di Peter Berkowitz
(senior fellow alla Hoover Institution e professore alla George Mason University School of Law)
Non doveva andare così. Il cristianesimo evangelico non doveva assurgere negli anni Ottanta a forza politica negli Stati Uniti. L’Islam militante non doveva alzare la testa negli anni Novanta, diventando una minaccia globale per l’America e l’occidente. Né doveva esserci un risveglio religioso mondiale, in America del sud, in Africa e in Asia, tra gli altri luoghi dove questo è avvenuto, che comprendesse i principali gruppi religiosi, non solo cristiani e musulmani ma anche hindu e buddisti.
Al contrario, la democrazie e la modernizzazione, acquisendo forza nella seconda metà del Ventesimo secolo, dovevano portare a compimento quanto era iniziato nel Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, spazzando via antiche superstizioni, liquidando pregiudizi ereditati dal passato, e insediando la ragione sullo stallo dell’autorità nella vita morale e politica e permettendo infine all’uomo di sentirsi del tutto a casa sua nel mondo dopo averlo completamente secolarizzato.
Il libro “The Stillborn God” (Il Dio nato morto), di Mark Lilla, è uno studio sofisticato e avvincente di religione e politica nell’occidente moderno, aiuta a spiegare da dove venga quest’idea e perché si sia dimostrata inesatta. Non è stato scritto in risposta alle sfide politiche del momento, ma non avrebbe potuto essere più tempestivo. Come le migliori storie di filosofia, “The Stillborn God” fa luce su promesse e pericoli del presente soffermandosi sulle origini intellettuali del nostro modo di vedere odierno e ricordandoci le alternative dimenticate.
Per quanto molti cittadini americani possano non andare d’accordo in fatto di religione, di solito siamo concordi nell’affermare che le questioni politiche (Qual è la giusta misura di potere governativo? In quali casi scendiamo in guerra? Chi dobbiamo scegliere perché ci guidi?) non devono essere risolte facendo appello alla volontà di Dio, all’interpretazione delle Scritture o a dichiarazioni profetiche. Usare argomentazioni religiose in ambito politico non è vietato, dopo tutto viviamo in una società libera.
Ma nella maggior parte dei casi, anche quando le nostre opinioni politiche sono ispirate dalla fede religiosa, riconosciamo la necessità imperativa di tentare di persuadere i concittadini della bontà della nostra posizione senza l’aiuto della rivelazione divina o di elucubrazioni teologiche.
Questo atteggiamento, come sottolinea Lilla, rappresenta un’innovazione relativamente recente. L’alternativa, ovvero la teologia politica, ha guidato l’uomo per millenni nell’occidente e ancora lo guida in molte parti del mondo. La sua grande missione era di dare un fondamento alla politica che fosse pubblicamente e definitivamente ancorato agli insegnamenti della religione.
La teologia politica deriva dal tentativo di comprendere un cosmo misterioso che ciononostante sembra comportarsi, sotto molti aspetti, in modo regolare e come retto da una legge. In un mondo del genere è naturale voler dirimere dispute gravose su chi debba esercitare l’autorità, e in che modo, facendo ricorso alla più alta delle autorità.
Secondo Lilla, la figura decisiva della rivolta contro la teologia politica in occidente, ovvero nella teologia politica cristiana, fu Thomas Hobbes (1588-1679). Le cosiddette guerre di religione che dominarono parte dell’Europa nella seconda metà del Sedicesimo secolo e nella prima metà del Diciassettesimo sono vivide nei suoi ricordi, Hobbes tentò di separare la politica dalla religione. Effettuò questa “Grande Separazione”, ci dice Lilla, non solo facendo della natura umana stessa la più alta autorità politica, ma anche introducendo un nuovo modo di intendere l’uomo, la natura e il cosmo.
A suo parere, la natura è meccanicistica. Dio non è il Creatore e Redentore ma tutt’al più una causa ultima. La natura umana è governata da passioni e appetiti immorali, e la ragione uno strumento per soddisfarli. La fede religiosa, come avevano pensato gli antichi epicurei, deriva dalla paura e dall’ignoranza.
