La Nuova bussola quotidiana
20 giugno 2016
Anna Bono
Nei cellulari c’è il coltan, un minerale che arriva quasi tutto dalla Repubblica democratica del Congo. Ma, invece di essere fonte di benessere per il Paese e per i suoi abitanti già tanto martoriati, averlo è una disgrazia: le condizioni di lavoro sono insalubri e pericolose, i minatori, anche bambini, lavorano spesso in condizione di schiavitù, dei gruppi armati se lo contendono per contrabbandarlo e la popolazione civile ne fa le spese. Ecco perché da qualche anno se ne parla come di una maledizione.
Il coltan non è l’unica risorsa naturale a essere considerata una maledizione in Africa. Per primo è stato il rame a essere “maledetto”. Lo Zambia negli Anni ‘60 era il secondo maggior produttore di rame del mondo dopo il Cile e anche adesso figura tra i primi dieci. Dopo l’indipendenza ottenuta nel 1964, tutti avevano previsto per il Paese un rapido sviluppo proprio grazie al rame: tutti tranne l’agronomo René Dumont, di tutt’altro avviso. Ma pochi gli diedero retta allora, malgrado la sua fama, perché nel clima di quegli anni, esaltato per la fine della colonizzazione europea, un suo libro pubblicato nel 1962 lo aveva screditato: si intitolava L’Afrique noire est mal partie,(L’Africa nera è partita male), ed elencava i fattori negativi che avrebbero impedito agli africani di godersi l’indipendenza.
Purtroppo aveva ragione Dumont e lo si è capito presto, fin dagli Anni ‘70. Le guerre di liberazione erano state anche guerre civili, tribali, per la supremazia. I vincitori non ebbero pietà dei vinti e, una volta insediati, iniziarono il saccheggio dei beni nazionali. Fu allora che, a proposito dello Zambia, qualcuno inventò l’espressione “la maledizione del rame”: per dire che il Paese era sempre più povero e proprio a causa della nuova ricchezza, sprecata, usata male e ferocemente contesa. Per le stesse ragioni, la maledizione della Costa d’Avorio è il cacao, quella della Nigeria il petrolio, della Sierra Leone i diamanti, per i quali si è combattuta una guerra tanto atroce da far coniare una nuova espressione: diamanti insanguinati.
Dumont in un suo saggio spiegava come e quanto lo Zambia stesse dilapidando senza farsi scrupoli la propria ricchezza, ipotecando il futuro: vistosi beni di lusso personali, palazzi ministeriali faraonici, patrimoni profusi per ostentare simboli di status e di modernità privati e pubblici – per anni dopo l’indipendenza lo Zambia è stato il maggior consumatore al mondo di champagne Veuve Cliquot – il tutto attingendo alle casse dello Stato e indebitando il Paese. René Dumont, e con lui altri affermati studiosi del continente africano, avevano chiaro che il problema dello Zambia era l’avidità dei suoi leader decisi a far bottino delle sue risorse e a spartirlo con le rispettive etnie.
Lo storico Basil Davidson, ad esempio, definiva i leader africani, tutti senza eccezione, corrotti, irresponsabili e criminali. Benché già negli Anni ‘70 stesse prendendo forma l’ideologia terzomondista con le sue teorie sul neocolonialismo e il neoimperialismo, ancora nessuno allora organizzava campagne contro l’acquisto del rame incolpando dei problemi dello Zambia chi metteva grondaie di rame a casa sua. Ma 40 anni di campagne antioccidentali hanno lasciato il segno. Ormai tutti dicono che ci sono le guerre perché noi occidentali fabbrichiamo armi, il coltan alimenta conflitti, e corruzione, perché noi occidentali abbiamo inventato i cellulari.
Il Congo è uscito nel 1996 da 30 anni di dittatura sotto Sese Seko Mobutu solo per piombare in una guerra dopo l’altra, con più di quattro milioni di vittime civili, e adesso è in mano a un capo di Stato, Joseph Kabila, che pensa solo a restare in carica in qualche modo, oltre i limiti previsti dalla costituzione. I leader politici sono talmente corrotti da rivendicare addirittura apertamente il diritto di razziare le ricchezze nazionali (se no, che senso avrebbe arrivare al potere?). Eppure quasi nessuno li accusa di sprecare i proventi della vendita del coltan – e di ogni altra risorsa mineraria di cui il Congo è incredibilmente ricco – e di permettere che i gruppi armati lo contrabbandino e minaccino la popolazione. C’è persino chi li difende: «il Paese è grande, il territorio è troppo vasto e non dispongono dei fondi necessari per gestirlo e controllarlo», «la distanza da questa regione (dove ci sono le miniere di coltan) dalla capitale rende quasi impossibile controllarla».
Se si digita “coltan” su Google compaiono infiniti elenchi di blog, riviste e siti web con titoli come “La maledizione del coltan. Che tutti abbiamo negli smartphone”, “Il sangue nel nostro smartphone”, “Il diamante insanguinato dell’hi-tech”. Nei testi il livore contro «noi che usiamo gli smartphone» fa paura: «siamo tutti assassini diretti o indiretti della popolazione del Congo», «uno smartphone nuovo corrisponde alla schiavitù di un altro bambino del Congo… La cui madre o sorella saranno state stuprate e trucidate».
Gli smartphone li usano anche i cinesi e gli indiani. Li usano anche gli africani: più di 400 milioni di utenti in Africa e un mercato in crescita. Ma la colpa resta nostra, siamo noi occidentali ad aver suscitato il bisogno di comunicare via cellulare. Per millenni gli Africani ne hanno fatto a meno. E gli immigrati illegali che arrivano tutti con lo smartphone? In quell’apparecchio che si portano appresso c’è tutta la loro vita: fotografie, ricordi, le loro radici, l’unico rapporto con la famiglia lontana. Come potrebbero farne a meno?