La Ruota Periodico del Centro per la Vita di Pisa fondato nell’ottobre del 1996 da Massimo Ermini – Anno XX – 1
Una riflessione biogiuridica sull’emergenza antropologica a fronte di un approccio frammentario ai temi etici
Giuseppe Mazzotta
Nonostante i quasi venti anni trascorsi, continua ad essere assai vicina, nel tempo, una tiepida mattina del mese di ottobre del 1996, quando, nel corso di un incontro presso la sede del Centro di Bioetica dell’Università di Pisa, il Prof. Massimo Ermini, uomo e medico, come amava definirsi, pensò di fondare questa rivista trimestrale che oggi, come egli direbbe scherzando, ha ampiamente raggiunto la maggiore età.
Il titolo, La Ruota, prendendo a prestito l’immagine della Ruota degli Esposti: si tratta di un noto sistema costituito da un tamburo rotante di legno posto all’esterno dell’edificio davanti ad una finestra con una grata, sul quale veniva adagiato il bambino; una volta fatta girare era possibile recuperare il neonato all’interno della struttura. La Ruota, uno strumento semplice ed essenziale, discreto, mediante il quale, da un lato, una madre in difficoltà nel continuare ad assistere il proprio bambino e, dall’altro, una persona disposta ad aiutare senza chiedere, mossa dalla pietas e dalla corresponsabilità per madre e figlio, si incontravano, accomunate dall’indiscutibile interesse del bambino a conservare il bene più grande ossia la sua vita, evitando che chicchessia si arrogasse il diritto di decidere arbitrariamente in relazione ad essa.
Quando ne parlavamo, insieme al Professore, restavamo colpiti dal fatto che in, molte narrazioni, i bambini adagiati nella Ruota recassero piccoli segni di riconoscimento, nastri, minuti oggetti di vario tipo, di transizione si direbbe oggi, e con la funzione di permettere, nell’eventuale futuro ritorno della madre, di effettuare un semplice ma sicuro, riconoscimento del bambino.
Mosso dalla curiosità ero stato personalmente a visitare la sede dell’ospedale degli Innocenti di Firenze, sito di una storica Ruota degli Esposti, dove era iniziata la vicenda umana, giunta sino ai giorni nostri, della pur breve vita di Agata Smeralda, la prima bambina abbandonata nella pila dell’acqua benedetta della Chiesa dello “Spedale degli Innocenti” di Firenze nel lontano 5 febbraio 1445.
Il contatto con questi oggetti ha la forza delicata e invincibile dell’esperienza che si consuma nella vita quotidiana e, per questo, attraversa le epoche storiche trasversalmente, riportando ai giorni nostri fin quasi il suo rumore, come in quell’affresco che abbiamo scelto per la prima pagina del nostra rivista, perché realizzato da un artista come Masaccio, che porta «dentro la pittura il rumore della vita, il senso di qualcosa che esiste, che si muove e finisce per coinvolgere persino gli spettatori, personaggi degli episodi, tanto quanto le figure dipinte (Vittorio Sgarbi – Nel nome del figlio)».
E nel corso di questi anni, in più occasioni, la cura per la vita nascente, si è intrecciata alla riflessione bioetica, anche sulle colonne di questa rivista trimestrale, nella quale ci si è più volte e da più parti espressi sulla pericolosità della frammentazione di tanti approcci bioetici quante sono le tematiche che interpellano il pensiero bioetico, il quale dovrebbe sempre svolgersi attraverso principi che, proprio nella differenza delle tematiche trattate, trovano conferma della loro unicità. Il principio del non uccidere e quello dell’eguale dignità di ogni essere umano a prescindere dalla sua condizione, portano, ad es., a considerare inaccettabile l’aborto volontario così come la fecondazione eterologa, ma anche a ritenere improponibile un intervento nei confronti di una persona sofferente e malata che radicalizzi, divaricandola, l’asimmetria rispetto a coloro che, nel pieno delle proprie capacità psicofisiche e decisionali, giungono sino al punto di negargli la vita, il più grande e basilare bene condiviso da entrambe.
