In Iota unum, Romano Amerio porta alla luce le responsabilità delle stesse gerarchie ecclesiastiche per la grave crisi che oggi soffre la Chiesa. La causa di questa crisi risale, a suo avviso, alla perdita di un principio ultimo e trascendente, che unifica e ordina tutti i valori secondari del mondo, sostituito da «uno pseudoprincipio immanente che rifiuta di trovare fuori del mondo le ragioni del mondo e fuori della vita nel tempo il destino dell’uomo».
di Roberto de Mattei
Gli esperti di diritto di autore saranno certamente in grado di spiegare questo singolare caso di concorrenza, che il rapporto qualità-prezzo fa pendere decisamente a favore del testo di Lindau. Noi non possiamo che rallegrarci del duplice evento, che rimuove la coltre di silenzio addensata su uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento, da quando, nel 1985, Ricciardi pubblicò la prima edizione di Iota Unum, con il sottotitolo Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX.
L’opera fu seguita da tre ristampe e tradotta in sei lingue, raggiungendo decine di migliaia di lettori in tutto il mondo, ma venne ignorata dal mondo cattolico ufficiale e dagli stessi avversari chiamati a confronto. La mole e la ricercatezza stilistica resero più difficile la diffusione del testo, il cui valore non sfuggì però ai più attenti interpreti del nostro tempo, quali Augusto Del Noce.
Romano Amerio, nato da padre astigiano a Lugano nel 1905 e morto in questa stessa città, il 16 gennaio 1997, prima di divenire rigoroso analista della crisi postconciliare, fu studioso raffinato di Campanella e di Manzoni. Iota unum apparve nello stesso anno del Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger, che, nella sua celebre intervista a Vittorio Messori, avviava una riflessione sul Concilio Vaticano II, poi culminata nell’altrettanto noto discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, sull'”ermeneutica delle continuità”.
Amerio da parte sua aveva partecipato ai lavori conciliari come “esperto” del vescovo di Lugano, e poi, per un ventennio, aveva seguito accuratamente le vicende ecclesiali, prima di consegnarne a queste pagine la spietata ma oggettiva diagnosi. In Iota unum, egli porta alla luce, con deferente franchezza, le responsabilità delle stesse gerarchie ecclesiastiche per la grave crisi che oggi soffre la Chiesa.
La causa di questa crisi risale, a suo avviso, alla perdita di un principio ultimo e trascendente, che unifica e ordina tutti i valori secondari del mondo, sostituito da «uno pseudoprincipio immanente che rifiuta di trovare fuori del mondo le ragioni del mondo e fuori della vita nel tempo il destino dell’uomo» (§332). La religione dell’immanenza si dissolve nel mondo, incorporandone quella pluralità di valori disconnessi e indipendenti tra loro, che la minano e distruggono dall’interno.
Al cuore del problema sta il rapporto tra Caritas e Veritas, ovvero la necessità di non separare, come è accaduto dopo il Concilio, la carità dalla verità. In questo Amerio anticipa sorprendentemente Benedetto XVI che, nella sua ultima enciclica Caritas in Veritate, ha ribadito che la carità si radica nella verità, perché «solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta» (n. 3).
Amerio difende i “praembula razionali” della fede contro il fideismo di coloro che vogliono privarla della sua dimensione veritativa. Sul piano logico e gnoseologico, la principale minaccia viene dal “pirronismo”, l’indirizzo scettico degli antichi sofisti oggi riproposto dai “neoterici”, i relativisti che inseguono le “novità” ad ogni costo. «Il fondo dell’attuale smarrimento, mondiale ed ecclesiale – afferma il filosofo di Lugano – è il pirronismo, cioè la negazione della ragione» (§148). Negazione della ragione significa dissolvimento di ogni certezza, e perdita della verità.
La “filosofia del dialogo” affermatasi nel postconcilio esprime il passaggio dalla verità alla “ricerca della verità”, un tema di fondo a cui Amerio dedica alcune tra le pagine più felici del suo libro. Per la teologia neoterica, osserva, la nota della fede, anziché la stabilità dell’assenso, è la mobilità della perpetua ricerca. Tale concezione dinamica della fede deriva dal modernismo, per il quale la fede è funzione del sentimento del divino e le verità concettuali sono mutevoli espressioni di quel sentimento.
«La parte erronea di questa concezione sta nel prendere per umiltà una disposizione d’animo che è invece di squisita superbia. Chi infatti alla verità preferisce la ricerca della verità che cosa preferisce? Preferisce il proprio moto soggettivo e l’agitazione vitale dell’io a quel valore per fermarsi nel quale il moto soggettivo gli è dato» (§165). L’errore per cui si stima più la ricerca che il possesso della verità è una forma dell’indifferentismo e del relativismo contemporaneo.
Quello che nell’ordine logico è il pirronismo, nell’ordine metafisico è il “mobilismo”, un carattere della Chiesa conciliare secondo cui tutto è movimento e non c’è nessuna parte del sistema cattolico che non sia in fase di mutazione. Il mobilismo è la mentalità che stima il divenire sopra l’essere, il moto sopra la quiete, l’azione sopra il fine (§157-158). La sistemazione teoretica più compiuta del mobilismo è la filosofia del divenire di Hegel, abbondantemente penetrata nella cultura cattolica e negli atteggiamenti pratici del clero e dei laici.
Al mobilismo Amerio contrappone la filosofia tomistica e platonico-aristotelica delle “essenze”. Nella lettera con cui il 31 agosto 1985 presenta a Del Noce Iota Unum, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto: «difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del secolo». Del Noce gli risponde di ritenere che «quella “restaurazione cattolica” di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico ultimo quello dell’ordine delle essenze».
L’essenza, in filosofia, è la specifica identità di ogni cosa. Esiste, anche per la religione cattolica, una essenza propria, che è ciò che la rende immutabile e uguale a sé stessa nel tempo. È impossibile per il cattolicesimo variare nella sua essenza, ma è proprio a questa variazione sostanziale che tendono i “neoterici” del XX secolo. «Tutta la questione circa il presente stato della Chiesa è chiusa in questi termini: è preservata l’essenza del cattolicesimo?» (§318).
Solo nella fedeltà a questa immutabile essenza sta la soluzione della crisi epocale che stiamo attraversando. Non si tratta di «leggere i segni dei tempi», bensì di «leggere i segni dell’eterna volontà, che sono presenti a ogni tempo e stanno in faccia a tutte le generazioni fluenti nei secoli» (§333). Iota Unum si conclude con le parole della Scrittura: «Custos quid de nocte?» («Sentinella, che notizie porti della notte?») (Isaia 21, 11).
Questo è in fondo il ruolo svolto da Amerio. Egli ci appare come una sentinella solitaria sullo sfondo di quella battaglia notturna sul mare in tempesta che lo stesso Benedetto XVI ha evocato, descrivendo il clima postconciliare. Chi desidera conoscere meglio la figura e le tesi di Amerio, oltre a non privarsi dell’altro volume pubblicato da Lindau, “Stat veritas. Seguito a Iota unum” (Torino 2009), può ricorrere al volume di Enrico Maria Radaelli “Romano Amerio.
Della verità e dell’amore” (Marco, Cosenza 2005) e agli atti del Convegno di studi svoltosi ad Ancona nel 2007, raccolti con il titolo “Il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo” (Fede e Cultura, Verona 2008).
Chi voglia invece approfondire il tema di Iota Unum, deve integrarne la lettura con l’opera capitale, appena pubblicata, di mons. Brunero Gherardini, “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare” (Casa Mariana editrice, Frigento 2009).