dal sito di Alleanza Cattolica
5 agosto 2016
Valter Maccantelli
L’impennata improvvisa subita dagli eventi il Libia negli ultimi giorni con l’inizio dei raid americani sulle postazioni dell’IS a Sirte, le dichiarazioni di Fayez Al-Sarraj relative ad una sua richiesta esplicita di tali raid e il dibattito subito apertosi nel nostro paese circa il coinvolgimento e ruolo dell’Italia, tollerano diverse profondità di lettura.
Il primo livello è quello, esplicitamente dichiarato, di sostenere le Forze libiche che, pur cingendo d’assedio la roccaforte IS da mesi, non riescono a penetrare nel centro urbano per la feroce resistenza dei miliziani di Al-Baghdadi. Vista la delicatezza della situazione nei territori contesi all’autoproclamato califfato in Siria e in Iraq e il complicarsi del rapporto con la Turchia, gli USA spostano l’attenzione tattica su di un teatro diverso, ma non meno importante.
Il successo militare non sembra difficile da raggiungere, come sempre quando si passa alle maniere forti contro l’IS, più complicato sarà l’esito politico. L’idea di fondo sembra essere quella di galvanizzare l’attenzione delle diverse fazioni libiche sulla lotta contro IS sul proprio territorio, per farne l’elemento unificatore tra due poteri forti dell’attuale fase politica: Sarraj e il suo governo di Tripoli da una parte e il Generale Haftar e l’opposizione di Tobruk, dall’altra. In un paese come la Libia, caratterizzato da una forte differenziazione regionale interna e dalla compresenza di più di 140 tribù, gli schieramenti e le alleanze non sono mai davvero chiare e definitive. Per Sarraj e il suo governo, pur sostenuto da ONU, USA e UE, non sarà semplice ottenere il “consenso informato” del suo principale antagonista, Haftar, a sua volta sostenuto da Francia, Qatar ed Egitto, ma, più o meno segretamente, amato e armato anche da USA e GB.
Il comune nemico IS potrebbe portare unità o almeno dialogo fra le parti. Per questo l’offensiva contro Sirte deve avere successo e il supporto della potenza militare USA, forse, lo assicura. Ma come ben sanno coloro che hanno studiato la diplomazia libica nel primo dopoguerra la componente nazionalistica, e all’interno di questa quella regionalistica e tribale, è assai forte. Serraj con questa richiesta di “intervento straniero” si sta avventurando su una lastra di ghiaccio sottile: l’aver invocato l’intervento USA in un paese in cui la retorica antiamericana gode ancora di un notevole fascino rischia di alienargli non poche simpatie nel variegato panorama tribale locale.
E alcune voci in questo senso si sono già levate oggi dalla fazione più vicina alle posizioni islamiste. Certo la liberazione della costa dal pericoloso occupante, e la conseguente estensione del territorio controllato, permetterebbero al suo governo una più agevole monetizzazione delle risorse petrolifere ed economiche, molte delle quali ottenute con investimenti italiani, che porterebbe a un innalzamento della qualità di vita della popolazione con ricadute positive per la sua immagine.
La seconda chiave di lettura dice riferimento alla politica americana sia interna che internazionale. La dimensione internazionale, peraltro non primaria, vuole sottolineare il rinnovato interesse degli USA per il mediterraneo centro-meridionale visti i chiari di luna del quadrante orientale, con l’incognita turca, la tragedia siriana e la freddezza israeliana che congiurano a configurare uno dei più grandi fallimenti della storia della diplomazia a stelle e strisce. Sono proprio questi fallimenti a pesare sulla politica interna, in particolare sulla campagna elettorale USA. Obama ha definito il suo appoggio all’abbattimento di Gheddafi uno dei più gravi errori della sua amministrazione e l’uccisone dell’Ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens, nel 2012 a Bengasi, è una ferita ancora aperta.
Entrambi gli episodi, e il caos che ne derivò, sono avvenuti durante il regno di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato, dal 2009 al 2013, e non sono belle referenze. Non è quindi strano che in questi giorni di duro scontro fra i candidati sulle strategie e capacità in politica estera, Obama tenda a mostrarsi “Presidenziale” per tirare la volata a Hillary.
