di Piero Mainardi
Con la pubblicazione della prima antologia in italiano degli scritti teologici di Joseph Ratzinger riuniti nel titolo Fede, Ragione, Verità e Amore. La teologia in Joseph Ratzinger (pagg. 819, € 29,00) la casa editrice torinese Lindau offre una “piccola” perla a tutti coloro che amano riflettere sui grandi temi dell’esistenza quali la Verità e l’amore, rispetto ai quali fede e ragione costituiscono, o possono costituire, i fondamenti decisivi di un’indagine i cui esiti sono decisivi per l’esistenza umana.
Una prima riflessione che una tale lettura impone è relativa a quanto sia angusto e sostanzialmente erroneo ingabbiare il pensiero del pontefice nelle vetuste categorie politico-culturali del conservatore, del progressista o del “progressista divenuto conservatore”.
In realtà ci troviamo di fronte un uomo il cui spessore culturale e la cui capacità di indagine intellettuale, proprio perché illuminata da una fede profonda e radicata nella tradizione della Chiesa – sempre pronta a dare ragione di sé stessa – riesce a penetrare nel cuore dei problemi e a dare risposte coerenti; capace di analisi mai banali e di smontare luoghi comuni e “verità” di comodo, con risposte che danno ragione della complessità dei problemi senza complicarli.
La lettura del testo permetterà di scoprire – e letteralmente gustare – la ricchezza dei grandi tesori (si vedano le pagine sulla Trinità) che il pensiero cristiano, collegato alla riflessione patristica e alle grandi scuole filosofiche e teologiche medievali, continua ad offrirci in una fecondità che Ratzinger riesce a porgere anche al disilluso uomo post-moderno: se la sua disillusione è figlia dei fallimenti delle grandi “metanarrazioni” (le ideologie) la fede cristiana e la sua razionalità nella riflessioni di Ratzinger, non possono tradire perché saldamente ancorate al reale e quella dimensione dell’essere che costituisce il riflesso di quella Trascendenza, a cui – lo si voglia o no – nessuno può rinunciare.
La lettura di queste pagine può essere anche “terapeutica” per l’uomo contemporaneo, e assolutamente necessaria per coloro che a vario titolo operano in ambito ecclesiale. Non ci soffermeremo sulle pagine del Ratzinger pontefice, più recenti e comunque più conosciute, ma su quelle del Ratzinger teologo le quali sono assolutamente illuminanti e orientanti rispetto ai problemi nodali che il cattolicesimo attraversa e che Ratzinger non ha esitato a definirla crisi.
Crisi da molti evocata ma che mai si è tentato realmente di superare sciogliendone i nodi. Il pensiero di Ratzinger a tale proposito è chiaro e illuminante e qui, tra i tanti argomenti, ne vogliamo sottolineare alcuni, particolarmente importanti. Primo problema: la teologia/ i teologi. In un bassorilievo dell’ambone della cattedrale romanica di Troia, si può notare un leone che con ferocia si getta su un agnello il quale oppone allo spaventoso assalto solo la sua angoscia, mentre un cane bianco si avventa coraggiosamente contro il leone, Ratzinger ne propone una interpretazione suggestiva.
Certamente l’agnello rappresenta la Chiesa e la fede, il leone, il demonio e l’eresia, il cane bianco la fedeltà e il buon pastore. Ma forse c’è qualcosa di più e Ratzinger ne compie una lettura che comunque svela per lui -teologo- quali siano le tentazioni e i pericoli che la teologia e i teologi possono rappresentare per la fede e la Chiesa. Cane e leone potrebbero rappresentare due modi di fare teologia. Mentre il cane rappresenta una teologia fatta in spirito di umiltà e fedeltà alla Chiesa capace anche di rendersi ridicola pur di seguire la sua missione, il leone può rappresentare il tentativo della teologia di appropriarsi e fare violenza sulla fede.
E qui Ratzinger ammonisce:«la libertà dei singoli docenti non è l’unico bene da salvaguardare nè il più alto… Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina al collo e venga gettato nel mare (Mc 9,42)… i piccoli sono i futuri cristiani. Lo scandalo non è una seduzione sessuale, ma l’inciampo che li porta alla perdita della fede, a privarli della salute eterna.
C’è anche un abuso di potere nel mandato di insegnare, abusando di chi ascolta e della fiducia prestate». Si tratta dell’ammonizione non di un clericale bilioso ma di un teologo che conosce come pochi la teologia ed i suoi colleghi. È innegabile che negli ultimi quarant’anni non c’è stata più omogeneità tra magistero e teologi “cattolici” su molteplici questioni rendendo arduo per un semplice cattolico il discernimento.
