In nove anni la lotta all’Hiv ha fatto progressi in Africa. E non grazie a barriere di lattice. I risultati del congresso di Città del Capo
di Giustino Parruti
(direttore UO di Malattie infettive, Pescara; docente di Immunologia clinica all’Università di Chieti; segretario dell’Associazione nazionale primari ospedalieri di malattie infettive)
[img]http://www.rassegnastampa-totustuus.it/upload/Guest/cd.gif[/img] Nel 2000, quando 13 mila esperti e ricercatori si radunarono a Durban, gli infetti da Hiv nel mondo avevano superato da poco i 30 milioni. Di questi, oltre i tre quarti in Africa. La diffusione della malattia per via sessuale, in ragione dei costumi delle popolazioni, in particolare quella subsahariana, era divenuta rapida e drammatica; la prevalenza dell’infezione da Hiv era in crescita esponenziale e alcune aree, specie quelle del corno d’Africa (Sud Africa, Zimbabwe, Mozambico, Botswana) presentavano tassi di infezione a due cifre, anche al di sopra del 30 per cento della popolazione, almeno in alcuni distretti.
L’accesso alle cure, divenute disponibili e inizialmente efficaci negli anni precedenti nel mondo occidentale, era precluso agli africani, con una percentuale di trattati inferiore all’1 per cento degli infetti, contro l’80, 90 per cento del mondo occidentale. Sulle strategie di prevenzione infuriava la bufera ideologica – riaccesasi in occasione del recente viaggio di Papa Benedetto XVI in Africa – con un’enfasi eccessiva sulle potenzialità della contraccezione barriera, metodo di contenimento che la concezione della mascolinità egemonica delle popolazioni dell’Africa australe vede come una negazione del proprio essere e quindi, semplicemente, non considera e non applica.
Lo ha magistralmente spiegato Rachel Jewkes, direttrice del Medical research council’s gender and health research unit di Pretoria, alla conferenza in una lezione magistrale plenaria, con buona pace di quanti enfatizzano l’uso del preservativo. Ancora nel 2008, nel Kwa-Zulu, una regione enorme del Sud Africa, le donne a 15 anni hanno presentato una prevalenza di Hiv dell’1 per cento; a 19-21 anni, all’epoca della prima gravidanza, la prevalenza diveniva del 50, con punte del 66 per cento.
Una simile escalation non si spiega col mancato uso del preservativo, ma con una cultura di promiscuità sistematica, imposta alle donne sin dalla giovane età, che non può essere “curata” con il tentativo patetico di raccomandare le pratiche del sesso sicuro.
E questo scenario continuerà ad essere immodificato da tanti investimenti in prevenzione, ha detto la Jewkes, in assenza di sostegno ad una variazione antropologica e culturale radicale. Paradossalmente, ha aggiunto la Jewkes, forse proprio la tragedia dell’Aids e l’avvento delle cure solidali sta inducendo in non pochi membri di quella comunità un ripensamento su ciò che vale davvero nella vita.
Buone notizie e problemi irrisolti
Come ebbi modo di scrivere su Tempi già nel 2000, Nelson Mandela tenne all’epoca un eccezionale discorso alla cerimonia di apertura del congresso mondiale, dicendo che la soluzione al problema dell’Aids stava tutta nell’uomo, nella sua cultura, nella sua capacità di crescita solidale, nella sua capacità illimitata di trovare risorse quando è certo della bontà di un’impresa.
Disse Mandela che si trattava di coniugare la solidarietà del mondo per l’Africa con la necessità che i popoli del continente ripensassero il proprio modo di concepire la vita e la responsabilità per il proprio destino individuale e collettivo.
In pochi anni l’entità degli investimenti per l’Africa è cresciuta esponenzialmente. Oggi sono oltre 15 i miliardi di dollari annualmente spesi per la realizzazione di una rete di centri di diagnosi e cura che renda possibile sull’intera area del continente l’accesso alle cure per tutti coloro che ne abbiano bisogno.
Ecco i numeri: nel 2008 oltre 5 milioni di infetti da Hiv in Africa hanno ricevuto cure efficaci; in molte aree la copertura sta approssimando il 90 per cento. In Sud Africa, Botswana, Angola, Kenia, Costa d’Avorio, la situazione sta evolvendo, senza alcuna flessione ascrivibile alla crisi mondiale e alla temuta restrizione dei finanziamenti internazionali. I dati scientifici documentano che le cure funzionano e il decremento del tasso di mortalità è parallelo a quello osservato nel mondo occidentale.
