di Angela Pellicciari
Un lungo dibattito estivo è stato suscitato dagli interventi di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere a proposito dell’inadeguata celebrazione del centocinquantenario dell’unità d’Italia.
Galli della Loggia accusa la classe politica, di destra come di sinistra, di ignorare l’importanza culturale, civile, morale, dell’unificazione italiana, e, pertanto, di limitarsi ad interventi celebrativi in molti casi ridicoli.
Galli della Loggia è persona che leggo con attenzione e che stimo e conosco da molti anni. Nella risposta che ha dato ad uno studente leghista sul Corriere di ieri, ci sono però affermazioni che faccio fatica a ricondurre all’autore di un testo come La morte della patria e alle garbatissime osservazioni rivolte all’allora presidente della Repubblica Ciampi che quell’analisi combatteva.
“Il Risorgimento -scrive il professore- volle anche dire la possibilità di parlare e di scrivere liberamente”. A mio modo di vedere la tesi andrebbe corretta così: il Risorgimento è stato l’epoca in cui tutti i liberali ed i massoni (esiguissima minoranza della popolazione) potevano dire tutto quello che volevano mentre la stragrande maggioranza delle popolazione, cattolica, no. Basti dire che il liberale Cavour impediva la diffusione nel Regno di Sardegna delle encicliche del Papa, nonostante l’articolo primo dello Statuto definisse la chiesa cattolica unica religione di stato e nonostante l’articolo 28 difendesse la libertà di stampa!
Per restare all’oggi, non ho ancora trovato un editore disposto a ristampare un testo fondamentale dell’Ottocento italiano come le Memorie per la storia dei nostri tempi di don Giacomo Margotti, testo che, caso veramente curioso, è scomparso da tutte le biblioteche nazionali…
Galli della Loggia celebra la scomparsa del processo “settario” nel tanto magnificato Lombardo-Veneto. Il Risorgimento avrebbe messo fine ad un processo in base al quale “si era mandati a morte nel giro di 48 ore da una corte marziale senza neppure uno straccio di avvocato”. Beh, qui la cosa diventa quasi imbarazzante. Sì, perché dall’unità d’Italia in poi la legge marziale è stata ripetutamente introdotta in tutto il Meridione, con conseguenze drammatiche per tutta la popolazione.
Un piccolo, insignificante, esempio della violenza bruta (altro che avvocato difensore) che accompagna la conquista sabauda. Il Regno d’Italia introduce la leva obbligatoria sconosciuta alle popolazioni italiane e la nuova abitudine va imposta per le spicce. Ecco cosa scrive il quotidiano torinese L’Armonia il 5 luglio 1861: “A Baranello un Francesco Pantano, capitolato di Gaeta, per sottrarsi al servizio militare, cui era richiamato, riparò in un suo podere, ed ivi sorpreso mentre dormiva, invece di essere arrestato, fu ucciso a colpi di baionette”.
Ancora: nei 150 anni di storia italiana abbiamo visto “un intero popolo smettere di morire di fame, non abitare più in tuguri, non morire più come mosche”. La rivoluzione industriale che in Inghilterra (come Marx descrive in modo inappuntabile nella IV sezione del primo libro del Capitale) riduce la popolazione alla fame, in Italia, grazie alla capillare presenza cattolica, non aveva provocato gli stessi guasti. Tanto che da noi, a detta delle tante testimonianze lette, nessuno moriva di fame, mentre all’estero sì. A provocare la miseria generalizzata della popolazione viceversa è stato proprio il Risorgimento grazie al quale gli italiani, ridotti sul lastrico, sono stati forzati ad un’emigrazione di massa, sconosciuta nei millenni precedenti.
“A morire come mosche” poi gli italiani sono stati costretti da quella guerra immorale, infame, spaventosa, che è stata la prima guerra mondiale. Guerra voluta dall’élite risorgimentale e massonica per liberare gli italiani dal pacifismo cattolico e forgiare un nuovo popolo di eroi guerrieri. Si sa come è andata a finire.
Gli italiani sono stati liberati sì dalla miseria, ma solo grazie al “miracolo economico” creato dalla classe dirigente al potere dopo la seconda guerra mondiale, di estrazione cattolica. La Democrazia Cristiana però, ha avuto a mio parere un enorme difetto culturale: non ha contrastato la vulgata filorisorgimentale e, quindi, antitaliana.
Il vero “disastro educativo” della scuola italiana è sì, a mio parere, l’aver adottato in massa, a livello di insegnati come di libri di testo, “una storia del nostro Paese inverosimile e grottesca”, ma non nel senso indicato da Galli della Loggia. Il disastro va piuttosto individuato nell’approccio ai 1.500 anni di tradizione cattolica. Questi vengono vituperati in ogni modo perché vituperato, sconosciuto ed irriso è il pensiero cattolico. Producendo così l’assurdità che la nazione che ha prodotto e possiede, da sola, più del cinquanta per cento dei beni artistici e culturali del pianeta, disprezza sé stessa e non capisce più l’origine di quel surplus di bellezza che la caratterizza.
Celebriamo l’Italia, ma assumiamo tutta la sua grande storia, non solo i miseri cento anni dopo la sua unità politica.