Nell’antologia molte questioni sono affrontate apertamente. Prendiamo quella dell’esegesi storico-critica. Irrinunciabile – metodologicamente – anche se non esclusiva per Ratzinger, ma come non avvedersi che mettendo diacronicamente in filigrana i risultatati esegetici si contraddicono svelandone i condizionamenti filosofici, dunque storici e ideologici?
Citando Romano Guardini il pontefice, sull’esegesi moderna, afferma: «ha prodotto risultati parziali molto significativi ma ha perso il suo oggetto proprio e che con ciò ha del tutto cessato di essere teologia». Lo sminuzzamento al microscopio della Scrittura, subìto supinamente da certa esegesi protestante, ha finito per spezzare l’unità di senso delle Scritture, ponendo assurde contrapposizioni tra il Gesù della “storia” e quello della “fede” ed una serie di infinite dialettiche (evento/parola, ebraico/ellenizzante, quindi spurio) che evidenziano semplicemente che si è perso il centro (la fede della Chiesa) su cui radicare ed entro cui teologare correttamente. Repressione clericale dell’autorità romana?
Niente affatto, semmai «un problema di servizio della verità». «Alla teologia appartiene il credere e il pensare – scrive Ratzinger – e fare teologia significa un nuovo inizio nel pensare, che non è il prodotto di una nostra riflessione, ma nasce dall’incontro con la Parola, che sempre ci precede». Teologare quindi non può essere un esercizio soggettivistico e razionalistico perché ci si riferisce sempre ad una Realtà data e vivente in un corpo che è quello della Chiesa.
Il teologo non può assolutamente fare a meno del vincolo del circolo ermeneutico agostiniano. Ancora in relazione alla teologia, si è reagito alla concezione giusnaturastica dominante nel pre -concilio che desumeva la morale dalla riflessione filosofica legata al concetto di legge naturale. Mancava, ammette il pontefice, il grande respiro biblico e la centralità cristica, ma larga parte della teologia morale postconciliare, per una strana eterogenesi dei fini, non solo non è riuscita a centrarsi su Cristo e la Scrittura ma ha finito per sposare un concetto di ragione e di natura umana sostanzialmente evoluzionisti che la mettono in balia di concezioni alla fin fine relativistiche nelle quali si finisce per «assolutizzare la coscienza soggettiva emancipata dal riferimento ecclesiale».
Si deve inoltre aggiungere che nel clima “ecumenico” post-conciliare moltissimi teologi hanno finito per dialettizzare, sulle orme di Lutero, il rapporto tra Legge e la Grazia inserendo nella categoria Legge, cioè negativa, tutto ciò che nella Chiesa è struttura e forma. Con conseguenze gravissime, denuncia Ratzinger, emerse con ogni evidenza nella contestazione alla Humanae Vitae, e poi trascinatesi fino ad oggi nella contestazione o critica contro ogni atto del magistero. La modernità. Ratzinger non è certamente antimoderno.
Anche in queste pagine Ratzinger coglie aspetti positivi della modernità, rivendicando la scelta del Concilio soprattutto nella Gaudium et spes, di rilevarli apertamente. Ma l’ambivalenza della modernità non gli sfugge: diritti umani, più libertà, sensibilità sociale maggiore certamente sono aspetti positivi ma radicati su dati emozionali più che razionali e soggettivi e soprattutto privati del fondamento della trascendenza.Anche qui l’esito è il loro ribaltarsi in una minaccia per l’uomo stesso.
Una minaccia non solo spirituale, ma il cui fondamento è certamente metafisico: «In fondo – scrive categoricamente – dietro il radicale desiderio di libertà dell’evo moderno sta ben chiaramente la promessa: diventerete come dèi».
Nella società moderna i vincoli morali hanno perso la loro evidenza e dunque l’opzione fondamentale proposta dal cristianesimo, scrive Ratzinger, cioè «che la volontà di un Altro, la volontà del Creatore ci interpelli, e che nell’accordo della nostra volontà con la sua la nostra natura divenga giusta, è un’idea divenuta estranea alla maggior parte degli uomini».
Per cui prosegue, Ratzinger, – e si spera che tutti i cattolici si rendano conto delle implicazioni culturali che tale affermazione comporta -, è necessario riflettere nuovamente sul punto di partenza del cammino moderno della libertà rispetto a cui si impone «una correzione di rotta, di cui abbiamo manifestamente bisogno, affinché nell’oscuramento delle prospettive siano nuovamente visibili delle vie, tornando ai medesimi punti di partenza e di lì ricominciare».
