EDITORIALE
di padre Serafino M. Lanzetta
Ritornare a parlare del Concilio? Sì, perché si tratta di un tema spinoso e sempre carico di sorprese. Nella Chiesa di oggi si può leggere sul viso dei cattolici un duplice stato d’animo: baldanza e amarezza. Esiste tra il Popolo di Dio una frattura. Da un lato regna l’entusiasmo per il un nuovo essere della Chiesa nel mondo, dall’altro, si fa fatica ad effettuare un giusto discernimento su come la Chiesa deve essere in se stessa. Su com’era e su come sarà.
Ritorniamo al Concilio perché è un argomento che non si è chiuso felicemente, né è stato placidamente ricevuto. C’è bisogno di mettere i puntini su diverse “i”. Dopo oltre quarant’anni dalla sua chiusura, s’impone all’osservatore, anche il più improvvido, un fatto innegabile: si aggira tra i cristiani una sorta di paura e di reticenza nei confronti della Chiesa. Abituati a pensare e a parlare del Concilio tanti dimostrano addirittura un senso d’imbarazzo quando sono sollecitati a pronunciarsi sulla Chiesa che fu qualche anno prima dell’inizio della grande svolta conciliare.
La Chiesa “di prima” normalmente è bollata con tanto di anatemi, soprattutto per la sua ritrosia verso il mondo, mentre la Chiesa “di oggi” è semplicemente sullodata per il suo grande spirito di apertura al mondo, alla storia, al tempo. Lo spartiacque tra questo “prima” e “dopo” è rappresentato dal Concilio, nome ormai che si è imposto per designare il Vaticano II, il Concilio della Chiesa, il superdogma della fede.
Purtroppo, questo senso di imbarazzo, quando non di vergogna per la Chiesa che fu, esprime qualcosa di più profondo del semplice novello afflato intramondano. Stiamo vivendo una spersonalizzazione della fede. Con questo intendiamo uno smarrimento di senso dell’essere cristiani. La forte concentrazione sul mondo e sulla comunicazione con esso ha causato una perdita di significato della propria identità cattolica. Non sappiamo più chi siamo. Siamo “adulti” perché non abbiamo più paura di nessun errore, ci confrontiamo con tutti e con tutto, ma non sappiamo più cos’è essere cristiani.
Per tanti il Concilio è proprio questo “spirito nuovo”, e son gli stessi che al sol sentire la parola “Pio V” si ricollegano subito alla Messa tridentina o “Pio X” e pensano agli eversivi lefevbriani. Si ha vergogna di quello che questi due santi pontefici sono stati per la Chiesa. Si è smarrito profondamente il sensus fidei della Tradizione della fede e “fede” rappresenta ormai un nuovo cominciamento. Si sguazza nelle novità, e si dice che è vero solo ciò che è nuovo ed è nuovo ciò che ormai riesce a liberarsi del peso insopportabile di quegli anni bui della Chiesa di prima.
C’è una rincorsa alla novità. Si favorisce chi dice le novità. E i novatori scialacquano festanti al pubblico in massa le novità. Il pubblico plaude. Il mondo li segue. Ma non sappiamo più chi siamo. Per la stragrande maggioranza dei nostri fedeli una religione vale l’altra, una Chiesa vale l’altra. Cristo diventa l’unico che ha predicato la pace per mettere tutti d’accordo. Siamo tutti d’accordo: dunque siamo nel solco dei tempi nuovi che la stagione conciliare avrebbe inaugurato. E così la fede langue, l’identità del cristiano è sepolta nei secoli che furono. Ecco i motivi per reinteressarsi del Vaticano II e cercare di cogliere gli elementi nodali sui quali si innervano le ragioni di questa crisi, di questa spersonalizzazione della fede. Così si desidera auspicare un ritorno a Cristo e alla Chiesa.
Dopo quello storico discorso di Benedetto XVI alla Curia romana del dicembre 2005 che chiaramente evidenziava il rischio di contrapporre alla giusta ermeneutica del Concilio, quella «della riforma nella continuità» una della «discontinuità e della rottura», lumeggiando il fatto che la Chiesa è sempre l’unico Soggetto che vive nel tempo e che pertanto la rottura con la Tradizione e un nuovo inizio sarebbe fatale per la vita stessa della Chiesa, il Papa è ritornato sulla necessità di interpretare correttamente il Concilio.
Nell’accorata Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, del 10 marzo 2009, riguardante la remissione della scomunica dei vescovi consacrati da Lefebvre il Pontefice dice: «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive» (1).