Una legge, quale, ad esempio, quella da poco meno di due anni approvata in Belgio, e l’intento che la pervade, certamente ci interpellano sulla necessità di orientare la confutazione degli argomenti che la sostengono, dentro e fuori il Parlamento che l’ha adottata, evitando di disperdersi nei mille rivoli delle, invero, assai poco strategiche differenziazioni di rilevanza delle attribuzioni giuridiche riservate a chi opera nei differenti settori oggetto delle problematiche bioetiche, occorrendo, invece, previamente affermare e sviluppare l’unicità del principio dell’eguale ed intangibile dignità che fonda la vita di ogni uomo dal concepimento alla morte naturale.
La legge approvata permette l’eutanasia per i minori di diciotto anni, in tal modo legalizzando la possibilità di interrompere la vita dei bambini sottoposti a cure per malattie, spesso particolarmente gravi, ed in una condizione sulla quale proprio questa legge consente un arbitrario giudizio sul fatto se quella vita meriti o meno di essere proseguita.
Sono facilmente intuibili i riflessi di una normativa che legittima il comportamento mediante il quale si ponga fine alla vita di un essere umano, sul presupposto, da solo sufficiente, che esso sia gravemente malato ed in uno stato di particolare sofferenza. Il contesto nel quale maturano atti e giudizi connessi alle legge citata è come offuscato da una patina di pietismo con cui si giustifica l’atto di chi intenderebbe, con l’interruzione della vita stessa, porre fine ad insopportabili sofferenze.
E il pietismo esplicita un’intrinseca differenza rispetto alla “pietas”: quest’ultima esita in un atteggiamento verso la condizione del sofferente del quale non sia possibile la guarigione e che può manifestarsi, evidentemente anche in ambito medico, mediante atti tesi a curare il paziente, a lenire la sofferenza stessa, ad aiutare chi la prova a viverne l’esperienza, ove possibile, senza rinunciare a percepire ed esperire la presenza degli altri, a condividerla con chi vi si accosta, tutti atti che entrano nella relazione con il malato connotando eticamente e umanamente l’uso dei mezzi diretti alla realizzazione degli scopi anzidetti: insomma molto di ciò che, in ambito medico, si esprime attraverso le cure palliative e, più in generale, le terapie di supporto, ossia tutti quegli interventi che, per loro intrinseca natura e per la loro oggettiva finalità, tendono a restituire alla persona la capacità di essere presente nel mondo anche oltre la sofferenza che la opprime e, comunque, ad attenuare la sofferenza quanto più possibile al di sotto della soglia che impedisce di essere con e in mezzo agli altri: cure che tendono a restituire la vita alle persone e le persone alla vita, ossia esattamente il contrario di quanto accade con l’intervento eutanasico che bypassa totalmente tutto questo per determinare la fine della vita del sofferente, sul quale umanamente, ci si dovrebbe, invece, chinare.
La cultura “dello scarto”, come recentemente l’ha definita Papa Francesco, al contrario, in certo qual modo alzandosi, in maniera fredda e neutrale, dal sofferente, propone, addirittura anche a livello legislativo, la soluzione eutanasica, e si esplicita al di fuori della logica della presa in carico del paziente, all’interno della quale è auspicabilmente presente il possibile, o probabile, esito della guarigione, ma nella quale è, comunque, sempre presente la cura del malato anche quando esso non sia guaribile, in tal modo includendo, nella relazione, la dignità propria di chi viene accettato per il suo essere creatura personale e individuo irripetibile e non per gli attributi che a ciò si aggiungano per definirne competenze ed attitudini, le quali, invece, sono indistintamente proprie di una molteplicità indifferenziata di soggetti oltre che intrinsecamente precarie.