Si va per cenni perché evidentemente la riflessione del pontefice è assai più ricca e articolata, ed un altro punto che spicca è la questione liturgica. Anche in questo caso Ratzinger prende spunto da un episodio biblico, la costruzione e l’adorazione del vitello d’oro da parte degli ebrei mentre Mosè è sul Sinai. Idolatria? No, spiega Ratzinger, si intende ancora adorare il Dio che li ha condotti fuori dall’Egitto. In realtà la lontananza da Dio induce gli uomini a portare Dio al nostro livello e abbassarlo alle nostre dimensioni e bisogni.
Qui l’atto liturgico si trasforma in un “una festa che la comunità si fa da sé…. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira intorno a se stesso. La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi, in cui in definitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione di un piccolo mondo alternativo” ad uso e consumo dei protagonisti del “gioco”.
Infatti, proseguendo l’analisi, i concetti portanti della nuova visione liturgica si possono riassumere nei termini-chiave di creatività, libertà, festa, comunità. Da una tale visione il rito, il vincolo cerimoniale, l’interiorità, l’intero ordinamento ecclesiastico appaiono concetti negativi che descrivono lo status da superare della “vecchia” liturgia. Non è in questione il fatto che tali elementi entrino legittimamente nella liturgia, ma il pensiero fondamentale sotteso ai portatori di una simile concezione liturgica è centrato sul concetto di celebrazione comunitaria, nella quale la comunità si forma e si sperimenta come comunità.
In tal modo la celebrazione liturgica si trasforma in qualcosa di simile ad un party. E a dimostrazione di ciò il pontefice cita la crescente importanza riservata alle parole di saluto e di commiato e alla ricerca di elementi che abbiano valore di intrattenimento. Oscurando o mettendo in secondo piano il vero motivo per cui “si fa festa”, ovvero il mistero eucaristico, nel quale incontriamo il Cristo che ha pregato nell’orto degli ulivi, sofferto nella Passione, morto sulla Croce e infine Risorto.
Quante volte nella liturgia vediamo la comunità protagonista e Cristo se non assente, marginalizzato? Ma la liturgia, ribadisce Ratzinger, al pari di tutto ciò che è essenziale nel cristianesimo, non è “fatta”, ma “accolta”, rito che nella sua universalità viene “pre-dato” ai fedeli e la cui determinatezza delle parti essenziali garantisce proprio i fedeli stessi rispetto ad invenzioni arbitrarie di singoli e gruppi.
Osserva poi acutamente e amaramente Ratzinger che «la “creatività” delle liturgie fatte per conto proprio si muove in un circolo ristretto che è necessariamente misero in confronto alla ricchezza della liturgia formatasi nei secoli anzi nei millenni; purtroppo i costruttori di liturgia se ne accorgono sempre più tardi dei partecipanti». Del resto, rileva ancora il pontefice, la «tensione liturgica non può consistere nel “cambiamento” ma nel fatto di incontrare ciò che è veramente grande e increato che non ha bisogno di cambio perché è in grado di soddisfare: la verità e l’amore». Che è poi il nostro bisogno e la nostra speranza.
Un’ultima notazione: la consapevolezza semantica. Chi ha letto Il trasbordo ideologico inavvertito di Plinio Corrêa de Oliveira (L’Alfiere, Napoli, 1970) sa con quanta raffinata e pedagogica perfidia i nemici del cattolicesimo hanno usato le famose “parole talismano” (si veda amore, pace, libertà, giustizia ecc.) attirando a sé cattolici ingenui e intellettuali “collaborazionisti” per poi svuotarle del loro originario contenuto cristiano e pervertendole in concetti laicisti, oppure attuando il procedimento inverso (si veda solidarietà e democrazia).
Ebbene Ratzinger ci educa ad un modo di ragionare che ci restituisce la nitidezza del pensare cristiano, che è poi un pensare secondo la pienezza della ragione, con un vocabolario appropriato e capace di dissipare ogni ambiguità, anche lessicale, o quanto meno di rendercene avveduti. Si veda quando ci ricorda che il termine solidarietà nasce proprio in ambito socialista in alternativa e in polemica alla carità cristiana: oggi possiamo usarlo anche noi cristiani solo grazie all’opera di correzione apportata da Giovanni Paolo II; oppure in ambito ecclesiologico quando ci ricorda sia il rischio della banalizzazione sia dell’uso ideologico di concetti tornati un auge dopo il concilio quali “popolo di Dio” o del concetto di “comunione” agitati più per aspirazioni democratizzanti in ambito ecclesiale che per la loro pregnanza teologica.
A cura di Umberto Casale Fede, ragione, verità e amore. La teologia di Joseph Ratzinger Ed Lindau