Il Giornale, 16 novembre 2007
di Fiamma Nirenstein
Yamilé Llanes Labrada è una ancor giovane bellezza cubana e riesce a sorridere raccontando la sua tragica storia. Dal marzo 2003 suo marito è in un carcere speciale di Fidel Castro, accusato, secondo la cosiddetta «legge-museruola» varata in quell’anno a Cuba contro chi «danneggia l’economia e l’indipendenza del Paese», di essere un delinquente da rinchiudere e isolare.
«Mio marito, José Luis García Paneque, era uno dei medici più amati dell’ospedale Ernesto Che Guevara. La gente si ribellò quando lo cacciarono dall’ospedale per poi farlo finire in una cella scura e umida, lunga due metri e larga un metro e mezzo.
In quello stesso giorno una folla di vecchi del Comitato Rivoluzionario si allineò sotto la nostra casa dove eravamo rimasti io e i miei quattro figli da soli: ci assediarono, urlando insulti e minacce e cantando canzoni con le parole modificate, piene di insulti. Guantanamera diventò una canzone contro José Luis.
Ogni settimana si rinnovavano queste operazioni di intimidazione, non potevamo uscire di casa né salire e scendere le scale, i vicini non ci parlavano più, a volte sotto casa si radunavano giovani che brandivano bastoni, a volte marciavano intorno alle nostre finestre bambini organizzati dai soliti comitati. I miei figli guardavano dalle finestre e spargevano lacrime col naso schiacciato contro il vetro.
La più piccola, Maria, era la più spaventata di tutti. Il carcere era a 700 chilometri da casa, una distanza proibitiva per andare dal paese di Las Tunas a l’Havana per curare un uomo quando hai quattro figli. E sì che ne aveva bisogno: all’inizio pesava 80 chili, oggi ne pesa 42 ed è bisognoso di medicamenti speciali urgenti».
È una vicenda di ordinario orrore totalitario e Yamilé ce l’ha raccontata ieri durante la conferenza organizzata a Venezia dalla Fondazione Craxi nella ricorrenza della Biennale del dissenso: «Il dissenso continua». Così l’hanno chiamata Stefania Craxi e Carlo Ripa di Meana che fu, nel ’77, insieme a un coraggioso pugno di intellettuali (Galli della Loggia, Flores d’Arcais, Mughini e altri con l’attivo sostegno di Craxi) e ai nuovi filosofi francesi, l’animatore di quella che è rimasta la pietra miliare, l’unica forse posta dall’Italia, nella critica dura al totalitarismo comunista.
Yamilé è accompagnata da sua figlia più grande, la diciassettenne Shila; insieme a Sherine di 12 anni, a José di 10 e a Maria di 9 sono stati accolti a Dallas, in Texas, come rifugiati politici perché il marito l’ha supplicata di andarsene, dato che per lui sono previsti 24 anni di carcere e perché le persecuzioni alla famiglia si sono fatte più minacciose.
Yamilé, allora studentessa di legge poco più che ventenne, incontrò il marito per la prima volta nell’ospedale in cui lavorava: lui spalancò per caso davanti a lei la porta da cui la giovane donna stava entrando per andare a trovare un’amica operata proprio da José. «Aveva la mascherina – racconta lei -, ma io vidi subito qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di definitivo. E lui mi mandò presto a dire, attraverso un’infermiera, che accompagnassi io la mia amica a fare la visita di controllo. Era assolutamente indispensabile!».
Ride per un attimo, e poi torna l’incubo: «José, in quanto cattolico, era contrario all’eutanasia, o per lo meno a quella che negli ospedali cubani si fa per risparmiare l’uso di troppe medicine. Era molto critico sullo stato dell’igiene della società cubana, scriveva sul rischio di epidemie e sulla miseria dell’alimentazione, denunciava tutto ciò che gli sembrava ingiusto dal punto di vista sociale e sanitario in una società la cui economia e la cui alimentazione sono devastate».
E così José, per essere stato un medico cristiano e per essere intervenuto criticamente sul presente e sul futuro di una società che non ha più neppure la canna da zucchero, è in un carcere. E con lui circa trecento altri prigionieri politici. Cuba, in più di 40 anni di dittatura, si è dimostrata irriformabile. E il geronte Fidel Castro si frappone ancora col suo malatissimo corpo alla libertà dei cubani.
(A.C. Valdera)