La prospettiva nella quale allora si iscrive il rapporto con il sofferente è quella di una relazione corresponsabile che, come tale, non può prescindere dalla garanzia, per ciascuno di coloro che la stabiliscono, del bene in assoluto più grande ossia la vita stessa, altrimenti perdendo questa relazione qualunque prospettiva di senso.
Riaffiorano alla memoria le recentissime parole, pronunciate da Papa Francesco dinanzi alla Pontificia Accademia per la Vita il 19 febbraio 2015: «Alla base delle discriminazioni e delle esclusioni vi è però una questione antropologica: quanto vale l’uomo e su che cosa si basa questo suo valore. La salute è certamente un valore importante, ma non determina il valore della persona. La salute inoltre non è di per sé garanzia di felicità: questa, infatti, può verificarsi anche in presenza di una salute precaria. La pienezza a cui tende ogni vita umana non è in contraddizione con una condizione di malattia e di sofferenza. Pertanto, la mancanza di salute e la disabilità non sono mai una buona ragione per escludere o, peggio, per eliminare una persona; e la più grave privazione che le persone anziane subiscono non è l’indebolimento dell’organismo e la disabilità che ne può conseguire, ma l’abbandono, l’esclusione, la privazione di amore».
Peraltro quanti pensassero di poter circoscrivere il confine di una prospettiva ideale, magari derivante da quella che, con una certa frequente approssimazione, si sente definire la “cultura cattolica”, assai difficilmente potrebbero conciliare questa affermazione con l’indiscutibile presenza della pietas anche in culture presenti in epoca largamente precristiana, come, ad es., si riscontra, tra le moltissime, nelle opere di Sofocle; di queste ve ne è una, particolarmente interessante da ricordare in questo contesto, il Filottete, composta nel 409 A.C. la quale narra di un uomo, Filottete, appunto, abbandonato dai suoi compagni di viaggio, per la guerra contro Troia, sull’isola di Lemno, a causa di una ferita grave ed infetta: l’abbandono è determinato dall’asserita necessità di evitare che le truppe si deprimano per la sofferenza di quest’uomo, il quale si lamenta per il dolore e la malattia: un oracolo, tuttavia, svela ai Greci che, senza l’arco posseduto da Filottete, Troia non cadrà mai e la guerra non potrà esser vinta. Vengono allora incaricati Odisseo e Neottolemo (figlio di Achille) di andare sull’isola e recuperare ad ogni costo l’arco di Filottete.
Odisseo, che in questa tragedia risulta meschino e crudele, ordisce un piano per sottrarre l’arco a Filottete: Neottolemo avrebbe dovuto fingere di essere in contrasto con i capi greci e, carpita la fiducia di Filottete, farsi consegnare l’arco, che altrimenti sarebbe stato preso con la forza. L’inganno riesce e Filottete consegna l’arco all’amico Neottolemo, il quale, all’ultimo momento, però, pentendosi del suo gesto, mediante il quale ha guadagnato e tradito la fiducia di un uomo malato e sofferente, prova compassione per Filottete e gli riconsegna l’arco.
Questa tragedia mette in scena, è proprio il caso di dire, il tema della compassione, un sentimento, sì, ma anche un’opzione etica, attraverso cui le persone condividono, sia pure da piani diversi, la condizione di una sofferenza della quale ci si sente corresponsabili in quanto tutti membri di una medesima famiglia umana che non consente di rifiutarla senza tradire la propria identità di creatura: è per questo che nel comportamento del protagonista della storia c’è un’immediatezza del sapere, del sentire e dell’agire, dal carattere cristallino che si oppone naturalmente all’opacità delle definizioni e delle teorizzazioni, orientate in funzione, spesso, di precostituite, più o meno consapevoli, personali visioni del mondo. Verrebbe da dire … torniamo al presente!