L’aderenza alla terapia prescritta è paragonabile, e forse in molte aree superiore, a quella osservata in Europa e Nord America, un dato importante, perché seguire la cura con costanza è un requisito essenziale perché possa avere un effetto positivo durevole. Anche la trasmissione da madre a figlio in corso di gravidanza sta procedendo verso un controllo molto efficace (circa l’1 per cento di trasmissione, contro il 18-25 degli anni bui), ed il miglior modo per prevenirla è mettere la madre in cura almeno un trimestre prima del parto, fino alla fine dell’allattamento.
Non molte altre branche della medicina stanno conoscendo un’evoluzione così rapida come quella delle malattie infettive. Una vasta serie di studi clinici presentati e Cape Town rafforza e completa un quadro rassicurante che da qualche mese a questa parte mesi va emergendo:
1. Le nuove classi di farmaci per il trattamento dell’Hiv sono efficaci anche per i pazienti già da tempo trattati senza successo, i quali abbiano acquisito resistenze virali alle prime tre classi di farmaci, già disponibili dal 1995-96. Con i nuovi farmaci quasi tutti i pazienti possono raggiungere l’obiettivo massimale della terapia, cioè il pieno controllo della replica dell’Hiv. Questa è condizione necessaria – anche se talora non sufficiente – perché si possa assistere ad un progressivo recupero delle difese immuni e conseguentemente della salute della persona trattata.
2. Le interruzioni della terapia sono spesso gravate da notevoli rischi, connessi alla ripresa della replica virale. La terapia deve essere pertanto continuativa nella maggior parte delle persone infette. Fanno eccezione le persone che abbiano avuta diagnosticata la infezione da Hiv precocemente, cioè essendo ancora del tutto asintomatiche e con difese immuni preservate dalla micidiale destrutturazione causata dall’Hiv nelle fasi avanzate dell’infezione. Da ciò un ulteriore richiamo, non solo in Africa, a sottoporsi al test nel sospetto di essersi esposti alla trasmissione del virus (che come è noto non si trasmette per via aerea).
3. Numerose strategie di semplificazione della terapia vanno profilandosi. Alcuni studi rivelano che, dopo un avvio di terapia associativa con tre o quattro farmaci, il mantenimento dell’effetto soppressivo può essere ottenuto con un solo farmaco o con due farmaci, scelti tra quelli di seconda generazione, meglio tollerati, meno tossici e capaci di offrire alle persone trattate una vita sostanzialmente normale.
4. La ricerca farmacologica continua a scodellare nuove e più potenti molecole con la promessa di un controllo, se possibile, ancora più efficiente dell’infezione. Per dare un’idea dell’entità di tale evoluzione merita menzione un nuovo farmaco presentato a questo congresso: un inibitore delle integrasi di Hiv di seconda generazione, che, assunto ad un dosaggio forse ancora potenziabile, è risultato capace – nelle sperimentazioni preliminari e somministrato da solo – di ridurre del 99,8 per cento la replica virale in soli dieci giorni. In sostanza è stato in grado di determinare da solo la scomparsa (o non rilevabilità, come tecnicamente la chiamiamo) del virus dal torrente ematico in circa il 70 per cento dei trattati in soli 10 giorni. Il tutto senza generare, per quanto sin qui registrato, alcun effetto collaterale o metabolico.
Buone notizie, insomma; ma certi problemi rimangono. In Europa ed America gli infetti vengono controllati ogni due-tre mesi, ogni volta viene studiata a livello molecolare la possibile replicazione del virus nel sangue, e se il virus riparte immediatamente viene valutata la possibile presenza di resistenze nella sua sequenza, facendo ricorso ad altre e più complesse tecniche molecolari.
Solo così possono essere acquisite le informazioni complete necessarie per modificare efficacemente la terapia nel singolo paziente trattato. In Africa, dove la disponibilità della terapia è arrivata, si può fare molto meno per individuare e salvare i pazienti in fallimento. Il paziente è controllato solo clinicamente, cioè sotto il profilo dei possibili sintomi emergenti. Insomma, si cambia terapia solo se il paziente comincia a dimagrire o a star male di nuovo.
Basta coi farmaci tossici
Su questo punto, ricercatori di tutto il mondo – Italia in testa – hanno avuto la chiarezza e la decisione di dire in modo vibrato che il minimalismo nella gestione della terapia in Africa non è conveniente oltre che ingiusto. Alle autorità e ai finanziatori è stato ribadito che mancare oggi di effettuare l’opportuno ulteriore investimento per il monitoraggio appropriato delle cure può condurre ad una perdita precoce di efficacia delle cure stesse, e ad un nuovo arretramento dell’economia africana. Ed in modo altrettanto vibrato è stato detto che alcuni farmaci di prima generazione, molto economici ma tossici, non possono essere più utilizzati.
Il bilancio, rimane comunque positivo e, senza voler sminuire il dramma della vicenda, si può cominciare a guardare al futuro con maggior serenità.