L’ordine politico migliore consegue la pace, poiché l’autoconservazione è prerequisito per soddisfare i desideri individuali, concentrando il potere nel sovrano. Soprattutto, poiché le differenze riguardanti la religione sono la fonte principale di lotta e guerra tra le nazioni, la religione, a suo giudizio, deve essere radicalmente ridimensionata.
Alcuni pensatori successivi hanno sfidato l’idea di ridimensionamento della religione di Hobbes, ma senza disturbare la “Grande Separazione”. Locke ci ha insegnato che la pace e la protezione del singolo sono più facilmente raggiungibili tramite la tolleranza religiosa e la separazione dei poteri.
Rousseau e Kant hanno sostenuto che l’uomo ha necessità religiose che esigono rispetto ma non possono essere del tutto soddisfatte dalla religione convenzionale. Ed Hegel ha cercato di dimostrare che la fede religiosa funge da veicolo indispensabile per l’espressione di verità fondamentali sulla vita etica.
La teologia politica ha vissuto una sorta di rinascita nella Germania del Diciannovesimo secolo, come dimostra Lilla. Guidata dai teologi protestanti, la nuova teologia politica, o “teologia liberale”, secondo il nome con cui si è poi diffusa, individuava la presenza di Dio nella storia nei progressi morali e politici del moderno stato-nazione tedesco.
I teologi liberali furono aspramente criticati nel Ventesimo secolo dal teologo tedesco Karl Barth e dal filosofo tedesco ebreo Franz Rosenzweig perché si diceva avessero perso di vista la realtà della rivelazione biblica e le promesse di redenzione divina. Dopodiché i fucili e i campi di concentramento della Seconda guerra mondiale ridussero al silenzio il dibattito in Europa.
Dove ci porta tutto questo? Lilla conclude che “non c’è modo di cancellare la distinzione tra teologia politica, che in un qualche punto fa sempre appello alla rivelazione divina, e una filosofia politica che cerchi di comprendere e realizzare il bene politico senza richiamarsi a nulla di simile”. Anche quando cerca di spiegare perché altre civiltà sono certamente libere di compiere scelte diverse, ci sprona a “far sì che la nostra politica rimanga non illuminata dalla luce della rivelazione”.
Ma non è un’affermazione troppo assoluta, soprattutto per un paese la cui Dichiarazione di Indipendenza fonda i suoi diritti inalienabili su Dio e sulla natura? La grande impresa dell’occidente liberale è dare spazio alla religione, nella vita pubblica così come in quella privata, senza sacrificare la libertà individuale e l’ordine politico. Certo, non si tratta di un compito semplice, come dimostra Lilla, perché la fede religiosa tende ad avanzare richieste esclusive e spesso politiche.
Lilla ricostruisce con eleganza tanta storia intellettuale che non si può non rammaricarsi del fatto che non abbia spinto la sua analisi in tempi più vicini al presente, descrivendo i tentativi dei pensatori recenti di comprendere le fondamenta filosofiche della religione e della politica.
Sarebbe istruttivo apprendere, ad esempio, cosa distingue la sua stessa interpretazione da quella di Leo Strauss (1899- 1973), che sosteneva che la civiltà occidentale traesse le proprie forze dalla contesa irrisolta tra la ragione e la rivelazione. E sarebbe interessante sapere dove metterebbe Charles Taylor, vincitore del premio Templeton 2007 per la religione, che da tempo sostiene che molti dei grandi risultati conseguiti dalla modernità attingono nutrimento sotterraneo da fonti religiose premoderne.
Altra domanda importante è se la tradizione europea intorno a cui ruotano le argomentazioni di Lilla non tralasci un’alternativa fondamentale, incarnata dall’esperimento americano di democrazia liberale.
Quell’alternativa, sostenuta dai Padri Fondatori, adduceva motivazioni religiose per separare chiesa e stato e motivazioni politiche per tenere cara la religione. E questo ci dice che la sfida non sta tanto nella scelta tra fare affidamento su Dio o sull’uomo, ma nello scegliere di dare a ciascuno quel che gli compete.
Wall Street Journal per concessione di Milano Finanza; (traduzione di Elia Rigolio)
(A.C. Valdera)