Ma è forse proprio questo il punto che pone l’evento giuridico citato, oggi avvolto nel silenzio di un processo di normalizzazione che da queste umilissime righe si incoraggia a contrastare, si è prodotto nel cuore di una pur sedicente civilissima Europa: se dalla storia non apprendiamo quanto dovremmo o potremmo, probabilmente questo dipende anche dalla ridotta misura in cui da essa ci si lascia provocare e dall’inadeguatezza delle domande che ad essa poniamo.
La scienza bioetica, o etica della vita, prende forma nella storia, nel quadro di una riflessione interdisciplinare che abbraccia le ragioni, intrinseche alla vita stessa, le quali pongono l’esigenza originaria del suo rispetto e della sua tutela. Attraverso questo percorso la bioetica si esprime mediante gli strumenti della riflessione filosofica, dell’indagine della buona pratica medica, della regolamentazione giuridica, in tutti questi settori orientandosi mediante l’indagine antropologica.
E’ per questo che in bioetica rinveniamo principi, più propriamente che valori, quali, ad es., primum non nocere, neminem laedere, che interpellano, senza distinzione, tutti coloro che interagiscono con la vita di chicchessia. Se questa è l’intrinseca e logica identità della bioetica, risulta fatalmente critico e involuto l’approccio di chi svolga una riflessione particolaristica, magari volendo individuare caso per caso i principi regolatori della tutela della vita umana, una volta rispetto alla fase iniziale di essa, come nel caso dell’aborto o della fecondazione artificiale, un’altra volta in ordine alla fase finale, come avviene rispetto all’eutanasia, o ancora, ad es., rispetto alla cura dell’ambiente nel quale viviamo.
In questa prospettiva risulta assolutamente condivisibile la conclusione di chi ritiene che la bioetica non abbia interamente svolto la propria funzione, che non è quella di propugnare o difendere valori, prodotto delle culture e delle epoche storiche di riferimento, ma quella di identificare ed esplicitare principi ordinatori della vita ossia gli elementi discriminanti della sua struttura antropologica originaria, essendone l’uomo, indiscutibilmente e pacificamente tra tutte le culture, anche nelle diverse epoche storiche, il custode creato e non certamente l’artefice creatore.
La prospettiva dei valori è quella, ad es., stabilita con la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita che, all’art. 1, recita «al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».
La prospettiva nella quale si coglie il principio è quella del “non uccidere”, un principio comune anche a tutti gli altri variegati campi della bioetica e che si sono, solo in parte, prima citati; ma il principio è anche l’uguaglianza, quella che permette di escludere la fecondazione eterologa, quale procedimento governato da alcuni soggetti con la conseguente condizione di orfano di colui per il quale viene predeterminata, prima ancora del suo concepimento, la mancanza di un genitore che non si potrà mai conoscere; e sui principi del non uccidere e dell’uguaglianza deve evidentemente fondarsi il divieto di una decisione che legittimi di porre termine alla vita propria o a quella di altre persone tacciate come indegne di essere vissute.
Si percepisce la conseguente scarsa incisività, sotto il profilo bioetico, di un’indagine ermeneutica tesa a valutare, ad es., limiti ed oggetto della responsabilità genitoria nei confronti del minore di età, o la capacità di discernimento di quest’ultimo, restandosi nell’ambito di ciò che si propone come valore di riferimento per le relazioni tra genitori e figli, le quali, peraltro, sono solo in parte regolabili in base alla legge.
E l’uguaglianza viene compromessa anche da leggi che, neutralizzando la struttura altruistica e gratuita delle relazioni in seno alla famiglia secondo il disegno tracciato dall’art. 29 della Costituzione propongono la c.d. stepchild adoption, ossia l’istituto dell’adozione dei figli del partner esteso a coppie dello stesso sesso, che semplifica riduzionisticamente la complessità personale, antropologica, psicologica ed educativa delle relazioni interpersonali tra genitori e figli, sacrificandola alla finalità individualistica e ad un desiderio che si vuole trasformare in diritto.
