di Ferdinando Camon
Il giorno più brutto della mia vita? Quando papà e mamma si sono separati”: la bambina che mi parla così ha 7 anni, dunque siamo arrivati ai tempi in cui una bambina di 7 anni cataloga i giorni brutti della sua vita, e stabilisce qual è il peggiore? E se il giorno in cui papà e mamma si son separati è il più brutto, ci potrà mai essere, in futuro, un giorno ancora più brutto? Sì: “Quando il papà o la mamma avranno un nuovo fidanzato”.
Ma la mia esperienza non me lo conferma. Ogni tanto la madre della bambina che ho introdotto all’inizio di questo articolo fa qualche viaggio, per stare in pace col nuovo compagno, e per non far sentire l’abbandono alla figlia la chiama col cellulare, e la prima risposta della figlia è: “Dove sei? sei sola? o sei con X?”. La piccola ha un’ossessione: che la madre introduca un nuovo marito, e cioè un nuovo padre.
Il bambino sente padre-madre come una coppia perfetta, si sente il frutto di una pefezione. Se la coppia si spacca, nel bambino s’infiltra un’autosvalutazione, si sente frutto di un errore. Avevo un amico che era uscito di casa, viveva con un’altra donna, e da queste donna ebbe un nuovo figlio. Il figlio avuto dalla moglie precedente andò a trovarlo, stava al quinto piano, guardò il fratellastro in culla, uscì sul terrazzino e si buttò.
Ricordi come questo, di figli finiti male o sbandati perché papà e mamma si son separati, a una certa età si fan numerosi. Leggo che son nati termini nuovi, per indicare i nuovi ruoli introdotti col secondo o terzo matrimonio: “papigno”, “mammastra”, “cugipote”. Non vedo la scia di affettività che questi termini si trascinano dietro. “Papigno” è il maschile di “matrigna”, e la matrigna sta nelle favole come l’incarnazione del peggior male che l’inconscio delle bambine teme: è l’anti-madre.
So che le matrigne eccellenti non sono poche, ma so che le bambine con questo terrore sono molte. E “papigno” è un neologismo funebre. In genere la matrigna appare quand’è morta la madre, se c’è il papigno vuol dire che non c’è il papà. Il figlio c’è perché c’è la mamma che lo ha voluto. Se c’è la “mammastra” ci sono altri figli che lei ha voluto, non tu.
La famiglia allargata è un caos generazionale, ma anche lessicale. Poiché le famiglie allargate son numerose, in Inghilterra han deciso che a scuola non si dica più ai bambini “tua madre” o “tuo padre”, perché è possibile che il bambino non viva con loro. Allora si dice: “gli adulti che vivono con te”. La parola “madre” è cancellata. La parola è un albero, la lingua una foresta. Se tagli una parola, tagli un albero. Ma dalla parola “mamma” derivano tanti altri alberi, germogliati dalle sue radici: se tagli quella parola, crei una radura vuota nel mezzo della società.
Un nostro ministro in carica ha confidato ieri: “Anch’io pensavo che mio figlio, intelligente, non ne risentisse, e mi sono separato. Ma si è destabilizzato. Non è giusto cercare la propria felicità a danno dei figli”. È l’intuizione di un concetto profondo che va portato in superficie: se uno vive da solo, insegue una felicità individuale; se si unisce a formare una coppia, entra in un altro concetto di felicità, la felicità di coppia, che comporta anche dei doveri, la felicità dell’altro; se poi forma una famiglia, entra in una felicità di gruppo, e non può rompere impunemente il gruppo, e uccidere la felicità degli altri per chiudersi nella propria.
La felicità della famiglia non è fatta di tante felicità individuali separate, ma dalla loro fusione e dal loro accordo.