Card. Carlo Caffarra
(Arcivescovo di Bologna)
La condizione dell’etica in Occidente è qui fotografata correttamente. Possiamo rassegnarci a questa situazione? Possiamo fare senza etica? Non possiamo rispondere a queste domande se prima non abbiamo risposto alle seguenti domande: di che cosa parliamo, quando parliamo di etica? La mia riflessione inizia dalla risposta a questa domanda.
1. Certamente parliamo dell’agire umano, di ciò che dipende dall’esercizio della propria libertà: le nostre scelte. È di questo che noi parliamo quando parliamo di etica. Poiché la scelta per sua stessa natura presuppone ed implica un giudizio in base al quale la scelta è di A piuttosto che di B, non possiamo non porci la domanda in base a quali criteri il giustizio di scelta è compiuto.
Queste elementari osservazioni bastano alla formulazione di una domanda di fondo circa la libertà e la sua capacità di scelta: esistono criteri di giudizio, e quindi ragioni per compiere la scelta di A e non di B, validi non solo per chi sta scegliendo ma per ogni persona ragionevole? Non sarà inutile prima di dare risposta a questa domanda, dire quali proprietà dovrebbero avere queste “ragioni per agire”, se esistono.
Mi sembra che siano almeno cinque. (1) Sono ragioni che valgono prima di ogni interesse, desiderio, preferenza: valgono per se stesse. (2) Sono ragioni che valgono non perché e non in quanto progettano corsi di azione ritenute capaci di soddisfare i propri desideri. (3) Sono ragioni che devono essere condivise da ogni persona ragionevole: proprie di ciascuno e di tutti. (4) Sono ragioni che possono chiedere di regolare i propri interessi, desideri, preferenze anche rinunciandovi. (5) Sono ragioni che esigono un rispetto incondizionato da parte della libertà, non ammettendo di essere mai violate adducendo come motivo della violazione il proprio interesse, il proprio desiderio, le proprie preferenze o quelle del gruppo sociale cui si appartiene.
L’ipotesi dell’esistenza di tali ragioni ci aiuta comunque ad avere un’intelligenza più profonda dell’homo agens, della persona che agisce. È un fatto immediato dell’esperienza che ciascuno ha di se stesso quando agisce, l’essere inclinato verso uno scopo da raggiungere colla sua scelta. Chi agisce cioè, agisce sempre per un fine. La forza motiva di ciò che spinge ad agire è che esso, il fine, è ritenuto capace di soddisfare i nostri “desideri”.
Ogni fine propostoci ha sempre carattere di bene: è capace di [è ritenuto capace di] rispondere al nostro desiderio e di acquietare il nostro movimento od inclinazione. Tenendo conto di questi dati elementari, dobbiamo chiederci: la logica, il logos intimo delle inclinazioni dell’uomo [e.g. l’inclinazione sessuale; l’inclinazione a vivere in società], è un egoismo radicale?
Le inclinazioni sono orientate esclusivamente alla soddisfazione del proprio bene individuale? Hanno in sé solo una logica utilitaristica? Oppure abita dentro alle naturali inclinazioni umane una vocazione ad essere regolate da una ragionevolezza che vi introduca una forma di bontà che non coincide coll’utilità propria?
In breve: esistono solo “beni per me” oppure esistono “beni in sé e per sé”? La nostra riflessione, pur partendo da dati elementari, è arrivata ormai al nodo delle questioni. Esso può essere mostrato in due modi fondamentali.
Primo modo: la ragione è solo strumentale, è semplicemente la facoltà che ci è data per progettare e realizzare risposte soddisfacenti ai bisogni dell’individuo oppure è anche la facoltà che è capace di scoprire e proporre corsi di azione che realizzano l’uomo in quanto uomo, corsi di azioni che liberano l’uomo dal proprio “particulare” e lo elevano ad un ordine eterno e dotato di una sua propria bellezza? Secondo modo: esistono solo beni [oggi si preferisce dire: valori] dei singoli individui o esistono anche beni che sono comuni, propri cioè di ogni persona e di tutte le persone?