Dopo poco tempo il Papa riaffronta l’argomento del Concilio. L’occasione è data dal discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero, il 16 marzo 2009. Sottolineando l’importanza che la missione del presbitero sia oggi sostenuta da una formazione permanente soprattutto in ambito dottrinale, il Pontefice richiama alla necessità di rifarsi «all’ininterrotta Tradizione ecclesiale» e di «favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa»(2).
Si vede che è un argomento che sta particolarmente a cuore al Papa; la sua reiterazione magisteriale evidenzia una problematica e una crisi che ha proprio lì una delle radici principali. Le due ermeneutiche riflettono in definitiva due visioni di fondo in contrapposizione tra loro: la Chiesa come mistero “dato” da accogliere e la Chiesa come mistero “trovato” nel tempo e nella storia per trasmetterlo agli uomini.
La problematicità interpretativa del Concilio si evidenzia sin dall’inizio. Già nel IV periodo conciliare nella fase del 1964-65 si avvertivano i primi disagi tra ciò che era scritto nei documenti e quanto invece poteva essere compreso privilegiandone lo spirito. Un esempio emblematico è quanto scrive il Card. Siri in una lettera inviata alla sua diocesi genovese all’indomani del terzo periodo.
Siri ricordava che «il concilio è negli Atti scritti e confermati, non nel rimanente…Qualunque altra impressione è soggettiva, può essere interessata, facilmente diviene ingannevole. Nessuno si comporti come se fosse iniziata un’allegra fiera ai danni della verità e della disciplina ecclesiastica» (3).
Un breve status quaestionis
L’attuale ricerca teologica si confronta in modo sempre più preponderante sulle dinamiche del Concilio e sulla sua interpretazìone e trasmissione. Come sono due le ermeneutiche interpretative, così sono divisibili anche in due gli approcci teologici al Vaticano II: quello della “continuità evolutiva” in linea con la Tradizione e quello della “discontinuità pastorale” (di questa formula renderemo ragione nel corso dell’esposizione) che privilegia il connotato storico degli asserti di fede e richiede una storicizzazione del Concilio.
Recentemente B. Gherardini ha pubblicato un libro, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (4) in cui evidenzia che un’errata ermeneutica della rottura applicata al Vaticano II ha portato la Chiesa di oggi a considerarsi ormai come la vera Chiesa e l’unica Chiesa degna di sopravvivere. È «vero ed incontestabile – scrive – che Magistero teologia ed operatori pastorali han fatto del Vaticano II un assoluto. Un errore di fondo, sul quale si è costruito l’edificio postconciliare e contro il quale occorre finalmente reagire» (5).
Accanto ad un reiterato appello ad organizzare gruppi di studi specializzati che studino in modo critico e scientifico i documenti del Concilio mostrandone la loro vera indole e il loro legame dogmatico con la Tradizione, espungendone quello spirito soggettivo che anima l’analisi, Gherardini propone fondamentalmente due cose per ricucire lo strappo che si è verifìcato tra la Chiesa pre-conciliare e quella post-conciliare (una distinzione già sintomatica di un notevole disagio dogmatico): definire in modo teologico ed inequivocabile la natura pastorale del Vaticano II e rispiegare precisamente il lemma “Tradizione”, leggendolo nel solco della fede della Chiesa come altro dalla Scrittura e non come inglobato in essa fino a risultare un duplicato di cui sbarazzarsi.
Gherardini parte dall’ermeneutica della continuità come indicato dal Pontefice a cui aggiunge un attributo interessante, (in verità sin dal suo insegnamento universitario) e la definisce «ermeneutica evolutiva» (6), unica capace di rispondere a quella domanda di capitale importanza: «il Vaticano II s’iscrive o no nella Tradizione ininterrotta della Chiesa, dai suoi inizi ad oggi?» (7).
Proprio in ragione di un’evoluzione della comprensione della verità e non di una mutazione della verità in sé, il Vaticano II fa parte dell’unica vita della Chiesa, n’è un momento solenne ed espressivo di tutta la storia che lo ha preceduto e in questo modo diventa anche profezia per il tempo che verrà.
La Chiesa «non è una successione di quanti, ma una sua interrotta ed armonica durata, della quale ogni Concilio Ecumenico è un momento essenziale, organicamente – direi perfino “biologicamente” – collegato con quelli che l’avevano preceduto, costituendo con essi il patrimonio “biologico”, grazie al quale la Chiesa ha finora vissuto, vive e vivrà» (8).