Il terzo elemento dovrebbe esserci ma purtroppo non c’è: il ruolo dell’Italia. Nonostante il nostro paese vanti una posizione geografica strategica e, probabilmente, le migliori nozioni di intelligence sul contesto libico, oggi lo schieramento sul campo vede la presenza di piccoli contingenti di forze speciali di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia oltre allo schieramento aeronavale di uguale composizione. L’utilizzo della stessa base di Sigonella suscita perplessità e discussioni.
Peraltro occorre sottolineare che gli USA hanno deciso di rispondere in totale autonomia alla richiesta libica utilizzando perfino le basi in Giordania ma non avanzando alcuna richiesta, fino ad oggi, né su Sigonella né su altre basi o supporto. Quindi sembra essere in corso una spartizione per sfere di influenza in Libia, simile a quella del primo dopoguerra, dove sono coinvolti Usa, Francia, Gran Bretagna, Qatar, Egitto, Arabia Saudita, Turchia ma non l’Italia. Questa è la conseguenza della mancanza di politica estera e di una visione del quadro che oramai non abbraccia neppure più il mare nostrum.
Per contro l’Italia sarà chiamata a pagare tutte le conseguenze negative di una crescita di tensione del teatro libico a guida statunitense. Il presumibile aumento dei flussi migratori avrà come prima sponda le coste italiane e la nostra Marina Militare dovrà svolgere la funzione di traghetto per profughi mentre le unità militari degli altri paesi presenti in zona si occuperanno di garantire posizioni di forza per i propri interessi nazionali.
Per buona misura lo stesso Serraj ha dichiarato pochi giorni or sono che il suo governo non accetterà rimpatri di profughi dall’Italia e ha sempre fatto orecchie da mercante alle richieste italiane di contrastare l’attività degli scafisti libici, che costituiscono ormai una buona parte del PIL presunto dei territori che dichiara di avere sotto controllo. Stessa situazione è ipotizzabile per le decine di combattenti dell’IS che filtreranno tra le maglie dell’assedio di Sirte e che rischiamo seriamente di trovarci in casa. Non più i soliti cani sciolti convertiti su internet ma guerriglieri professionisti e combattenti esperti il cui contrasto rischia di sovraccaricare e cortocircuitare il pur validissimo sistema di monitoraggio e controllo delle nostre forze di sicurezza e intelligence.
Prima o poi l’Italia finirà per cedere, senza condizioni, alle pressioni di un coinvolgimento attivo nelle politiche di avventurismo militare USA, specie se dovessero arrivare da un’icona della sinistra come Hillary Clinton, che ha già portato a stalli fallimentari in Siria, Iraq e Afghanistan. E non mancherà neppure l’appoggio di quei politici “di destra” che di fatto costrinsero Berlusconi ad avallare l’azione contro Gheddafi, con i bei risultati che oggi constatiamo. Il tutto, lo sottolineo ancora perché mi sembra il dato realistico essenziale, senza contropartite.
Così è. A questo punto poco si può fare, anche perché in nostri “alleati” hanno dimostrato di non tenere in alcun conto la posizione italiana. L’unica possibilità di cavarne qualcosa anche ora sarebbe quella di sfidare la pelosa riprovazione internazionale mettendosi di traverso, per quanto possibile, fino a quando il governo libico non autorizzerà azioni di polizia sulle sue coste non solo contro l’IS ma anche contro i mercanti di profughi che hanno come meta le coste italiane. Nel caso, oggettivamente improbabile, di una normalizzazione sarebbe anche opportuno sottolineare le decine di miliardi di dollari investiti da aziende italiane in prospezioni ed infrastrutture in Libia, non solo ai tempi di Gheddafi.
Naturalmente per farlo ci vorrebbe una politica estera diversa, di lungo corso, portata avanti ai massimi livelli, magari con l’Iphone spento per qualche minuto, possibilmente non con quell’atteggiamento da “ganassa” in vacanza che ha il nostro Presidente del Consiglio quando è in visita all’estero.