Le due formulazioni sono in fondo il concavo ed il convesso della stessa figura. È di questo che noi parliamo quando oggi parliamo di etica. Parliamo cioè di che cosa è il bene dell’uomo. Più precisamente parliamo della misura della nostra ragione; di che cosa in realtà significa vivere ragionevolmente. In una parola parliamo dell’uomo alla ricerca di se stesso, e del suo vero bene.
2. A me è stato chiesto tuttavia di riflettere sulla crisi dell’etica. Si intende della riflessione etica. Devo dire prima cosa intendo per “crisi”. La riflessione etica può trovarsi di fronte a domande difficili ed inedite, e in gravi difficoltà nel trovare una risposta. E può trovarsi in condizioni di conflitto di risposte alle stesse domande. Questa situazione però può darsi in due contesti radicalmente diversi.
Il conflitto delle risposte si dà all’interno dell’accettazione degli stessi presupposti meta-etici, e si configura come discordia argomentativa. Oppure il conflitto si dà all’interno di contrari presupposti meta-etici, e si configura come conflitto fra le premesse dell’argomentazione come tale. Se si passa dalla prima situazione alla seconda, ci si trova in quella che io chiamo la crisi della riflessione etica. La mia tesi è che questa è la condizione in cui versa oggi la riflessione etica in Occidente.
Il sintomo più grave è la fatica, oserei dire l’incapacità dell’Occidente di elaborare un’etica pubblica. Ma procediamo con ordine. Siamo in un conflitto di presupposti, o il che coincide . il conflitto è a livello di fondamenti. In che senso? La riflessione svolta nel primo punto ci ha dato tutti gli strumenti per costruire la risposta a questa domanda.
La crisi, nel senso suddetto, riguarda il concetto di ragione, di libertà, e quindi del rapporto fra verità e libertà. Alla fine, riguarda la visione dell’uomo: è un conflitto di antropologie. Riguarda la ragione. Più precisamente la ragione pratica. Essa si è autolimitata ad esercitarsi solo come “serva degli interessi dell’individuo”, dei desideri dell’individuo. Questo è quanto afferma uno dei padri della modernità: «Noi non andiamo mai di un passo oltre se stessi» [D. Hume, Opere filosofiche I, Trattato della natura umana, Laterza, Bari – Roma 2002, pag. 80].
La riduzione della ragione pratica a ragione utilitaria ha cambiato tutto. Tutto il discorso etico, pur continuando a svolgersi ed articolandosi usando lo stesso vocabolario [libertà, bene, male, coscienza,legge morale], ha cambiato totalmente senso. Sono gli stessi segni sul rigo musicale, ma è cambiata la chiave di lettura: la musica è un’altra. È l’etica dell’autonomia radicale, intesa come mera affermazione del proprio desiderio, dal quale è assente qualsiasi ragionevolezza che rimandi ad un “passo oltre se stesso”. Riguarda la libertà. Viene affermato il primato assoluto della libertà; la libertà è un primum che trova in se stessa e per se stessa il suo senso.
Che possa esistere un bene in sé e per sé a cui la persona è naturalmente inclinata ed orientata, che la scelta libera può accogliere o rifiutare, è negato. La libertà nel suo fondo è pura indifferenza, è pura neutralità. La conseguenza è che il bene non può assumere il volto che del legale: bonum quia jussum; il male non può presentarsi che col volto del proibito: malum quia prohibitum. E non c’è motivo intrinseco alla libertà di fare il primo ed evitare il secondo. Non esiste un problema di verità/falsità circa la progettazione che la persona fa di se stessa colla propria libertà.