Questo approccio ermeneutico però non sarà proficuo senza decidersi a riconoscere la natura pastorale del Concilio. Dire che il Vaticano II è un concilio pastorale significa che non lo si può considerare come l’unico concilio della Chiesa e non si può attribuire valore dogmatico-definitorio ai suoi testi a meno che non faccia un chiaro ed esplicito riferimento ai dogmi definiti in precedenti concili e all’insegnamento dogmatico precedente.
«È pertanto lecito riconoscere – scrive Gherardini – al Vaticano II un’indole dogmatica solamente là dov’esso ripropone come verità di Fede dogmi definiti in precedenti Concili. Le dottrine, invece, che gli son proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa “voluntas definiendi”» (9).
Il Magistero del Concilio è dunque un magistero solenne della Chiesa ma non irreformabile, di natura pastorale, e perciò suscettibile, in diversi luoghi, di perfettibilità dogmatica, di ancoraggio più esplicito alla Fede della Chiesa. L’afflato pastorale che anima il Concilio deve essere necessariamente verificato alla luce della ricezione storica dei suoi documenti, dei miglioramenti verificatisi, degli approfondimenti, come dei disguidi, delle perplessità, degli smarrimenti dottrinali e di tanta superficialità prodottasi.
È proprio il criterio pastorale che invoca una revisione, onde essere all’altezza dei tempi con i quali chiede il confronto. Bisogna nuovamente bilanciare quel rapporto diadico di dogmatica e pastorale: questa in funzione di quella e mai viceversa.
Di qui deriva l’altro punto fondamentale da chiarire, intorno al quale si attesta l’attuale enfasi che vede il Vaticano II come correttivo al Indentino e al Vaticano I circa il senso della Traditio, vista non eccessivamente distinta dalla Scrittura. Gherardini su questo è molto palese: «Sì il Vaticano II portò al riguardo un suo correttivo.
Ma non è detto ch’esso sia stato anche un grande progresso» (10). In che senso? Gherardini prima di tutto si chiede cosa significhi Traditio presso i Padri e appura che la regula fidei oltre alla Scrittura è costituita anche dalla Tradizione orale, intesa come Tradizione apostolica, non riducibile alla Scrittura, ma di essa più ampia e col medesimo valore normativo. Questa è la linea comune fino al Vaticano I.
Il valore normativo della Tradizione come regola prossima della fede (a differenza della Scrittura, regola remota della fede) (11), viene ravvisato da Gherardinì nel vicendevole integrarsi di Successione e Tradizione, «perché qui si radica la “regula fidei” e perché il parlarne dovrebbe partire da qui, non da quel sovrapporsi ed integrarsi di Scrittura e Tradizione che ne farebbe “una cosa sola”» (12).
Invece, il Vaticano II predilige in Dei Verbum 9 una certa unificazione tra Scrittura e Tradizione in base ad una eguaglianza di origine e coincidenza di contenuti, riservando alla Tradizione solo una differenza di espressione rispetto a quella della Scrittura, correndo però il rischio di rendere superflua o l’una o l’altra (13).
Dice Gherardini; «Per il Vaticano II e per la sua volgata interpretativa, la Tradizione trasmette soltanto quanto contiene la Scrittura e ne applica il contenuto scritto alla esigenze dei tempi. La qual cosa, però, è già fuori della nozione classica dì Tradizione… come la storia della Chiesa dimostra e qualche Padre apertamente dichiara» (14).
Non è forse proprio a causa dì questo impasse in cui si trova il lemma “Tradizione” che si è smarrito il senso della fede e si vive quella spersonalizzazione di cui parlavamo, arrivando addirittura a giustificare il sedevacantismo in nome della Tradizione? Come si vede urge un lavoro di chiarificazione di quello che il Concilio è stato, non con mezzi umani di fortuna ma con il metro e l’acribia teologica.
L’Autore poi continua nel suo saggio evidenziando i punti di discontinuità che emergono dall’analisi dei testi conciliari, i quali abbisognano di una chiara precisazione magisteriale. Il lavoro dì serena maturazione dì queste altre pagine lo lasciamo al lettore per analizzare ora il versante ermeneutico opposto che abbiamo definito come “discontinuità pastorale”.
Gli autori che si attestano su quest’altro versante che privilegia la novità del Concilio, ciò che il Concilio è stato per la Chiesa, il suo evento e dunque il nuovo modo di essere Chiesa nel mondo, preferiscono il connotato storico come cuore dell’analisi dell’ermeneutica della discontinuità. Su questa linea troviamo G. Alberigo e la Scuola bolognese, il cui frutto d’attività accademiche è stato condensato nella Storia del Concilio Vaticano II, diretta dallo stesso Alberigo ed edita in 5 volumi.
