Libero quotidiano, 24 maggio 2016
di Marco Respinti
Se non si chiamasse Gilbert K. Chesterton (1874-1936) uno che si presentasse con un libro intitolato L’uomo che si mise un cavolo come cappello e altri improbabili racconti (Lindau, Torino, 248 pagg, € 21,00) finirebbe subito in coperta a strofinare il ponte. Ma al fuoriclasse inglese è permesso tutto perché nessuno ci ha regalato gialli come L’uomo che fu Giovedì e romanzi come Le avventure di un uomo vivo; il formidabile Padre Brown, investigatore dilettante sempre in missione poliziesca per contro di Dio (da cui scopiazza mezza fiction tivù), e la prima critica all’eugenetica del Novecento; regesti di saggezze come Eretici e Ortodossia; perle degno di Omero come Lepanto e La ballata del cavallo bianco; e ritratti nazionalpopolari di san Tommaso d’Aquino e di san Francesco d’Assisi anti-intellettuali e anti-buonisti.
Nessuno come lui ha capito che il capitalismo è un guaio quando ce n’è in giro troppo poco (così poco che ci si gioca pure l’anima); ha stozzato gli strozzini in L’utopia degli usurai; ha scambiato Benito Mussolini per Carlo Magno ne La resurrezione di Roma ma se n’è accorto in tempo; è andato al cuore della questione delle questioni con La Chiesa cattolica; ha bagnato il naso persino a J-Ax con Il bello del brutto (sì, è solo il titolo italiano di The Defendant, ma il concetto è chiaro lo stesso) e nel fare tutto questo ci si è forse guadagnato pure la santità (dal 2014 la diocesi inglese dove lo scrittore visse ha in atto una sorta “di pre-processo” esplorativo).
Quando L’uomo che si mise un cavolo come cappello uscì in inglese nel 1925 s’intitolava Tales of the Long Bow. Quello evocato è il micidiale “arco lungo”, potenza degli eserciti inglesi dal secolo XIII, ma anche l’equipollente del nostro “spararle grosse” (to draw the long bow). Si narrano infatti le mirabolanti gesta di un manipolo di personaggi improbabili, accomunati da comportamenti assurdi e dalla militanza nella Lega dell’Arco Lungo. Non per nulla Chesterton fu uno dei maestri in pectore di J.R.R. Tolkien, altro talento impareggiabile nell’usare i vocaboli a strati (un solo esempio: hobbit, dove si sovrappongo il coniglio rabbit, il romanzo Babbitt di Sinclair Lewis, l’anglosassone holbytla per “scavatore di buchi”).
Gli arcieri stravaganti di Chesterton non sono però dei buffoni, sono cavalieri. Gli ultimi del nostro mondo, come il Don Chisciotte nato dalla penna dell’eroe di Lepanto che nell’immaginazione chestertoniana, pur sottotraccia, non manca mai. Li lega una fratellanza. Proteggere la terra e restituirne la proprietà agli uomini liberi contro i potenti con il pelo sullo stomaco e quelli che hanno perso il gusto delle cose di un tempo. Non perché il passato sia necessariamente migliore dell’oggi, Chesterton non è così banale; ma perché le cose antiche, verificate dal tempo, possano ancora essere coltivate, amate, fatte.
C’è qui tutto l’Edmund Burke che definisce la società un patto tra antenati, noi e chi verrà, riecheggiato dallo stesso Chesterton per il quale la tradizione è la “democrazia dei defunti” (lo scrive in un capitolo di Ortodossia che è una manifesto, L’etica del paese delle fate).
Una delle battute più belle de L’uomo che si mise un cavolo come cappello è di uno di questi assurdi eroi, che ricorda il Robin Hood evocato nell’epilogo: «Non mi venite a parlare di uno Stato Mondiale. Non vi avevo detto che preferivo un’Eptarchia?» dove il riferimento è ai sette regni degli aviti tempi anglosassoni. Sono dei rivoluzionari i sodali dell’Arco Lungo, ma della rivoluzione vera, quella che gli anglosassoni hanno in mente da sempre. Non la sovversione delle cose come stanno, ma il suo contrario: come in astronomia, un moto circolare completo che riporti le cose a posto. «Il giorno in cui arriverà la vera rivoluzione, i giornali non ne faranno parola» dice uno di loro.
L’amore per l’ordine e per le cose ben fatte, direbbe uno hobbit. Non è un programma politico, ma una dichiarazione di guerra giusta culturale e metapolitica. Le sue armi sono l’estetica e la poetica, la bellezza e il racconto. Gli arcieri tanto strampalati di questo libro sono forse allora soltanto degli uomini finalmente normali. Fanno cose bislacche solo perché è il mondo che, squilibrato, li percepisce fuori luogo. Lo dice Chesterton: «Questi racconti narrano di imprese ritenute impossibili da realizzare, impossibili da credere, e persino (potrebbe sostenere l’annoiato lettore) impossibili da leggere». E il mondo, il mondo intero che sbaglia. Con il suo sorriso pastoso e i suoi 100 e passa chili di peso Chesterton lo dice senza pudore.
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Gilbert K. Chesterton L’uomo che si mise un cavolo come cappello e altri improbabili racconti Lindau, Torino, 248 pagg, € 21,00