Un discorso di etica quindi che voglia esibirsi come discorso universalmente valido, è impossibile; e opposto all’affermazione della libertà. Sono possibili solo tante autobiografie etiche quante sono le persone, stranieri morali le une alle altre. Vedremo come questo discorso vada ripreso in termini sociali, in termini di etica pubblica. E siamo alla questione decisiva per cogliere la crisi dell’etica: il rapporto verità-libertà.
Partiamo ancora dalla constatazione di ciò che accade in noi quando compiamo una scelta, quando prendiamo una decisione. La scelta e la decisione non è determinata dall’oggetto scelto, dalla figura dell’azione che ho progettato di fare. La libertà è dipendenza da sé; la libertà è essere determinati da sé: è auto-determinazione. Ma perché questo sia possibile, perché sia semplicemente possibile scegliere e decidere liberamente è necessario che la persona dia un giudizio circa l’oggetto da scegliere, la decisione da prendere.
È in forza di questo giudizio sul valore o bontà dell’oggetto, che la volontà non è mossa dall’oggetto stesso, e che la persona muove se stessa. Il riferimento al vero, conosciuto mediante il giudizio, appartiene all’essenza stessa del volere libero. È in questa luce che si rivela la vera natura del male morale. Esso è il male proprio della libertà, così come l’errore è il male proprio della ragione. E consiste precisamente nel fatto che la libertà nega colla sua scelta ciò che la ragione ha affermato col suo giudizio.
Ma se neghiamo che esista una verità circa il bene [le ragioni di cui parlavo dalle cinque caratteristiche] ed affermiamo che il bene/male è costituito in intima analisi dalla decisione della libertà [qui è secondario, se del singolo o del consenso sociale]; se la scelta e la decisione non contenessero in se stesse il “momento della verità”, e non si realizzasse radicandosi nel riferimento alla verità cioè ad un ordine oggettivo dell’essere, la morale nel comune sentire del temine sarebbe semplicemente impensabile. Si continua magari ancora a parlare di morale, ma si parla in realtà di altro totalmente.
È la condizione attuale. «In poche parole: la contrapposizione tra il bene ed il male, così essenziale alla morale, presuppone il fatto che il volere qualunque oggetto nell’azione umana si realizza in base alla verità sul bene che questi oggetti costituiscono» [K. Wojtyla, Persona e atto, Rusconi Libri, Milano 1999, pag. 339]. Se così non fosse l’uomo sarebbe semplicemente un inutile esperimento, e la sua vita, come dice il poeta, una favola senza senso narrata da un idiota.
3. Vorrei ora riflettere un poco su quello che ritengo essere il sintomo più grave, più drammatico della crisi della morale in Occidente: la crescente difficoltà che le società occidentali provano nell’elaborare un’etica pubblica. Intendo per etica pubblica l’insieme delle regole tolte le quali la vita associata non è più possibile.
L’etica pubblica non coincide semplicemente con l’etica tout court: il reato è distinto dal peccato. Passiamo alla domanda fondamentale se il consenso ottenuto mediante l’uso pubblico della ragione pratica, mediante cioè il confronto libero ed aperto a tutti a pari condizioni, sia la fons essendi sufficiente dell’etica pubblica. Se è possibile proporre un’etica pubblica basata esclusivamente sul consenso.
Parto da un testo di Leopardi. «Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per sé, nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’omissione sia giusta né ingiusta, buona né cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto né ingiusto, buono né cattivo, l’ubbedire a qualsivoglia legge, e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia» [Zibaldone 3349-3350].
Il testo leopardiano pone la domanda di fondo: esiste qualcosa di ingiusto in sé e per sé e che non potrà mai essere giustificato da nessuna procedura pubblica legittima? In altre parole: esiste una verità circa il bene dell’uomo indipendentemente dai risultati dell’argomentazione, discussione e deliberazione pubblica? Nel momento in cui affermo che la procedura democratica è l’unica fons essendi della legittimità della norma, delle due l’una. O penso questa procedura come scontro di interessi opposti la cui unica soluzione è l’imposizione del più forte o penso questa procedura come il modo degno dell’uomo per trovare quella soluzione in cui possa riconoscersi la ragionevolezza di ognuno.