Nella premessa al vol. I Alberigo scrive: «Attardarsi in una visione del concilio come la somma di centinaia di pagine di conclusioni – frequentemente prolisse, talora caduche – ha sinora frenato la percezione del suo significato più fecondo di impulso alla comunità dei credenti a accettare il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini… È sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso. La carica di rinnovamento, l’ansia di ricerca, la disponibilità al confronto con l’Evangelo, l’attenzione fraterna verso tutti gli uomini, che hanno caratterizzato il Vaticano II, non sono aspetti folkloristici o comunque marginali e transeunti. Al contrario, questo è lo spirito dell’evento conciliare, al quale la sana e corretta ermeneutica delle sue decisioni non può che fare riferimento» (15).
Lo spirito dell’evento conciliare sarà colto a patto che si passi ad una storicizzazione del Concilio stesso, ovvero una presa in seria considerazione non solo di un modello istituzionale ma di un nuovo modo di essere. Dice Alberigo: «È giunto il momento di operare una storicizzazione del Vaticano II non per allontanarlo, relegandolo nel passato, ma per agevolare il superamento della fase controversistica della sua recezione da parte delle Chiese» (16).
La fase controversistica deriva dall’appigliarsi all’istituzione, alla lettera dei documenti, mentre bisogna fornirne anche «lo spirito e la dialettica che hanno caratterizzato l’assemblea» (17). Dunque, il lavoro ermeneutico per Alberigo richiede di seguire anche «l’evoluzione della consapevolezza dell’assemblea e delle sue varie componenti» (18).
Quando G. Angelini recentemente si è pronunciato circa l’ermeneutica applicata al Concilio (19) vedendo nell’opera di Alberigo una distinzione tra un’ermeneutica della “lettera” e una dello “spirito”, G. Ruggeri è insorto in difesa di Alberigo e della Storia del Concilio Vaticano II, rimproverando ad Angelini un assunto lontano dalle posizioni bolognesi.
Per Angelini, al dire di Ruggieri, «i testi delle decisioni finali sarebbero semplicemente la lettera, che andrebbe tuttavia interpretata alla luce dello spirito di cui il vettore sarebbe invece l’evento del concilio stesso nella sua celebrazione durata parecchi anni, dal primo annuncio fino alla conclusione. Duole il dirlo ma, nella Storia diretta da Alberigo, una banalità del genere è semplicemente assente…» (20).
Dal contesto su accennato si evince però che Angelini ha colto nel segno quanto trapela dalla Scuola bolognese e dalla loro Storia del Concilio.
Anche per B. Forte il Vaticano II è il «Concilio della storia», nel senso che «il Vaticano II ha avviato una “storia del Concilio”, un itinerario di ricezione attraverso il quale la promessa risuonata nell’evento conciliare potesse prender corpo nella vita degli uomini» (21) e così il Concilio assume la «storia nell’autocoscienza della fede» (22) e la mette in rapporto alla verità.
Per Forte il primo luogo in cui si evince il fatto che il Vaticano II si presenta come Concilio della storia è la costituzione sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum, in cui il Concilio offre «il più incisivo contributo che la riflessione magisteriale abbia dato al problema della mediazione storica della rivelazione. Il superamento della dottrina delle due fonti, Scrittura e Tradizione, in quella dell’unica traditio Verbi ex fide in fidem, che ha il suo momento normativo nella parola registrata nel testo sacro, ma che vive in permanente novità di racconto e di interpretazione sotto l’azione dello Spirito Santo nel tempo…» (23) .
Ancora, secondo Forte un altro elemento in cui si veda la storicità del Concilio è il fatto che col titolo Gaudium et spes assunto in sostituzione dell’altro De Ecclesia et mundo huius temporis si risolve quel dualismo Chiesa-mondo, che questo ultimo titolo richiamava piuttosto che mettere in risalto il dialogo e la presenza feconda della Chiesa nel mondo (24).
La Scuola bolognese è intervenuta nuovamente di recente nel dibattito sul Concilio con un libro curato da A. Melloni e G. Ruggieri, Chi ha paura del Vaticano //? (25). Qui il livello delle forme storiche contingenti ha un predominio sui principi fondamentali della fede e questi devono essere letti alla luce di quelli. G. Ruggeri nel suo intervento su Ricezione e interpretazione del Vaticano I. La ragioni di un dibattit0 (26), enuclea precisamente la sua tesi quando sostiene che «il teologo seguendo l’esempio di Benedetto XVI, distinguerà tra il livello delle forme contingenti, in apparente discontinuità, e quello dei principi fondamentali. Ma sono distinzioni che lo storico non può fare all’interno del suo orizzonte.
