leggi: si estende al costume. Per esempio, «come non essere sconcertati nell’osservare il rapido declino della famiglia quale elemento basilare della Chiesa e della società? Il divorzio e l’infedeltà sono in aumento, e molti giovani uomini e donne scelgono di ritardare il matrimonio o addirittura di ignorarlo completamente. Per alcuni giovani cattolici il vincolo sacramentale del matrimonio appare scarsamente distinguibile da un legame civile, o è percepito addirittura come un semplice accordo per vivere con un’altra persona in modo informale e senza stabilità. In conseguenza si vede un allarmante decremento di matrimoni cattolici negli Stati Uniti insieme ad un aumento di coabitazioni, nelle quali il reciproco donarsi degli sposi al modo di Cristo, mediante il sigillo di una pubblica promessa di vivere le esigenze di un impegno indissolubile per l’intera esistenza, è semplicemente assente. In tali circostanze viene negato ai figli l’ambiente sicuro di cui hanno bisogno per crescere come esseri umani, e vengono pure negati alla società quegli stabili pilastri che sono necessari, se si vuole mantenere la coesione e il centro morale della comunità» (Benedetto XVI 2008c).

Così, vengono meno con la cultura di morte dell’aborto «le sole verità che possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti di ogni uomo, donna e bambino nel mondo, compresi i più indifesi tra gli esseri umani, i bimbi non ancora nati nel grembo materno» (Benedetto XVI 2008o).

In un Paese dove la tradizione dell’individualismo è spesso invocata da chi non gradisce la presenza dei credenti nella vita politica, Benedetto XVI invita con chiarezza a «superare ogni separazione tra fede e vita, opponendosi ai falsi vangeli di libertà e di felicità. Vuol dire inoltre respingere la falsa dicotomia tra fede e vita politica, poiché come ha affermato il Concilio Vaticano II, “nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al dominio di Dio” (Lumen gentium, 36)» (Benedetto XVI 2008o).

c) Tentativi di escludere la religione dalla vita pubblica

La tentazione dei credenti di separare la fede dalla cultura incontra il movimento, per così dire, reciproco del laicismo che cerca di escludere la religione dalla vita pubblica, lasciando spazio solo al relativismo. «La “dittatura del relativismo”, alla fin fine, non è nient’altro che una minaccia alla libertà umana, la quale matura soltanto nella generosità e nella fedeltà alla verità» (Benedetto XVI 2008d).

Il nuovo laicismo si esprime come una sorta di divieto di porre la domanda sul fondamento ultimo da una parte della conoscenza, dall’altra della politica. Quanto alla conoscenza, «l’ideologia secolaristica pone un cuneo tra verità e fede. Questa divisione ha portato alla tendenza di eguagliare verità e conoscenza e ad adottare una mentalità positivistica che, rigettando la metafisica, nega i fondamenti della fede e rigetta la necessità di una visione morale. Verità significa di più che conoscenza: conoscere la verità ci porta a scoprire il bene. La verità parla all’individuo nella sua interezza, invitandoci a rispondere con tutto il nostro essere» (Benedetto XVI 2008f).

Si tratta di questioni che coinvolgono il significato della conoscenza e il senso dell’educazione, e che non a caso Benedetto XVI presenta nel contesto di un’accorata difesa del ruolo e dell’identità dell’università e della scuola cattoliche. «La missione della Chiesa, di fatto, la coinvolge nella lotta che l’umanità sostiene per raggiungere la verità. Nell’esprimere la verità rivelata essa serve tutti i membri della società purificando la ragione, assicurando che essa rimanga aperta alla considerazione delle verità ultime. Attingendo alla divina sapienza, essa getta luce sulla fondazione della moralità e dell’etica umana, e ricorda a tutti i gruppi nella società che non è la prassi a creare la verità ma è la verità che deve servire come base della prassi. Lungi dal minacciare la tolleranza della legittima diversità, un simile contributo illumina la verità stessa che rende raggiungibile il consenso, ed aiuta a mantenere ragionevole, onesto ed affidabile il pubblico dibattito. Similmente la Chiesa mai si stanca di sostenere le categorie morali essenziali del giusto e dell’ingiusto, senza le quali la speranza può solo appassire, aprendo la strada a freddi calcoli pragmatici utilitaristici che riducono la persona a poco più di una pedina su di un’ideale scacchiera» (ibidem).