Nel primo caso nego semplicemente che esista un’uguaglianza di dignità fra gli uomini e la norma è sempre e solo il dominio di uno sull’altro. Nel secondo caso è presupposta ed affermata e la uguale dignità di ogni persona e il possesso da parte di ciascuno della stessa ragionevolezza o natura ragionevole. Questa è l’idea tommasiana di legge e diritto naturale. Soltanto la costruzione di un consenso che sia orientato alla ricerca della verità circa il bene, costituisce una autorità che non è dominio dell’uomo sull’uomo.
Anche J. Habermas è stato costretto a giungere a queste conclusioni, affermando che la legittimazione di una carta costituzionale da parte del popolo non può limitarsi al computo aritmetico di maggioranze-minoranze. Essa deve fondarsi su una argomentazione ragionevole “dotata di sensibilità alla verità”.
Sempre Habermas nella sua opera Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale [Einaudi (originale 2001), Torino 2002] esclude che questioni di genetica umana possono essere risolte con procedure democratiche. La radice della disgregazione sociale cui assistiamo è una sorta di censura nei confronti di ogni istanza che tenga viva la “sensibilità alla verità”. Si pensi al trattamento che riceve il Magistero morale della Chiesa.
L’educazione ad un uso completo della ragione è una delle sfide più urgenti per il futuro. Il progetto di costruire un ordinamento giuridico, e quindi un ethos pubblico, senza verità, mette sulle spalle della legge un peso che non è capace di portare. È il peso di creare una comunità umana, di produrre un’identità.
I romani non dicevano ubi jus ibi societas, ma ubi societas ibi jus. Poiché questa è una progettazione impossibile, essa apre il fianco a due rischi gravissimi. O rendere la legge stessa veicolo di valori imposti: è il rischio del fondamentalismo clericale. O “privatizzare” giuridicamente ogni contenuto del vissuto umano: è il rischio del laicismo escludente.
Si pensa che la categoria dei diritti fondamentali dell’uomo possa fungere da tessuto connettivo del sociale umano. Tuttavia, negata che esista una verità circa il bene dell’uomo o – il che coincide – che esista una natura umana ragionevole, i diritti fondamentali dell’uomo rischiano di essere pensati e praticati come ciò che il singolo individuo preferisce per sé, et de gustibus non est disputandum. Ciò ha una conseguenza devastante sull’idea di legge civile e sul compito del legislatore.
La nuova idea è che lo Stato e la legge non devono vietare ciò che l’individuo preferisce. E con ciò la coesione sociale è insidiata alla sua origine stessa. La soluzione del problema non è il ricorso al principio «se tu non vuoi, perché io non posso?», col varo cioè di leggi, né impositive né coercitive, ma permissive. Il non volere colmare la lacuna etica, censurare la questione della verità in nome di una supposta tolleranza, sta portando alla disgregazione le nostre società occidentali.
L’aver sostituito la ragione pratica colla ragione comunicativa ha incamminato tutto il discorso etico pubblico su una via che non ha uscita. In conclusione. Non si può seriamente costruire una etica pubblica se si nega che esista una verità circa il bene universalmente valida. Ma è questa negazione oggi ad essere sostenuta, portando il sociale umano ad una lacerazione non sostenibile.
4. Voglio concludere con un pensiero di Eraclito il quale afferma «che per coloro che sono svegli esiste un mondo unico e comune, e che invece ciascuno di coloro che dormono torna nel proprio mondo» [I presocratici, Bompiani, Milano 2006, pag. 326, 89].
È proprio questo che D. Hume ha negato: che l’uomo possa uscire dal proprio mondo, fare uno step beyond ourselves. Chi si è svegliato dal sonno della ragione, gode di una luce che è la stessa per ogni uomo, e che fa vedere il bene come ciò che è comune a tutti. È questa luce che pone il fondamento della comunità umana.