Anche perché egli sa che, storicamente, questa distinzione subisce varianti: ci sono affermazioni che in una determinata epoca vengono considerate essenziali e necessario alla fede e che, in un mutato contesto, si “scoprono” come secondarie. Il caso della condanna del poligenismo nella Humani generis ne è un caso chiaro. L’enciclica si poggiava sulla dottrina scolastica che considerava come “teologicamente certa” l’incompatibilità tra la dottrina dogmatica del peccato originale e l’ipotesi poligenista delle origini della razza umana.
Oppure si può ricordare la condanna del Christotokos di Nestorio, oggi praticamente superata, o il più recente accordo tra chiesa cattolica e chiesa luterana sulla giustificazione» (27). In tal modo Ruggieri liquida tutte quelle verità di fede incompatibili con lo sviluppo storico. La «fede approfondisce e non contraddice la considerazione dello storico» .
Ruggieri è anch’egli convinto della necessità di riconoscere la natura pastorale del Vaticano II, ma – al contrario di quanto si diceva su – solo perché sia l’inizio di un nuovo modo di concepire il Concilio nella Chiesa e per la Chiesa. Infatti, per Ruggieri la ricezione del Concilio consiste essenzialmente nella ricezione di un nuovo modo di essere della Chiesa.
Il Vaticano II è la ricezione di ciò che la Chiesa è stata. Scrive: «La ricezione dell’evento conciliare implica allora soprattutto che la chiesa oggi non possa essere diversa non già e in primo luogo da quello che ha detto in concilio (giacché invece deve superare molte delle cose dette in concilio), ma da ciò che è stata in concilio» (29).
L’asse teologale per ricevere il Concilio, ovvero il suo spirito, il suo modo di essere più che le cose che ha insegnato, è dato anche a parere di Ruggieri (che fa sua anche se con qualche lieve critica la tesi di Theobald che legge il Concilio fondamentalmente come l’intersecarsi di un asse verticale e uno orizzontale) dalla Dei Verbum, sintetizzata nel suo prologo. Essa «concepisce la rivelazione come esperienza ed evento di incontro e di comunicazione tra Dio mistero assoluto e la risposta libera della coscienza umana» (30)
Alla rivelazione di Dio che è libertà comunicativa fa seguito la libertà religiosa dell’uomo. Così sì saldano la Dei Verbum e la Dignitatis humanae. «Si comprende a partire da qui che una siffatta teologia della rivelazione e della fede esige necessariamente la definizione della libertà religiosa per tutti» (31). Il Concilio è un crocevia della libertà di Dio e della libertà dell’uomo.
C. Theobald nel suo saqgio Nodi ermeneutici dei dibattiti sulla storia del Vaticano II , invoca un ritorno al principio di “pastoralità” come contrappunto al problema ecclesiologico letto come elemento primario del Concilio. Secondo Theobald la Chiesa come argomento principale del Concilio fu opera dell’apporto di Paolo VI, alquanto estraneo all’intenzione originaria di Giovanni XXIII.
Il Concilio deve riappropriarsi del suo connotato specifico perché, a dire di Theobald, «non c’è annuncio del Vangelo di Dio senza farsi carico del destinatario; e per precisare il ruolo di quest’ultimo, si deve aggiungere che “ciò” di cui si tratta nell’annuncio è già operativo in lui, dal momento che può aderirvi in piena libertà».
Ancora una volta la libertà è il vero paradigma conciliare che rende efficace in definitiva anche l’annuncio del Vangelo, la sua proclamazione oggi, il nuovo modo di essere della Chiesa oggi: libertà. La vera novità del Concilio è per Theobald questa: «La chiesa conciliare prende progressivamente coscienza che la rivelazione non esiste al di fuori della sua ricezione storica e culturale: la “tradizione” effettivamente vissuta, il corpo della fede – quello che essa è, che riceve e che si dona – è la sola traccia della sua origine divina…» (34).
Tutto questo però non lascia né lo storico né il teologo senza conseguenze rilevanti nel suo cammino di fede e nella sua indagine: il Concilio è destinato a diventare tanti concili finché perdura la ricerca della forma storica della ricezione e prevale su quella della fede. Si va avanti celebrando sempre nuovi concili.
