Giovanni Formicola
Dirigente di Alleanza Cattolica
La celebrazione della nascita del PDL – parlare di congresso, almeno nel senso in cui s’è inteso questo termine nell’era dei partiti-casa-chiesa, è eccessivo –, che in quanto tale, come ha acutamente osservato il senatore Quagliariello, è stata preceduta dalla comparsa della «cosa», che secondo natura prima è venuta alla luce e poi è stata iscritta all’anagrafe, ha confermato quella che mi pare la vera rivelazione degli ultimi quindici anni di vita politica nazionale.
Si tratta – ovviamente mutatis mutandis – di quel popolo che, per dire un episodio della sua biografia, fu mobilitato e organizzato da Luigi Gedda (1902-2000) nei comitati civici, dando vita ad un’autentica e incruenta insorgenza anticomunista e che trionfò nella battaglia elettorale del 18 aprile 1948.
Data che non fu mai celebrata dal principale, se non unico, beneficiario di essa. Quel partito democristiano la cui classe dirigente pensò bene di smobilitare presto questo popolo perché, come si è vantato uno dei suoi massimi esponenti, Ciriaco De Mita, «Quando gli storici si occuperanno di fatti e non solo di propaganda spiegheranno che il grande merito della DC è stato quello di avere educato un elettorato che era naturalmente su posizioni conservatrici se non reazionarie a concorrere alla crescita della democrazia. La DC prendeva i voti a destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra».
Qualche anno dopo, un noto intellettuale cattolico-democratico, il professor Pietro Scoppola (1926-2007), in un intervento a margine della trascrizione e pubblicazione del colloquio che aveva avuto nel 1984, insieme con l’esponente democristiano Leopoldo Elia (1925-2008), con Giuseppe Dossetti (1913-1996) e con Giuseppe Lazzati (1909-1986), avrebbe ulteriormente – ed autorevolmente – confermato questa tesi (ultimamente dichiarata anche da Franceschini): «In sostanza, la Dc ha sempre raccolto un elettorato prevalentemente moderato, che è stato tuttavia coinvolto in una politica prevalentemente diretta (tranne alcune parentesi) ad un ampliamento verso sinistra delle basi di consenso alla democrazia e alla funzione di governo».
È lo stesso popolo che a Mussolini (1883-1945) piaceva poco, tanto che, pur avendone ricevuto il consenso, lo voleva rieducare per trasformarne la mentalità, lo stile di vita e finanche il carattere, e che la classe politica risorgimentale aveva escluso dalla politica concedendo il diritto di voto su base censuitaria solo a un’infima minoranza.
Insomma, tra gli antenati ideali del PDL – ripeto, pur con tutte le differenze che sessant’anni di storia non possono non aver scavato tra i «due popoli» – c’è sicuramente Luigi Gedda e ci sono i comitati civici, il cui anticomunismo esistenziale Berlusconi non solo non si è vergognato e non si vergogna di rappresentare – come invece ha fatto una certa classe dirigente democristiana –, ma ne ha alzato gioiosamente la bandiera, anche adesso che può sembrare del tutto inattuale.
Questa pretesa inattualità – che può essere tale solo se il tema è malamente svolto – pesa piuttosto su chi ne è complessato e non parla più di comunismo. Da quanto tempo, per esempio, Gianfranco Fini non pronuncia questa parola? Eppure, l’anticomunismo non sembra meno attuale dell’antifascismo.
E se è giusto ricordare le ragioni storiche di questo – altra cosa è l’antifascismo politico-ideologico, e soprattutto l’antifascismo totalitario, che nel fascismo pretese e pretende di comprendere e combattere la migliore tradizione nazionale, occidentale e cristiana – non meno giusto sarebbe continuare a ricordare le ragioni dell’anticomunismo.
E non solo perché il fatto comunismo ci è certamente e purtroppo anche contemporaneo, ma perché le sue sopravvivenze ancora ci ammorbano e soprattutto perchè l’anticomunismo ha un suo specifico contenuto positivo.
Quanto al fatto, non è necessario argomentare troppo: basta un atlante storico per valutarlo.
Quanto alle sopravvivenze, esse c’inducono a parlare, con i vescovi dei paesi dell’Europa centro-orientale (che il fatto l’hanno ben provato), piuttosto di una metamorfosi del comunismo. Rinunciato a tutti gli elementi esteriori che lo rendevano troppo riconoscibile e perciò socialmente impresentabile, il comunismo, anche in Italia, non ha tuttavia rinunciato all’essenziale relativismo irreligioso se non antireligioso proprio della sua concezione storicista e materialista; non ha rinunciato allo statalismo centralista, che fa della pressione fiscale il principale strumento per contrastare la proprietà e la libertà economica, e con esse la libertà tout court; non ha rinunciato al sindacalismo panico; non ha rinunciato al rifiuto della famiglia naturale e alla negazione del diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale.
In nessun modo sarebbe possibile sintetizzare meglio l’opera o i tentativi d’opera del governo Prodi, il secondo – dopo quelli dell’esperienza detta «ciellenistica» tra il 1944 e il 1947 – di cui hanno fatto parte comunisti dichiarati. Quindi, sempre secondo l’espressione dei presuli dell’Europa che fu rinchiusa dalla cortina di ferro, il comunismo, soprattutto sul piano culturale, non cessa di avvelenare il terreno dove invece dovrebbe essere depositato e fruttificare il seme della civiltà.
Quanto poi allo specifico contenuto positivo dell’anticomunismo, esso consiste precisamente nell’opposizione – spesso istintiva e irriflessa – a tutto questo. E cioè nell’opzione per la naturalità politica e sociale: libertà fondata sul primato della persona rispetto allo Stato e alla stessa società, e quindi sui suoi diritti naturali, da quello alla vita a quello alla proprietà e alla libertà economica; centralità della famiglia naturale e del suo diritto all’educazione della prole secondo le proprie convinzioni; il ruolo dello Stato come strumento sussidiario al servizio della persona e della società articolata nei corpi intermedi – di cui riconosce i diritti a sé anteriori –, che favorisce la solidarietà sociale soprattutto garantendo la sicurezza e l’ordine, l’efficienza e la riduzione dell’invadenza della pubblica amministrazione, e aiutando in via sussidiaria i deboli; il ruolo pubblico della religione, soprattutto, ma non in modo esclusivo, di quella maggioritaria nella nazione, che pur nella rigorosa distinzione di ruoli e funzioni non faccia mancare il suo contributo nel discorso pubblico per illuminare le coscienze, diffondere l’amore per le virtù sociali e rendere riconoscibile la verità sull’uomo.
In questa prospettiva l’anticomunismo è più che attuale, è indispensabile. Ed è innegabile che è proprio la cifra dominante del consenso per Berlusconi e il PDL, che a loro volta non solo non se ne vergognano, ma di buon grado lo assecondano e si sforzano di mettere a proprio agio quella che è stata una «destra diffusa, in fondo non rappresentata nel sistema politico italiano, le cui radici si possono trovare […] nella frequente polemica “antimoderna”, nel rifiuto della politicizzazione della società e […] in un anticomunismo, si direbbe, “esistenziale”. È un’area che elettoralmente si sposterà sui partiti che via via le sembreranno corrispondere a questo sentire diffuso, ma sempre, in definitiva, “turandosi il naso”» (Roberto Pertici), e che forse ora nel PDL si sentirà non ospite sopportata, ma a casa sua, come le accadde nei comitati civici di Luigi Gedda.