Quanto alla politica, il discorso alle Nazioni Unite ha suscitato qualche delusione da parte di chi si aspettava che il Papa scendesse nel dettaglio della cronaca dei diritti umani, citando casi specifici come il Darfur, la Birmania o il Tibet.

Ma in realtà l’intervento all’ONU di Benedetto XVI vola più alto dei casi singoli e si preoccupa di qualche cosa di molto più importante: di come fondare i diritti umani e il bene comune dei popoli che le Nazioni Unite affermano di voler proteggere. Il Papa propone due fondamentali passaggi.

Il primo fa riferimento al diritto naturale, senza il quale i diritti umani vengono meno: i «diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti» (Benedetto XVI 2008h). La legge naturale è uguale per tutti: per i cristiani come per i musulmani o gli atei.

Sostenere che i diritti umani trovano il loro fondamento nella legge naturale implica affermare con chiarezza che il richiamo alla giustizia procedurale e al consenso democratico non è sufficiente, e ultimamente vanifica il contenuto di questi diritti. «Il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti» (Benedetto XVI 2008h).

«L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. […]. Tale aspetto viene spesso disatteso quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una gretta prospettiva utilitaristica» (ibidem).

È proprio questo carattere universale dei diritti umani – non relativistico, non contingente, non variabile a seconda della geografia, della storia e dei contesti religiosi, non legato a votazioni di qualche assemblea ma alla natura umana – che permette a Benedetto XVI di risolvere la delicata questione del diritto d’ingerenza cosiddetta umanitaria della comunità internazionale negli affari interni di Paesi che non tutelano i diritti umani dei loro cittadini, una questione la cui soluzione di principio deve ovviamente precedere qualunque esame dei casi concreti che qualcuno avrebbe voluto vedere affrontati dal Papa a New York.

«Nei dibattiti interni delle Nazioni Unite viene data una crescente importanza alla “responsabilità di proteggere”. Di fatto, questa comincia ad essere riconosciuta come la base morale per il diritto di un governo ad esercitare l’autorità. È anche una caratteristica che per natura appartiene alla famiglia, dove i membri più forti si prendono cura di quelli più deboli. Questa Organizzazione, sorvegliando in quale misura i governi corrispondano alla loro responsabilità di proteggere i loro cittadini, esercita un servizio importante in nome della comunità internazionale» (Benedetto XVI 2008i).

«Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è [sic] l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale» (Benedetto XVI 2008h).

In secondo luogo, e si tratta di un tema sia delicato sia caratteristico di tutto il magistero di Benedetto XVI, il Pontefice afferma insieme da una parte che i diritti umani, in quanto fondati sulla legge naturale, s’impongono a tutti gli uomini, credenti o non credenti, per il solo fatto di essere uomini e di condividere la stessa natura umana, dall’altra che il vero fondamento ultimo di questi diritti è di carattere religioso in quanto la legge di natura è parte del progetto creatore di Dio.

Tra le due tesi non c’è in realtà nessuna contraddizione. Il non credente può e deve riconoscere la legge naturale sulla base della sola ragione. Ma le istituzioni internazionali, se vietano ai credenti di mettere in luce come i diritti umani trovino il loro fondamento ultimo in Dio, si privano del più forte sostegno per questi diritti proprio nel momento in cui la loro universalità è da più parti negata.

I diritti umani «si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia» (Benedetto XVI 2008h). Ed è comunque paradossale – mentre si concede diritto di cittadinanza a ogni ideologia – negare il loro ruolo nel dibattito sui diritti soltanto alle religioni.

È questa una forma di violazione della libertà religiosa, che non è soltanto libertà di culto ma è anche libertà dei credenti di offrire la loro fede come fondamento dei principi morali che reggono la società. «È […] inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti. I diritti collegati con la religione sono quanto mai bisognosi di essere protetti se vengono considerati in conflitto con l’ideologia secolare prevalente o con posizioni di una maggioranza religiosa di natura esclusiva. Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. […]. Il rifiuto di riconoscere il contributo alla società che è radicato nella dimensione religiosa e nella ricerca dell’Assoluto – per sua stessa natura, espressione della comunione fra persone – privilegerebbe indubbiamente un approccio individualistico e frammenterebbe l’unità della persona» (ibidem).

continua

(A.C. Valdera)