Theobald né è convinto – supponiamo che lo siano tutti i membri dell'”Officina” bolognese – e scrive: «La normatività del corpus conciliare non consiste nella sua letteralità teologica o giuridica, né in uno spirito che non avrebbe più niente da ricevere da esso; essa si manifesta piuttosto concretamente in una messa in opera pastorale e missionaria, che – istruita dallo Spirito – vada fino al punto in cui le riformulazioni di questo o quel testo si dimostrino necessarie, suscitando allora l’attesa di un nuovo concilio» (35). Si dovrà credere, in definitiva alla Chiesa o al concilio? Chi sarà la norma della fede?
Riflessioni critiche ed auspici
Volendo offrire ora degli spunti critici su questo breve status quaestionis (parziale ed introduttivo certo rispetto alla problematica in esame) non possiamo che rilevare immediatamente l’incapacità dell’ermeneutica della discontinuità di dialogare con l’intero Soggetto-Chiesa.
Solo se si parte da una visione unitaria della Rivelazione e se ne specifica le due fonti unite nell’unica Parola di Dio rivolta agli uomini ma distinte, si può far chiarezza dell’elevata posta in gioco: l’intera vita della Chiesa, da Cristo a noi, senza interruzioni o cesure. È in gioco, come si vede, il giusto concetto di Rivelazione e conseguentemente quello di Tradizione. Bisogna nuovamente chiedersi: la Rivelazione è un atto libero e gratuito di Dio, dunque contingente, oppure Dio non sarebbe Dio senza la Rivelazione?
Se è vera la prima domanda e falsa la seconda non c’è motivo per rincorrere la storia. La libertà dell’autocomunicazione di Dio fonda l’alterità tra fede e storia e la precedenza della fede sulla storia. Lo vedremo meglio tra breve confrontandoci con Rahner.
In nome del “principio di pastoralità” si postula, nella sponda ermeneutica della discontinuità, una sorta di rottura con l’istituzione, con ciò che è fisso, normativo, per fare spazio ad un nuovo modo di “sentirsi” chiesa nel mondo. Qui il nodo è costituito dalla storia. Si interpreta la fede con la storia e non la storia con la fede. Favorendo la storia e preponendola alla fede non si esce da un labirinto: il mondo. La norma del Concilio non sarà più la Tradizione ma la vita della Chiesa pastoralmente intesa che trasmette storicamente la fede.
La fede sarà soggetta sempre al tempo e il Vaticano II al futuro che deve ancora venire ma in vista del quale si coglie ora quel che si voleva dire, lo spirito nascosto del Concilio, le sue ansie, i suoi desideri. Si cade in un’idolatria del tempo e la fede e i suoi dogmi non avranno più cittadinanza perché saranno oggetto di un’evoluzione dello spirito che di volta in volta matura nuove comprensioni e nuove vie per credere. La Chiesa subisce una frattura nel suo intimo, perde la sua rilevanza come Soggetto di fede per essere soggetta ai momenti e alle mode.
Mentre si riconosce la pastoralità del Vaticano II, consapevoli della volontà di Giovanni XXIII di far fronte ai bisogni dell’uomo d’oggi, presentandogli la dottrina di sempre con un linguaggio a lui comprensibile, praticamente però nell’ermeneutica teologica applicata al Vaticano II si insiste sulla specificità dogmatica nuova: la necessità di subordinare il metodo dogmatico a quello pastorale, di dogmatizzare la pastorale.
Si sussume nel momento teologico-dogmatico dell’interpretazione quello storico-pastorale che privilegia non più la Tradizione ma le forme storiche contingenti come nuove espressioni dello spirito impresso nelle lettere. Le nuove forme diventano la regola della fede mentre la fede crederà le nuove forme di espressione della verità. In tanti fedeli questo è già vero.
La verità così obbedisce alle forme storiche e necessariamente, come conseguenza logica, la fede insegnata dal Concilio non dovrebbe più essere la fede della Chiesa. Una tale concezione che sostituisce il momento pastorale a quello dogmatico è semplicemente uno scambio improprio che finisce per ritorcersi contro di sé: quale sarà la giusta regola di interpretazione del Concilio? Sola la volontà pastorale di Giovanni XXIII?
O non piuttosto le diverse forme storiche che si alternano nel tempo? Come si vede il Concilio stesso è destinato in tal modo a lasciare di volta in volta il tempo che trova e ogni stagione sarà una stagione conciliare, ogni idea sarà frutto dell’intenzione del Concilio; si attribuirà ogni progresso, ogni modernismo al Concilio e si finirà coll’obbedire a ciò che è più comodo. Proprio come avviene oggi.
