L’intraprendente 17 maggio 2016
di Carlo Lottieri
In un mio libro di qualche anno fa (Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a WikiLeaks, edito da Rubbettino) c’è un passaggio in cui s’afferma che lo Stato contemporaneo si regge sulla “convinzione che l’azione di sottrazione ai privati delle loro risorse sia non soltanto vitale per gli apparati pubblici, ma sia a tal punto nobile da giustificare ogni intrusione nella privacy, anche in assenza di prove effettive a carico del singolo”.
La recente decisione governativa di lascia mano libera all’Agenzia delle Entrate, autorizzandola a spiare conto e carte di credito con l’anagrafe tributaria, sembra proprio confermare tutto ciò. Non solo il potere statale è sempre esoso, ma è pure sempre meno rispettoso di quella sfera di autonomia che andrebbe invece considerata sacra.
Quanti reagiscono di fronte al fiscalismo il più delle volte sottolineano, a ragione, come non sia accettabile lavorare fino ad agosto per lo Stato e solo negli ultimi quattro mesi per sé e la propria famiglia. La schiavitù ha solo cambiato forma, come già sottolineò Herbert Spencer in un celebre passo ripreso pure da Robert Nozick nel 1974 in Anarchia, Stato e utopia. Questo è il punto cruciale, certamente.
Altri critici della situazione presente, caratterizzata da un prelievo impositivo esageratamente alto, rilevano con più di una ragione come anche di là di ogni considerazione morale non ci sia alcun sistema produttivo che, in queste condizioni, possa reggere. In alcuni suoi celebri interventi, il professor Gianfranco Miglio usò l’immagine di un animale aggredito da piccoli parassiti. Tutto questo fa parte della realtà e della natura: non bisogna sorprendersi. È però vero che se il numero dei parassiti supera una determinata soglia, l’organismo muore e anche per i micro-organismi vissuti a sue spese non c’è più possibilità di avere un futuro. In società, succede la stessa cosa.
Tutto questo è corretto e importante, ma non basta. È anche necessario comprendere che uno Stato sociale e tributario ha bisogno di tenere sotto controllo l’intera comunità, dato che solo in tal modo è in grado di “intercettare” le risorse di cui ha bisogno. Se gli Stati vivessero – come i club – di una modesta quota associativa che ogni cittadino paga nella stessa misura, l’apparato pubblico non avrebbe bisogno di spiare cosa fa ognuno di noi.
Ma nel momento in cui esso moltiplica le imposte, tassa il nostro reddito e per giunta in modo progressivo, colpisce ogni scambio commerciale e via dicendo, è chiaro che esso deve farsi occhiuto e invadente. Lo Stato tributario è una riproduzione del carcere progettato da Jeremy Bentham: è un Panopticon con in cima un’alta torretta che consente, al secondino, di osservare tutto ciò che avviene in ogni cella.
Un apparato orwelliano quale Serpico (il cosiddetto “Servizio per il contribuente”, ossia il megaserver che segue e monitora ogni nostra decisione, registrando i movimenti dei conti bancari) è esattamente questo. L’idrovora statale esige una quantità crescente di risorse e per questo motivo ha la strutturale necessità di osservarci in ogni momento della nostra vita e di mettere in discussione ogni nostra scelta. Se non fosse tanto invadente, non potrebbe incassare la metà del reddito nazionale.
Alla fine lo Stato sociale e tributario non ci sottrae soltanto i nostri soldi (proprietà), né soltanto ci sottomette a sé (libertà). Esso è costretto anche ad aggredire i nostri comportamenti più privati, a spiare i nostri vizi e a mettere in discussione le nostra virtù, soffocando la nostra esistenza (vita).
Per quanti hanno letto John Locke e ne hanno colto la lezione, è chiaro che siamo in una sorta d’inferno sociale. Life, liberty, property: questa era esattamente la triade concettuale su cui il pensatore inglese voleva far poggiare una società autenticamente civile. Per vincere il degrado in cui siamo finiti, è probabilmente proprio da qui che bisognerà ripartire.