L’equivoco descritto priva la riflessione bioetica della possibilità di esercitare la funzione sua propria, determinandosi anzi il suo potenziale uso arbitrario, in funzione dell’esigenza di legittimare condotte altrimenti improponibili per la loro palese etica inammissibilità, come nel caso in cui si propugna come eticamente ammissibile la ricerca scientifica sugli embrioni umani, sulla scorta di un’asserita finalità di cercare la cura per alcune malattie, in tal modo tuttavia dimenticando che l’obiettivo della scienza medica è quello di curare l’uomo, il malato, e non, in modo semplice e materialistico la malattia, la qual cosa è intrinsecamente impossibile quando, per curare un essere umano, si programmano lo sfruttamento e la soppressione di un altro essere umano.
Da tutto ciò si ricava che contrapporre valori e principi sarebbe un’operazione improponibile per chiunque, anche da posizioni contrapposte, auspichi che i primi si sovrappongano ai secondi fino a corrispondervi, ma anche che è necessario ed assai “prudente” riaffermare l’esistenza di ciò che non è determinato storicamente e che non subisce il periodico condizionamento della cultura corrente nelle varie epoche di riferimento.
La bioetica si interroga nella storia, verificando il rapporto di essa con i principi, i quali divengono, così, sempre più ragionevolmente innegoziabili, ogni qual volta risultino messi in discussione. E, in tal senso, le risposte, provenienti dalla storia e dal tempo presente, non vengono dal succedersi di eventi dei quali la collettività sarebbe il precario e fisiologicamente ridondante risultato, ma originano dalla realtà della quale l’uomo è il soggetto che stabilisce una relazione corresponsabile con altri soggetti, dei quali riconosce l’eguale dignità: come potrebbero esserci i diritti umani se ciascuno pensasse di avere diritto a vedersi riconosciuto indiscriminatamente, anche ad evidente danno del prossimo, ogni diritto che rivendica?
La percezione dell’orizzonte nichilista attraverso il quale l’uomo esce dal mondo, è descritta, nella Grande Bellezza” del regista Paolo Sorrentino come un trucco, che il protagonista del film sembra accontentarsi di svelare, peraltro accorgendosi, appena in tempo, che la risposta alla sua esigenza di vivere in pienezza scaturisce dall’entrare in contatto con la bellezza che, nella quotidianità, intreccia gioia e sofferenza, conquista e perdita, aspettativa e delusione, nel quadro di un’identità personale che alcuni personaggi dello stesso film, attraverso molte risposte e senza nessuna domanda, tentano di ignorare, con l’unico effetto di restare prigionieri di un’opaca e malinconica caricatura di se stessi.
Tutto ciò mentre scorre la storia, e non la cronaca, esprimendo la non negoziabilità di taluni principi. E proprio con una domanda chiuderei questo editoriale, gratissimo a chi ha avuto la pazienza di leggerlo: male, davvero, non sarebbe tentare di cogliere i riflessi di una legislazione così recente, meditando sulle tracce che ci lascia la storia, anche attraverso la sue più nobili espressioni, come ad es., quella artistica: quale è il punto in cui si riassume e compendia tutta la drammaticità di un dipinto come “The doctor” di Luke Fildes, un’opera di oltre un secolo addietro?
Senza dubbio il volto del medico, che si sente responsabile per la sofferenza del bambino esanime affidato alle sue cure e che sembra domandarsi “che cosa” di ragionevole ed utile possa ancora tentare di fare per il bambino di fronte a lui. La persona ritratta da Fildes in primo piano è un uomo del mondo che abitiamo e non di quello che potremmo immaginare, è un medico, in carne ed ossa, umile e sensato, la cui attenzione è integralmente assorbita dalle necessità di un bambino gravemente malato che, forse, non riuscirà a guarire, ma al quale potrà continuare ad offrire le sue cure, come si fa con il prossimo, che, secondo quanto suggerisce la stessa etimologia di questa parola, è colui che sta ‘vicino’, in quanto condivide la medesima condizione e l’identica intangibile dignità di chi se ne prende cura.