Tante dottrine, tante verità giustificate in nome del pluralismo. L’ermeneutica della rottura, dunque, è in se stessa vacillante e contraddittoria. Di più, il Concilio inaugurerebbe un nuovo modo di fare esperienza di Dio nella storia degli uomini, ormai slegato da ogni riferimento oggettivo al dogma creduto e pregato.
Qui il vero problema soggiacente è l’impero del metodo trascendentale, della teologia trascendentale, che pone un’assoluta contiguità tra la storia universale del mondo e della Bibbia, diventando una storia della rivelazione in quanto autocomunicazione trascendentale di Dio che fonda l’apertura esistenziale-soprannaturale dell’uomo in virtù della sua libertà-trascendentalità ad ascoltare la rivelazione, a conoscere l’essere (l’esistenza) e il mondo. Così si salda in modo permanente Dio-l’uomo-il mondo, la fede e la storia.
In questo senso la Dei Verbum non può che richiamare o oggettivare la Dignitatis humanae interpellandosi e interscambiandosi. Per Rahner c’è una mediazione storica nella trascendenza e nella trascendentalità del soggetto. La storia è l’evento della trascendenza e l’esperienza della soggettualità (36), «la stessa trascendenza ha una storia e… la storia a sua volta è sempre l’evento di tale trascendenza» (37) .
Da qui Rahner fa conseguire che «la storia della salvezza e la storia della rivelazione, in quanto autocomunicazione propriamente soprannaturale, sono coesistenti e coestensive alla storia religiosa del mondo, alla storia dello spirito e quindi anche alla storia religiosa in genere. Dal momento che, attraverso l’autocomunicazione entitativa ontologica di Dio esiste un’autotrascendenza dell’uomo di carattere rivelatorio, assistiamo a una storia della rivelazione ovunque tale esperienza trascendentale ha una storia: assistiamo quindi a una storia della rivelazione nella storia dell’uomo in generale».
Sembra che proprio su questo principio ormai sia radicato il dialogo che il Concilio avrebbe inaugurato con ogni uomo, con ogni religione, con ogni comunità ecclesiale. Non c’è più alcuna diversità, ma solo un’unità nell’essere uomini e dunque nell’essere portatori di questa rivelazione nel mondo. Ha più senso, in questo modo una salvezza trascendente e non trascendentale? Il trascendentale diventa una minaccia per il trascendente
La teologia trascendentale di Rahner, infatti, lega a doppio spago Dio e il mondo, «…questa libera grazia – scrive Rahner, – come determinazione trascendentale dell’uomo ha la propria storia in ciò che chiamiamo storia della salvezza e della Rivelazione, che non può affatto essere e venir colta come tale senza questa possibilità a priori dell’uomo, chiamata grazia (della fede)» (39).
E così si giunge al compito fondamentale dell’intero impianto trascendentale della teologia. Al primo posto Rahner pone il «rapporto Dio-mondo»: «Infatti, solo quando vi sia una conoscenza di Dio in un metodo trascendentale Dio non diviene un frammento (del mondo) nell’ambito dell’intero del mondo o un demiurgo, che interviene nel mondo puramente ‘dall’esterno’» (40).
Come si vede, un altro elemento cruciale da cui non si può prescindere in questo doveroso sforzo di ricucire le fila della fede con l’intero mistero-Chiesa è la necessità di abbandonare il metodo trascendentale, denunciandone la sua incompatibilità con la teologia, oltretutto la sua chiusura a Dio e in definitiva anche al mondo. Il metodo trascendentale pone in modo assolutamente contigui Dio e il mondo, la natura e la grazia, fino ad assorbire il soprannaturale nel naturale. Il soprannaturale rimarrà atematico per sempre. Dio rimarrà l’anonimo, ovvero lo sconosciuto e l’uomo farà tutto da sé.
Nello sforzo rahneriano prolungato dai sostenitori di un dialogo a tutto campo col mondo e con la storia emerge piuttosto un dato preoccupante: il mondo per quanto lo si valuti come contingente e quindi relativo a Dio rimane sempre il momento essenziale della rivelazione, la sua delimitazione, il suo insabbiamento. Dio ha detto tutto nel mondo, o piuttosto ha detto il mondo e noi incontrando il mondo incontriamo Dio. Invero, incontrando il mondo incontriamo piuttosto – come avviene oggi – l’assuefazione a Dio, la sua negazione.
Dio non è il mondo e il mondo non è Dio. Dio non lo si trova soprannaturalmente nel mondo ma nella sua Parola di Rivelazione donata al mondo, nei suoi Sacramenti. Dio lo si incontra nella Chiesa, nella Tradizione ininterrotta da Cristo fino agli ultimi Vescovi successori degli Apostoli. Anche il Concilio lo incontro non nel mondo ma nella Chiesa. Solo se incontro la Chiesa incontro il Concilio e finalmente il mondo, perché incontro Dio.
La Chiesa è più grande del Concilio. Questi è una manifestazione della Chiesa, la più solenne, la più mediatica diremmo oggi, ma una delle manifestazione della Chiesa. La Chiesa trascende il Concilio e ogni sua manifestazione per radicarsi nel mistero del Dio Unitrino del quale è riflesso nel tempo e dalla cui comunione è radunata.
Chi postula un nuovo cominciamento è destinato a seguire il Concilio più che la Chiesa. Questo è il rischio di oggi, questa è la ragione della spersonalizzazione della fede. Seguire il Concilio significherà seguire tutti i concili che dovranno venire, perché in ognuno di essi si dovrà trovare il motivo del cominciamento nel tempo e nella storia.
I concili dovranno rispondere alle esigenze fluttuanti della storia, dovranno essere tutti esclusivamente pastorali e necessariamente tanti quanti saranno i momenti nuovi e nodali della storia. Inseguiremo i concili, celebreremo i concili e non più il mistero di Cristo nella Chiesa. Urge un “uscire dal Concilio”, da questa mentalità storicista applicata al Concilio, per ritrovare Cristo e la Chiesa. Allora si capirà anche il Concilio e il mondo.
Note
1) Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, del 10 marzo 2009, in L’Osservatore Romano del 13 marzo 2009, p, 8.
5) B. GHERARDINI, Concilio Ecumenico Vaticano II, cit., p. 24.
6) Ibid., p. 87
7) Ibid., p. 84
8) Ibid., p. 85
9) Ibid., p. 51
10) Ibid., p. 117
11) Cf Ibid., p. 128
12) Ibid.
13) Cf Ibid., pp. 126-127
14) Ibid., pp. 125-126
15) A trent’anni dal Vaticano II, in Ibid., volI, Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione Il Mulino, p. 10. per una recensione critica dell’opera di Alberigo si veda A. MARCHETTO, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, LEV, Città del Vaticano 2005. Si veda anche la presentazione che di questo libro fece il cardinale C. Ruini, il 17 giugno 2005 in cui diceva: «L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. E’ un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa». Il pensiero di Ruini su questo punto emblematico è espresso nel suo libro, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti, Mondatori, Milano 2005.
16) G. ALBERIGO, A trent’anni dal Vaticano II, cit.
17) Ibid.
18) Ibid.
19) Dibattito -Vaticano II: la recezione del Concilio. Sul conflitto delle interpretazioni, in Il Regno 10 (2008) 297-303
20) testo pubblicato on line nel contesto del Convegno di Firenze del 16 maggio 2009, dal titolo Il vangelo che abbiamo ricevuto. La relazione suddetta di Ruggeri ha per titolo Il concilio? Così è, se vi pare… Leggerezze e banalità nella discussione sul Vaticano II, in www.statusecclesiae.net
21) Le prospettive della ricerca teologica, in R Fisichella ( a cura di), Il Concilio Vaticano II: recezione e attualità alla luce del Giubileo, Cinisello Balsamo, San paolo 2000, p. 423
22) Ibid.
23) Ibid., p. 420
24) Ibid., p. 421
25) A. MELLONI – G. RUGGERI, Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009.
26) In ibid. pp. 17-44
27) Ibid., pp.24-25
28) Ibid., p. 26
29) Ibid., p. 30
30) Ibid., p. 36
31) Ibid.
32) In ibid., pp. 45-68
33) Ibid., p. 56
34) Ibid., p. 63
35) Ibid., p. 65
36) Cf Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, pp. 191.
37) Ibid., p. 192
38) Ibid., p. 207
39) Teologia trascendentale, in Sacramentum mundi, vol 8, Morcelliana, Brescia 1977, col. 350. Quest’a priori dell’uomo è «l’esistenziale soprannaturale permanente della grazia come autocomunicazione di Dio offerta, quindi una struttura costituzionale ‘trascendentale’ dell’uomo», Ibid.
40) Ibid.